Grazie, Benedetto

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Lo scorso Venerdì santo Stefan Oster, vescovo di Passau (diocesi della bassa Baviera), ha pubblicato sul suo sito Internet un commento al controverso saggio di Benedetto XVI sugli abusi nella Chiesa in cui esprime un’opinione diversa da quella negativa di tanti altri, tra cui moralisti e teologi, e la sua grande riconoscenza per quello scritto.

Il papa emerito Benedetto XVI ha espresso un suo parere, e non perché – a mio modo di vedere – non intenda mantenere una presunta promessa di silenzio, che non ha mai fatto. E nemmeno interviene con presunzione su eventi da cui da lungo tempo è estraneo. A scrivere non è una persona anziana che vuole giustificarsi, ma che non ha alcuna idea della realtà della vita.

Io leggo il testo semplicemente come un’espressione del suo cammino, della sua condivisione, della sua compassione per la Chiesa, per la situazione storica in cui ci troviamo e a cui siamo giunti, per le persone che operano nella Chiesa e per quanti, anche dalla Chiesa, sono stati trattati male.

Il testo intende illustrare gli avvenimenti che si sono sviluppati – nella società e nella Chiesa – per imparare da essi e per meglio comprendere chi è o che cos’è e può essere la Chiesa nella sua natura profonda, e cosa pertanto è necessario fare.

Crisi delle teologia morale, il martirio e l’assenza di Dio

Vorrei solo sottolineare tre aspetti fondamentali che Benedetto XVI ha illustrato in questo ordine – e che sono tra loro strettamente connessi: la crisi della teologia morale, l’assenza di Dio e il martirio.

Questi punti, in particolare il secondo, sono stati a malapena ricordati nei commenti frettolosi ed emotivi. Questo – a mio parere – è già un segno che Benedetto XVI indica qualcosa di centrale. L’assenza di Dio nei commenti è così poco percepita e presa sul serio che la sua presenza non figura nemmeno più come tema.

La realtà in cui si crede cambia il comportamento

La nostra fede insegna che il Dio della Verità e dell’Amore si è rivelato in Cristo e che questi è in mezzo a noi, realmente presente, in particolare nell’eucaristia. Il comportamento di un credente nei riguardi di questa presenza è determinato dalla qualità, dalla profondità, dall’intensità del suo fiducioso assenso ad essa. Se io realmente credo che il Signore è presente nella comunione, ciò determina il modo con cui mi pongo davanti a lui, come lo adoro, come sto alla sua presenza. Al contrario: più debole è il mio assenso alla presenza di Dio nell’eucaristia, tanto meno essa influirà sul mio comportamento.

Si tratta della qualità del rapporto

Avviene come davanti a una persona di riguardo: sì, certo, ci sono determinate regole di comportamento nei riguardi degli altri, ma più profondo è il mio rispetto e la mia stima per l’altro, più ciò influirà sul mio pensiero e sul mio comportamento davanti a lui. Si tratta della qualità della relazione.

La fede è relazionale e la profondità dell’assenso interiore a questa presenza dice quanto è determinante per me questa realtà! Se la persona trova difficile dire il suo sì interiore a questa presenza, rimarrà “chiusa in se stessa”, non ne sarà influenzata, si accontenterà solitamente di puri convenevoli, ma niente di più.

Assenza di Dio non significa che Dio è realmente assente, ma che la fede nella sua presenza è scalfita, altrimenti uno non cambia il suo comportamento quando la Chiesa nella sua fede professa che Dio è presente nella sua Chiesa, è presente nell’eucaristia, nei sacramenti, nella sua Parola e nel suo agire amorevole.

Decido io che cos’è la libertà

Se l’assenza di Dio diventa il “clima” dominante o se la sua affermata presenza si riduce semplicemente a un pio pensiero, allora la persona tenderà soprattutto a determinare da se stessa che cos’è la libertà e in quali ambiti della vita si sente libero.

Potere, sesso e denaro sono sempre stati in tutti i tempi le grandi e permanenti sfide dell’uomo e il Vangelo, in tutti questi punti, è molto chiaro ed esplicito: coloro che credono in Gesù sono provocati e invitati a seguirlo nella rinuncia a un potere che vuole dominare sugli altri, a un possesso che ostacola l’ingresso nel regno di Dio e ad accogliere l’invito a vivere la forza e la bellezza della sessualità là dove è posta a servizio dell’amore e della (nuova) vita e non dove è determinata, in primo luogo, dall’impulsività egocentrica.

Esiste un male in se stesso?

Benedetto pone alla teologia morale la domanda decisiva, ossia se esiste l’“intrinsece malum”, il male in se stesso. Ci sono degli atti malvagi che sono sempre e in ogni circostanza tali, oppure dipende sempre dal tempo, dalle circostanze e dalle possibili conseguenze determinare se un atto è buono o cattivo?

A questo interrogativo – a mio parere – si può rispondere in maniera positiva solo a partire dalla contrastante esperienza religiosa che il bene e il vero sono semplicemente presenti. Un male in se stesso o un atto malvagio c’è solo in riferimento al Vero e al Bene assoluto. Altrimenti, il soggetto che giudica rimane l’unica norma mentre, in quanto creato e limitato, è chiamato a collocarsi sempre in una storia e in circostanze che lo rendono relativo.

L’assoluto e il martirio

Solo l’incontro con il Vero e il Bene assoluto può, a partire di qui, spiegare quale atto è in se stesso sempre e in ogni circostanza buono o cattivo. Proprio per questo Benedetto, alla fine del suo articolo, richiama l’attenzione sul martirio, sulla testimonianza del dono della vita a Cristo che tante persone hanno dato nel cristianesimo. Il martire crede che “c’è una verità che è più grande e più profonda di me. Ed essa è qui. Su di essa si misurano la mia vita e il mio comportamento. Solo per questa verità posso vivere e morire”.

Se la presenza di Dio non è più creduta, scompare anche il martirio

Benedetto ha ragione: se Dio non è più creduto presente, la valutazione di ciò che è peccato si sposta soprattutto nel mio giudizio soggettivo. Oppure si formano – all’occorrenza – delle alleanze in un soggettivismo collettivo. Ambedue, il soggettivismo individuale e quello collettivo, devono necessariamente escludere l’assoluto Vero e Bene in sé. Esso costituirebbe una pericolosa minaccia. Perciò, giudicando in base a un soggettivismo individuale o collettivo, non esiste più in nessuna circostanza il “male in sé”, nemmeno negli ambiti del potere, del sesso e del denaro.

E anche le risorse per contrastare le pulsioni egocentriche che sento dentro di me restano molto limitate. O, al contrario: con il mio instabile modo di ragionare trovo ben presto dei motivi sufficienti per cui l’atto prima definito cattivo adesso può dirsi perfino buono.

In conclusione: se la presenza di Dio non è più creduta, scompare in definitiva anche il martirio, perché non esisterebbe più una verità complessiva per cui valga la pena dare la propria vita.

Benedetto ha fatto riferimento al nucleo centrale della fede e alla nostra precaria relazione nei confronti di questa verità: la presenza reale del Signore nella sua Chiesa tutto cambia se è creduta. Perciò gli sono molto riconoscente.

+ Stefan Oster

Vescovo di Passau

 

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4 Commenti

  1. Andrea Coffa 28 aprile 2019
  2. roberto fiori 27 aprile 2019
  3. Antonio Schermidori 27 aprile 2019
  4. Giovanni Trucchi 27 aprile 2019

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