L’insaziabile bisogno di rappresentazione

di:

sinodalita

La recente apertura di una via parallela al Cammino Sinodale della Chiesa tedesca da parte di un piccolo gruppo di partecipanti (quattro su trentacinque) al primo forum su “Potere e divisione dei poteri nella Chiesa”, coagulatosi intorno a mons. Vorderholzer, vescovo della diocesi di Regensburg, con il lancio di un sito alternativo rispetto al lavoro comune svolto finora, mette in risalto una questione irrisolta nel cattolicesimo occidentale.

Questione trasversale ai vari schieramenti ideologici e di parte che contraddistinguono oggi (anche) la Chiesa cattolica: si tratta di quello che chiamerei un insaziabile bisogno di rappresentazione di sé, in tutto quello che concerne la configurazione istituzionale e pastorale della Chiesa. Ossia, vi è uno scarsissimo livello di tolleranza nell’accettare una progettualità condivisa che non sia perfettamente speculare alla propria personale visione della Chiesa e della sua missione.

L’inospitalità della rappresentazione

Tanto la necessità urgente di una riconfigurazione del potere e della sua gestione nella Chiesa (la posizione della maggioranza del gruppo che ha redatto il documento di lavoro che verrà discusso nella prossima plenaria del Cammino Sinodale), quanto il richiamo accorato alla dottrina della Chiesa e alla sua universalità (proclamato dalla minoranza che, di fatto, è uscita dalla fatica comune di trovare vie adeguate per l’esercizio del potere nella Chiesa), sono sostanzialmente una funzione messa a servizio del ritrovamento speculare di sé in una processualità che avrebbe voluto e dovuto essere comune e condivisa.

Tale bisogno insaziabile di rappresentazione totale di sé rende praticamente impossibile qualsiasi esercizio condiviso dell’intelligenza culturale della fede nella Chiesa odierna. Questo perché inietta nei processi di pensiero collettivo un massimalismo che interdice in radice qualsiasi negoziazione in vista del raggiungimento di un risultato mediato (e meditato) che possa fare uscire la Chiesa dalle secche in cui sembra essersi arenata.

E questo non accade solo in Germania o nelle grandi decisioni che delineano il destino della comunità cattolica nell’Europa contemporanea. Lo vediamo all’opera ogni giorno anche nelle comunità locali – sovente su questioni francamente irrisorie.

Il massimalismo della rappresentazione di sé, portato avanti a colpi di maggioranza o attraverso la rivendicazione insindacabile del magistero della Chiesa, non conduce da nessuna parte e non fa altro che approfondire i fossati che dividono i credenti nella Chiesa odierna.

L’intolleranza che esso genera si traduce, poi, nell’apertura di vie parallele e alternative che sono sostanzialmente fini a sé stesse e del tutto inospitali (volutamente inospitali) per chiunque non condivida tale rappresentazione.

In tempi in cui si fa un gran parlare di sinodalità, il fenomeno è certamente preoccupante: è come se non disponessimo più delle capacità e dei luoghi in cui comporre sensibilità diverse della fede in un progetto condiviso che non è la risultante speculare delle singole persone che a esso hanno messo mano.

Le teologhe italiane

Eppure, qualche esercizio virtuoso di ascetica rinuncia a questa ossessione della rappresentazione totale di sé lo abbiamo – e da esso dovremmo tutti apprendere. Penso qui al recente intervento del Consiglio di presidenza del Coordinamento delle teologhe italiane sul DDL Zan – il meglio espresso dal cattolicesimo italiano in materia. Si tratta di un testo pensato, sensato e consapevole delle molte ambivalenze che sottostanno tanto al decreto quanto alla questione nel suo complesso.

Ma è anche un testo sofferto – nel senso che ha chiesto a ciascuna di coloro che a esso hanno lavorato di non pretendere di fare di questo testo il rispecchiamento totale della propria personale visione in materia. E lo ha chiesto anche a tutte (e tutti) le appartenenti al CTI – riuscendoci, a quanto pare, dato che non abbiamo visto fino a questo momento il Coordinamento scomporsi nei molti rivoli delle diverse rappresentazioni che lo attraversano.

Tutto questo ci insegna una cosa: per arrivare a fare una cosa insieme, condivisa proprio perché non è solo il rispecchiamento di alcuni (fosse anche la maggioranza), bisogna lentamente e tenacemente imparare a lavorare insieme (riconoscendosi anche in qualcosa che solo parzialmente corrisponde alla nostra prospettiva). Esercizio che non si inventa da un giorno con l’altro.

Per la Chiesa italiana, che dice di voler attuare l’indicazione di papa Francesco di entrare in un processo sinodale comune, questo luogo di esercizio collettivo del pensiero e del discernimento civile e pastorale rappresenta una risorsa a cui rivolgersi per apprendere l’arte non facile del lavorare insieme. Un patrimonio che la Chiesa italiana ha e che non è presente in molte altre Chiese locali – generosamente fatto circolare dalle teologhe italiane nel vissuto quotidiano del nostro cattolicesimo.

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2 Commenti

  1. Elisabetta Manfredi 7 settembre 2021
  2. Tobia 6 settembre 2021

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