Essere cristiani oggi

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eusebi omofobia

L’Osservatore Romano del 3 settembre scorso ha pubblicato un’ampia intervista al cardinale Zuppi, arcivescovo di Bologna e presidente della Conferenza episcopale italiana, realizzata dal direttore Andrea Monda e da Roberto Cetera.

Il ventaglio di temi trattati, proposti su una griglia di domande ben congeniate e poste in modo che gli argomenti trattati non apparissero generici, ma, ancor più, le riflessioni approfondite del cardinale, inducono a tornare più volte sullo scritto. Ne viene fuori, infatti, una sorta di “manifesto” che, mentre non tace alcuni aspetti cruciali dell’odierna crisi di fede che investe la Chiesa italiana, al contempo tratteggia, con linguaggio pacato e parole di speranza, orizzonti nuovi per ridire nuovamente il Vangelo nel nostro contesto attuale.

Così, dalle parole del presidente della CEI viene fuori la postura di una Chiesa che conversa con l’uomo del nostro tempo, che si mette in ascolto dei cambiamenti antropologici e sociali in atto senza pregiudizio, che cerca umilmente parole nuove per non restare afona sui principali aspetti della fede e della vita.

Come essere cristiani oggi?

Ma, soprattutto, se c’è un leitmotiv che in filigrana attraversa l’intervista, questo può essere rintracciato in un interrogativo su cui il cardinale ritorna spesso: come essere cristiani oggi? In prima battuta, Zuppi afferma che, senza rimpianti per il passato e senza fughe in avanti, la Chiesa deve comprendere i cambiamenti antropologici del nostro tempo e chiedersi: «perché la bellezza umana dell’essere cristiani non attrae?».

Evocando poi il simbolo dell’acqua che disseta il popolo nel suo lungo e faticoso cammino nel deserto, Zuppi afferma che viviamo in un tempo di desertificazione spirituale, ma «ci deve essere anche l’acqua», perché il deserto esprime anche sempre la sete e quindi la ricerca dell’acqua; e, allora, «Dobbiamo guardare alla sete, non lamentarci del deserto. Soddisfare questa sete significa spiegare, e ancor più mostrare, com’è vivere da cristiani oggi».

Il tema ritorna ancora, perché su tutto – anche sull’importanza dei temi etici o dell’impegno politico – alla Chiesa deve stare a cuore la costruzione del «profilo attuale del cristiano, cioè dell’uomo evangelico, che è quello di sempre ma che deve parlare all’uomo di oggi».

E, sul finire dell’intervista, l’interrogativo viene posto come elemento cruciale dello stesso percorso sinodale: «Che vuol dire essere cristiano oggi? Cosa mi chiede la Chiesa di essere?».

Quale cristianesimo

Potrebbe sembrare un’ovvietà, eppure le riflessioni teologiche degli ultimi decenni concordano nell’individuare i motivi della crisi di fede non solo e non tanto ai profondi e rapidi cambiamenti della società secolarizzata e alle sue inevitabili conseguenza antropologiche ed etiche, quanto invece alla costante e sordida debolezza del cristianesimo stesso, spesso appesantito e spento, ridotto a una realtà epidermica ed esteriore, di apparato e di tradizione, tendenzialmente devozionale. Una realtà nella quale – come spesso profeticamente richiamato da papa Francesco – si assiste alla ripetizione talvolta meccanica di un alfabeto fatto di parole, di riti, di liturgie, dentro a un impianto che appare stantio, intimista, poco appassionato e appassionante.

Un mondo in cui la conservazione delle «cose» che esprimerebbero una presunta identità cristiana ha da troppo preso il posto di quella gioia del Vangelo di cui il papa argentino parla come la prima ed essenziale realtà con cui venire a contatto, per lasciarsi sorprendere, toccare e cambiare.

In una parola: esiste un cristianesimo ridotto a tradizione culturale, a visione morale, a insieme di pratiche devozionali che placano i travagli dell’anima, ma il rischio è quello di portare avanti un «cristianesimo senza Cristo».

Tornare a Gesù

Cosa significa allora essere cristiani? Il noto teologo Hans Küng, nel famoso best-seller Essere cristiani oggi, rispondeva a questo interrogativo con venti tesi, che vale la pena richiamare. Nelle prime tre, infatti, scrive:

«Cristiano non è semplicemente chi si impegna a vivere in una dimensione umana o sociale o, in particolare, religiosa. Cristiano è piuttosto e soltanto chi si impegna a vivere la propria umanità, socialità e religiosità riferendole a Cristo. Specifico e peculiare del cristianesimo è lo stesso Gesù Cristo».

Perciò continuava: «Essere cristiani significa: vivere, agire, soffrire e morire in modo veramente umano, seguaci di Gesù Cristo nel mondo d’oggi». La sequela di Gesù, il riconoscerlo come Signore della vita e della morte, il mettersi dietro di lui assumendo il suo stile, i suoi sentimenti, la compassione del suo agire vengono prima dell’apparato religioso, della visibilità delle strutture o delle norme morali; Hans Küng lo esplicita ulteriormente nelle tesi finali: «L’elemento distintivo dell’agire cristiano è la sequela di Gesù».

