Jean-Marie Tillard e il polygonum

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vangelo

Jean-Marie Tillard

Caro don Francesco, grazie per il tuo articolo su p. Tillard e il polygonum. Mi sento in piena comunione con quello che scrivi. Poco a poco, mi sono convinto che ci troviamo agli inizi di una nuova era della Chiesa.
È sempre la stessa radice che riprende vita ogni volta, ma in forme nuove che nessuno mai aveva ancora immaginato. Si deve andare oltre le dicotomie: cristiani/pagani, cattolici/protestanti… Intravedere una nuova nascita del Vangelo; quella che ci hanno annunciato Charles de Foucauld, Teresa di Lisieux, Dietrich Bonhoeffer, Etty Hillesum, Tierno Bokar…
Giovanni XXIII e Francesco ci spingono in questa direzione; speriamo che a loro seguano altri profeti. Si deve passare da una Chiesa dei ministeri, che organizza un terreno già acquisito in maniera troppo cristologica, a una Chiesa dei carismi, che non organizza ma discerne, sente, accompagna. Una Chiesa dello Spirito per la fraternità universale.
So che vi è un pericolo, ma non si dovrebbe forse salvaguardare ciò che vi era di giusto nell’intuizione di Gioacchino da Fiore? Oramai sono molto anziano e non ho più le forze di un tempo, ma mi piacerebbe lavorare ancora un po’ in questa direzione. Ti ricordo nella preghiera.

Ghislain Lafont

In questo periodo si moltiplicano gli studi e gli interventi sulla fede degli italiani, la religiosità, la crescita dell’ateismo e dell’agnosticismo, l’abbandono della Chiesa, e l’incertezza sul futuro è palpabile. Si invocano riforme riguardanti la formazione del clero, che diminuisce inesorabilmente, la vita dei presbiteri e dei religiosi, una nuova sensibilità liturgica, il rinnovamento della catechesi.

Sembra che tutto vada a catafascio e c’è chi si rifà alle parole inquietanti di Gesù di Nazaret: «Il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?» (Lc 18,8).

Ho ripreso in mano uno scritto del teologo francese Jean-Marie Tillard: Siamo gli ultimi cristiani? Testo di una conferenza pubblica a conclusione di un colloquio tenutosi il 24-25 novembre 1996 al Collegio universitario domenicano di Ottawa, in occasione della presentazione di un volume a lui dedicato come professore alla facoltà teologica del Collegio dal 1958.

Un testo commovente e inquietante, suggestivo ed emblematico. Parte dalla vicenda dell’ebreo Yossel Rakover, che, in mezzo alla barbarie nazista del ghetto di Varsavia nel 1943, grida a Dio e confessa la sua fede nonostante il silenzio dell’Eterno.

Conoscevo Tillard: teologo di fama internazionale, perito al concilio Vaticano II, scrittore di valore, appassionato uomo di dialogo sia con l’ortodossia che con il mondo anglicano. Aspetto imponente ed elegante, sguardo profondo, con un non so che di triste dentro. Lo raggiunsi ad Ottawa verso la fine della sua vita, colpito da un tumore inguaribile. Faceva molto freddo, cosa che aveva anche un significato simbolico.

Freddo perché i passi dell’unione dei cristiani erano lentissimi. Non mi spiegavo diversamente il ricorso alla vicenda di Yossel Rakover e il suo grido, quasi bestemmia: «Credo nel Dio d’Israele, anche se ha fatto di tutto per distruggere la fede che ho in lui».

Vangelo

Isola di Saint-Pierre et Miquelon

Tillard, che avevo davanti a me al Collegio domenicano, nella sua stanza colma di libri d’ogni genere, mi parlava con voce dolce e misteriosa di un uomo che, nel freddo, nella tempesta, nel silenzio della notte, nell’aspra e continua lotta contro il male, continuava a gridare la sua fede. Quando mi parlava, era la storia della Chiesa che mi passava davanti: quella delle origini e quella del presente. Chiesa locale come comunione e Chiesa universale, comunione di Chiese. Citazioni a non finire sia della Scrittura che della Tradizione, riferimenti a concili d’ogni epoca, a scritti di padri antichi e a testi di teologi.

M’impressionò il riferimento al polygonum, un arbusto della sua isola di Saint-Pierre e Miquelon nell’Atlantico. «È un arbusto che mi piace molto: per il suo colore, la sua eleganza, il suo cespuglio, la sua funzione ecologica e, soprattutto, per il suo simbolismo. Se un polygonum spunta da qualche parte, voi non riuscirete più a farlo sparire. Con vostra sorpresa, un bel giorno riapparirà, poi si riprenderà. Basta un minuscolo pezzo di radice nascosta tra due zolle di terra perché riprenda a vivere. Perché?  Innanzitutto, non v’è dubbio, perché è una pianta forte, che resiste a tutte le violenze del tempo e degli uomini, che lo sradicano, lo falciano, lo bruciano con diserbanti perversi.

Ma, soprattutto, perché c’è un segreto accordo tra questa pianta e il terreno, arricchito e purificato dai sali minerali, di cui sono piene le sue radici. La terra della mia isola sassosa, che venti spesso violenti flagellano, ha fatto alleanza con il polygonum per non diventare una roccia sterile. Trovo che i suoi denigratori sono ingrati nei suoi confronti».

Continuò il grande teologo: «Il simbolismo è chiaro. Nel più profondo del desiderio, c’è un’alleanza tra l’umanità, anch’essa sconvolta dagli uragani, e il Vangelo. Se voi tentaste di sradicarlo, questo, un giorno, riemergerà, nonostante le vostre persecuzioni, i vostri bagni di sangue o le vostre propagande ideologiche. Perché, in forza dell’appello radicato da Dio nel suo desiderio, l’umanità rifiuterà sempre di essere senza speranza».

Il male galoppava. Il cancro non gli dava tregua. Terminò la nostra conversazione con una riflessione che mi lasciò senza parole.

Vangelo

Polygonum

«A rischio di sembrare anacronistico, voglio finire affermando la necessità della contemplazione. Penso, infatti, che senza di essa non si possa capire che cosa implichi questa fiducia, di cui ho parlato. Yossel Rakover, Teresa di Lisieux, sono dei contemplativi. Scoprono in sé stessi, nelle lacrime e nel silenzio, uno spazio misterioso abitato dallo Spirito di Dio. Qui s’inserisce la certezza della fedeltà. Una certezza testarda… Essa porta con sé un’immensa libertà e la pace. Anche se capita che la Chiesa faccia soffrire, che gli uomini di Chiesa siano ingiusti e ottusi».

Così incontrai Tillard, a due passi dalla sua morte, nel freddo gelido dell’inverno canadese in attesa della primavera, quando il polygonum, facendosi beffa dei suoi denigratori e di quanti si sforzano di estirparlo, diventa un arbusto che continua a dare vita all’isola sbattuta dalle tempeste.

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3 Commenti

  1. Martinez Gordo 1 settembre 2020
  2. Michael Amaladoss 1 settembre 2020
  3. Marcello Matté 1 settembre 2020

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