La Chiesa francese va in periferia

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Rapporto sulla Chiesa in periferia

Fin dall’inizio del pontificato di papa Francesco il termine “periferia” – che il dizionario indica come “circonferenza”, la parte più esterna rispetto al centro, l’insieme dei quartieri più lontani dal centro di una città, e anche ciò che è marginale, secondario – con sempre più evidenza ha assunto una valenza tutta nuova, e non solo all’interno dei confini strettamente ecclesiali.

Periferia è la “direzione” verso cui orientare la missione del cristiano. Sono infatti le periferie – geografiche, economiche o esistenziali – i luoghi che la Chiesa, da sempre, ma soprattutto oggi, è chiamata ad abitare. Un concetto che, se all’interno rappresenta una sorta di inversione dei temi all’ordine del giorno, anche all’esterno appare decisamente innovativo e rappresenta uno dei tanti motivi che hanno indotto una diversa percezione (nella direzione di un apprezzamento) della Chiesa nella società.

«Ascoltare la Parola di Dio, camminare, annunciare fino alle periferie» indicava infatti Bergoglio ai preti. E ai catechisti: «Bisogna saper uscire, non aver paura di uscire, andare con Lui nelle periferie». In sintesi: «Quando la Chiesa è chiusa, si ammala. La Chiesa deve uscire verso le periferie», perché «dobbiamo fare attenzione a non chiudere dentro Gesù, a non farlo uscire».

Tra i più decisi in questo cambio di passo i vescovi di Francia, come riconosce Pascal Delannoy, vescovo di Saint-Denis e vicepresidente della Conferenza episcopale francese, presentando nelle settimane scorse il 2° Rapporto sulla Chiesa in periferia: «È lo stesso papa Francesco che ci chiede ripetutamente di andare nelle periferie, a spronarci gli uni gli altri ad abbattere le barriere che ci impediscono di vederle».

Era dello scorso anno (giugno 2016) il 1° Rapporto: un sondaggio sulla percezione della Chiesa da parte dell’opinione pubblica francese cui si affiancava una sorta di fotografia dell’esistente in termini di associazioni, movimenti e realtà parrocchiali di volontariato, ma risale all’assemblea d’autunno del 2014 la scelta precisa di imboccare la strada indicata da Bergoglio.

La svolta del 2014: volgere lo sguardo alla fragilità

«Molti settori della Chiesa stanno già lavorando quotidianamente per annodare o riannodare i legami di una società più solidale e fraterna: tanti sono presenti e attivi nei quartieri cosiddetti “difficili”, delle città e anche nel mondo rurale… Là dove la persona (precari, anziani, disabili, malati…) è spesso percepita come un peso e la sofferenza fa regredire la dignità, gli operatori ecclesiali sono impegnati a risvelare tutta la ricchezza nascosta. Lì, nelle periferie urbane dove le relazioni interpersonali possono essere indebolite a causa di differenze culturali o religiose, o ancor di più nelle zone rurali, dove viene quasi ostacolato l’inserimento sociale, quanti operano in nome della Chiesa si impegnano ad abbattere muri e annodare legami. Essi vivono per dare vita alla Chiesa in periferia a cui papa Francesco ci chiama – diceva Denis Moutel, vescovo di Saint-Brieuc, in Bretagna, presidente della Commissione per la pastorale giovanile della Conferenza episcopale francese –. Al cuore di questa “Chiesa in periferia” dobbiamo mostrare e fare fruttificare gesti di fraternità, vivere insieme e rafforzare i legami sociali che ci uniscono. Tutti insieme (movimenti, associazioni, diocesi, centri sociali…) dobbiamo condividere esperienze “di successo” e continuare a innovare nelle nostre pratiche. Dobbiamo essere capaci di inventare ancora».

Con il “Progetto Chiesa in periferia” i vescovi si proponevano quindi di mettere in evidenza le iniziative creative dei legami creati dalla Chiesa ai margini della società, intendendo per “periferie” tutte le realtà in disagio, dalla sofferenza geografica o esistenziale qualunque sia, interna o esterna, ai deficit di collegamento – aree peri-urbane o rurali –, fino alle diverse esperienze di disabilità, di reclusione, di vagabondaggio.