Anche Karl Rahner è tornato spesso sul tema, in molti dei suoi saggi. Di grande attualità una sua intervista rilasciata alla rivista svizzera Civitas, addirittura nei primi anni Ottanta. In essa, a coloro che lo definiscono teologo «antropocentrico», Rahner risponde: «Questa è un’affermazione totalmente priva di senso. Vorrei essere un teologo, il quale dice che Dio è la cosa più importante, e che noi esistiamo per amarlo in una forma dimentica di noi stessi».

Se il problema principale del nostro tempo è «la dimenticanza di Dio», Rahner è convinto che «la Chiesa, anche nei suoi massimi rappresentanti, non si sforzi ancora in maniera realmente radicale di sviluppare quell’esperienza mistica di Dio nel singolo uomo e inoltre di renderla, per così dire, socialmente accettabile, comprensibile a grandi masse, come sarebbe invece necessario».

In questo senso, afferma il teologo tedesco, è anzitutto importante attuare una «predicazione di Gesù dal basso», capace di presentare in maniera viva «la vera, semplice, autonoma, sperimentabile umanità di Cristo»; in secondo luogo, occorre stabilire senza tentennamenti le priorità:

«L’apparato ecclesiastico – scrive Rahner – con tutti i sacramenti e i funzionari romani, i vescovi e le chiese fino alle tasse ecclesiastiche ecc., esiste solo per destare un pochino di fede, speranza e amore nel cuore dell’uomo… Se lo si ottiene, tutto questo grande impiego di energie è giustificato, ma se non ci si riesce, tutto il resto è inutile. In ultima analisi, la cosa più importante è che un uomo abbandoni a Dio la sua vita, senza alcuna riserva, responsabilmente e nell’amore del prossimo; tutto il resto è mezzo per questo fine».

La normale vita del cristiano, infatti, è una storia semplice, senza molti avvenimenti eclatanti o spettacolari. Rahner afferma di aver vissuto così:

«A mio giudizio, la normale vita cristiana assomiglia a ciò e anche il mio compito è stato questo. Ho lasciato alle mie spalle una vita di maestro di scuola che non ha conosciuto né dei vertici eroici, né grandiosi sconvolgimenti… Perciò non c’è molto da dire se non: “afferra l’istante; cerca di fare quello che può essere chiamato molto semplicemente anche il tuo dovere! D’altra parte, vivi costantemente in maniera nuova il fatto che il mistero indicibile, che chiamiamo Dio, non solo governa e vive, bensì ha avuto l’inverosimile idea di avvicinarsi a te con un amore del tutto personale. Rivolgi il tuo sguardo a Gesù Cristo, il crocifisso; solo così puoi accettare la tua vita, qualunque cosa succeda”».

Ripartire

Dinanzi ai numerosi cambiamenti della nostra epoca, che determinano come afferma Papa Francesco un «cambiamento d’epoca», e dinanzi alle numerose sfide che riguardano la crisi della fede, il cardinale Zuppi incoraggia un cammino ecclesiale e sinodale che, vincendo sia la tentazione del lamento che quella di una rassegnata ritirata dalle scene, torni a interrogarsi su cosa significhi essere cristiani oggi, su come agire e vivere da cristiani nella società attuale, su quali parole trovare per annunciare nuovamente la fede cristiana.

Ciò è possibile solo attraverso una sorta di «terapia d’urto», forse dolorosa ma necessaria: non continuare in modo reiterato a praticare registri ecclesiali, pastorali e spirituali per inerzia e come se nulla fosse, ma avere il coraggio di rinunciare magari anche a molte delle nostre attività e delle nostre prassi pastorali e sacramentali, per ritornare ad annunciare Gesù, il Crocifisso Risorto.

Se non vogliamo fuggire dalla realtà e ammettiamo con consapevolezza che le persone a cui ci rivolgiamo oggi, nella maggior parte dei casi sono indifferenti al problema di Dio, apatici, lontani, estranei o addirittura increduli, non abbiamo bisogno in prima battuta di presentare a queste persone tutta la pesantezza dell’apparato, tutte le norme morali, tutte le rubriche dei riti religiosi ma, al contrario, occorre permettere che esse, dal di dentro della loro stessa esperienza di vita per lo più immersa nella normalità del quotidiano, possano in qualche modo conoscere Gesù e il suo Vangelo, magari attraverso quelle che Rahner chiamava le «formule brevi» della fede: un annuncio semplice, diretto, mistagogico, puntato su Gesù e sulla speranza che le sue parole emanano.

In fondo si tratta di un primo e nuovo annuncio che, però, nelle nostre comunità cristiane, troppo esposte nell’impiego di molteplici energie per portare avanti le cose di sempre e garantire la continuità dell’esistente in termini di liturgie e sacramenti, non trova ancora sufficiente spazio. Né tantomeno trova pastori e operatori laici che vi si possano dedicare con libertà e con il tempo necessario che un simile lavoro impone.

Eppure si riparte da qui, perché «non c’è alcuna dottrina, alcuna struttura di valore morale, alcun atteggiamento religioso e ordine di vita, che possa venir separato dalla persona di Cristo, e dei quali poi si possa dire che sono l’essenza del cristianesimo. Il cristianesimo è egli stesso» (R. Guardini, L’essenza del cristianesimo, Morcelliana, Brescia 1980, 83).

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6 Commenti

  1. Giuliana Babini 13 settembre 2022
  2. Pietro 10 settembre 2022
    • Tobia 11 settembre 2022
      • Pietro 12 settembre 2022
        • Tobia 13 settembre 2022
  3. Romolo Gilardini 10 settembre 2022

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