La realtà di una presenza forte dei religiosi

Sostieni SettimanaNews.itIl Rapporto 2017, realizzato in collaborazione con il CORREF (la Conferenza delle religiose e dei religiosi di Francia), fotografa le diverse modalità con le quali le persone consacrate vivono e operano nelle periferie. Al fine di ottenere un quadro il più possibile completo della realtà è stato condotto un sondaggio, curato da suor Véronique Margron, presidente di CORREF, e ai risultati si è aggiunta una serie di relazioni dedicate alle iniziative avviate da congregazioni religiose in tutta la Francia.

Se i dati emersi, illustrati attraverso schemi e diagrammi che ne facilitano la lettura (una caratteristica comune agli episcopati europei è quella di corredare i documenti con fotografie e tabelle di vario tipo), costituiscono la prima parte del documento, la seconda esplora la situazione nella realtà concreta attraverso racconti in prima persona, interviste, ritratti e storie che illustrano la ricchezza e la fertilità di queste nuove forme di convivenza vissuta insieme ai più fragili ed emarginati della società.

È lì che la stragrande maggioranza dei francesi lo scorso anno riconosceva o si aspettava di veder lavorare la Chiesa: «non si tratta di concedere un po’ di tempo ai più svantaggiati – scrive nella presentazione il vescovo Delannoy – ma di condividere la propria vita con loro e da questa esperienza nessuno ne può uscire indifferente!».

Le 25 pagine del Rapporto costituiscono un invito ad addentrarsi nei meandri di una presenza, quella dei religiosi, non sempre così conosciuta nelle sue modalità odierne: è più facile che la mente vada alle strutture ospedaliere o educative piuttosto che a realtà di strada, spesso autentici segni tanto inattesi quanto profetici. «Come non essere toccati dalla ricchezza spirituale che si sprigiona da queste esperienze e ci contagia l’un l’altro?» si chiede il vescovo, testimoniando che, fin dalla sua istituzione, la Conferenza episcopale di Francia ha prestato particolare attenzione alla presenza della vita consacrata nell’oggi della Chiesa e della società e alla sua azione di farsi prossimo con le persone scartate, da coloro che vivono sulla strada ai margini della società fino agli anziani e ai migranti.

Nel mese di gennaio scorso alla Conferenza dei religiosi francesi è stata chiesta una fotografia della realtà Le comunità che intrecciano legami con le periferie: per iniziativa della commissione della CORREF (Monde ouvrier-Monde populaire-Monde rural) si chiedeva di mettere in evidenza l’esistente in termini di persone raggiunte ed eventuali partner coinvolti e 204 sono state le comunità a fornire risposte.

L’85% dei religiosi/e francesi sono di vita apostolica, il restante 15% di vita contemplativa.

Il profilo sociologico del religioso/a che opera nelle periferie riflette la realtà della vita consacrata oggi: una maggioranza di donne (82%), in gran parte in età avanzata e con una sempre più diffusa presenza di origine straniera (ora al 13%). Nonostante la relativa modestia dei mezzi a disposizione e l’età delle persone impiegate, tutte le esperienze rivelano grande creatività e straordinaria ricchezza.

Le aree di intervento vedono una prevalenza (69%) nelle zone urbane rispetto a quelle rurali, con un’attenzione particolare ai quartieri popolari (61%).

Significativi gli ambiti di intervento che rappresentano il ventaglio di tutte le fragilità del nostro tempo: al primo posto i problemi legati al fenomeno migratorio in atto (16%), ma anche salute (13%), integrazione culturale (12%), famiglia, giustizia (entrambi al 10%), giovani (8%), dialogo interreligioso (4%)…

Tra gli altri soggetti coinvolti ad ampio raggio: operatori diocesani, movimenti e associazioni laicali, Ente pubblico, servizi sociali.

Motivazioni forti, radicalità evangelica

«La vita religiosa è una forma di vita comunitaria – spiega Véronique Margron, 59 anni, teologa morale, superiora delle Suore domenicane della carità, decano onorario della facoltà di teologia di Angers, eletta presidente della CORREF il 12 novembre 2016 a Lourdes – fin dai primi tempi; quando gli eremiti diventarono monaci, l’intenzione era quella di ricreare una mini-società ispirata ai valori evangelici improntati a carità, sostegno fraterno e preghiera. Ma noi non viviamo fuori dal mondo e l’evoluzione della società ci interpella. Anche la fisionomia delle comunità spesso è cambiata e non di rado una sola sorella giovane si prende cura di diverse anziane: la sfida di vivere insieme è ancora più forte! È definitivamente tramontato il tempo di autentici stuoli di religiosi/e che dedicavano la loro vita all’interno di scuole o di ospedali: non abbiamo più le forze per fornire risposte agli enormi bisogni che emergono dalla società moderna, così non resta che rivolgersi alle persone che stanno sulla soglia, ai margini. La vita religiosa diventa solidale con la fragilità umana».

Ma i (sempre più scarsi) giovani religiosi sono motivati ad andare nelle periferie? «Non riesco ad immaginare dei religiosi/e che vivano chiusi dentro i loro conventi incuranti dal dolore della società» risponde Jean-Yves Mercier, priore della Congregazione Nôtre-Dame d’Espérance a Croixrault. Una congregazione atipica: sorta nel 1966, riconosciuta ufficialmente nel 1984 dal vescovo di Amiens e associata all’ordine benedettino nel 1990, si è rapidamente ingrandita con diversi laboratori artigiani dove lavorano diversi disabili e le vocazioni si sono moltiplicate anche dall’estero (Belgio, Spagna, persino Cameroun): «Noi viviamo della complementarietà delle nostre fragilità. Ciò che non va bene oggi, lo sarà domani. Quanto alla Regola di san Benedetto ha dovuto subire un adattamento perché sarebbe impensabile seguire il ritmo della preghiera (la prima è portata alle 7.15), come abbiamo dovuto affidarci ad una cuoca per la preparazione dei pasti».

Solo un esempio dei tanti raccontati nella seconda parte del Rapporto: dai «Giardinieri della creazione» leggi i «Fratelli missionari della campagna», una comunità fondata nel 2012 – con il carisma di un’attenzione particolare alle questioni ecologico-ambientali – alla comunità delle «Sorelle di Jeanne Delanoue» (1666-1736), che si dedicano ai reclusi nella prigione di Joux-la Ville o all’operazione «Inverno solidale» all’interno della diocesi di Parigi rivolta alle persone senza fissa dimora (tra i membri, Guillaume, 27 anni, già capo scout, ingegnere navale) o, ancora, la «Casa Marta e Maria» aperta a Lione in una struttura messa a disposizione dalla diocesi dove vengono accolte mamme e neonati grazie all’aiuto di giovani studentesse o professioniste dai 25 ai 35 anni. «Finalmente la Chiesa fa qualcosa di concreto testimoniando il Vangelo» commenta Lucie, una giovane volontaria.

La consapevolezza di lavorare per tessere legami all’interno della società è una caratteristica ricorrente delle risposte degli operatori convinti di contribuire a costruire una società di pace e di crescita per “ogni” persona.
«Lo Spirito ci precede, è già davanti a noi, il problema è sempre quello di individuare le modalità più efficaci per testimoniare l’attualità del messaggio cristiano e trovare il terreno fertile per la sua diffusione» diceva il vescovo Moutel.

La realtà di queste esperienze mostra una radicalità che conferisce coerenza all’impegno: i testimoni non agiscono dall’esterno, estranei alla realtà delle persone, bensì dall’interno, personalmente inseriti in questa realtà. Le esperienze di vita da parte dei religiosi sono molteplici, ma quelle di condivisione – con persone di strada, persone con disabilità, richiedenti asilo, persone di altre fedi ecc. – appaiono le più riuscite e costituiscono un segno molto forte.

«La Chiesa che Francesco vuole sa fare il primo passo, sa andare incontro, sa cercare i lontani e arrivare agli incroci delle strade per invitare gli esclusi», ha scritto il teologo e vescovo argentino Víctor Manuel Fernández. Perché «i problemi che colpiscono particolarmente gli esclusi» all’interno dei dibattiti politici o economici «rimangono frequentemente all’ultimo posto» (LS 49). Come spiega il papa, motivando l’istituzione della Giornata mondiale dei poveri.

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