La mia pastorale: tessere l’unità

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L’evangelizzazione, il Sinodo sull’Amazzonia, il bicentenario dell’indipendenza, sono i temi caldi dell’azione pastorale del vescovo Mattasoglio.

Toribio de Mogrovejo, secondo arcivescovo di Lima, professore di legge di Salamanca, ordinato in pochi giorni sacerdote e arcivescovo, era venuto dalla Spagna con una missione molto specifica: ottenere che la sua testimonianza di vescovo evangelizzatore rendesse trasparente Gesù stesso, a causa dello scandalo che portava con sé la seconda condanna a morte di un Inca, Tupac Amaru I, da parte di un sovrano – prima lo aveva fatto Pizarro con Atahualpa –. Filippo II gli chiede che, chiunque lo veda, possa vedere, grazie alla sua testimonianza, Gesù stesso.

Questo era il motivo per cui Toribio non approdò direttamente al porto di Callao a Lima, ma al porto di Paita a Piura il 12 maggio 1561, e camminò a piedi fino a Lima, in modo d’aver già adempiuto la sua missione prima di arrivare.

Le sue opere mettono in luce il suo pellegrinaggio in tutto il Paese attraverso le sue visite, che sono stati incontri genuini con gli abitanti indigeni di ogni città e che sono risultati una grande sintesi dei problemi e delle lamentele della gente, che egli ha raccolto e rilanciato, e che nel corso degli anni sono stati anche motivo di sinodi, nei quali si stabiliva un accordo, a partire dalla realtà, con sacerdoti di ogni zona.

Questo pellegrinaggio attraverso il Perù lo ha reso oggetto di critiche, anche da parte del viceré, per non essere «rimasto nel suo territorio», ma gli diede modo di rispondergli che «non era nella capitale della sua sede, ma era nella sua sede».

Mattasoglio, programma pastorale

Quando entrò a Lima per quello che ora è il Rimac, giurò nel tempio del lebbrosario di San Lazaro, e così entrò solennemente in città. Questa è stata la ragione della mia entrata simile, con la quale volevamo indicare che il nostro compito sarà testimoniare Gesù, annunciando il Vangelo con la nostra vita e avvicinando il nostro popolo per ascoltare le loro storie e i loro drammi, i loro reclami e richieste, per aiutare la nostra Chiesa ad accogliere il sentire del nostro popolo mettendoci al suo servizio.

È il modo migliore per dire che vogliamo, con papa Francesco, dar vita a una «Chiesa missionaria in uscita», incoraggiare il nostro popolo, benedirlo e aiutarci a vicenda a convertirci all’amore misericordioso del nostro Dio, obbedendo alla sua volontà.

Toribio ci ha aiutato a recuperare lo spirito e la dignità del popolo, per questo abbiamo scelto il nostro motto «A te dico, alzati», parole di Gesù stesso ai giovani, al paralitico e a tutti, come Maria che «si alzò in fretta» per servire Elisabetta e noi, soprattutto, i poveri.

Scegliere le periferie di una grande città sudamericana e la religiosità popolare

Le periferie esistenziali che papa Francesco chiama a servire implicano sia i nuovi settori marginali – gli immigrati interni ed esterni, come i nostri fratelli del Venezuela, le nuove generazioni di giovani, la condizione subalterna delle donne, le popolazioni abbandonate ai loro destini a volte invisibili in città, ma reali, così come le condizioni disumane di vita che affliggono gli abitanti di Lima: deficit educativo, pregiudizio, razzismo, machismo, abuso, disprezzo, tradizioni obsolete, ingiustizie, corruzione, mancanza di libertà, le grandi ferite psichiche di un ampio settore sociale.

Mattasoglio programma pastorale

Il miglioramento della situazione economica che il Perù ha conosciuto negli ultimi tre decenni non ha risolto questo accumulo di problemi tipici dell’eredità coloniale nella cultura e nella vita sociale, che sembrano invece essere stati accentuati o strumentalizzati al servizio del controllo del capitale. La conseguenza: una società molto frammentata che spesso tace e soffre in silenzio e altre volte esce per le strade a protestare, chiedendo giustizia. Dove ci sono poche esperienze condivise, la Chiesa è chiamata ad essere uno spazio d’ascolto e di accoglienza.

Nel tacere e nel silenzio vediamo la forza massiccia della religiosità che afferma il valore di una fede che sa attendere e resistere. Ma mi sembra che, parlando e protestando, il nostro popolo mostri anche la forza di quella fede, che risveglia la coscienza sociale.

Le manifestazioni religiose sono tanto grandi quanto la più grande e unitaria è quella del Signore dei Miracoli, come le immense mobilitazioni per esprimere solidarietà alle donne assassinate – siamo il quarto Paese al mondo per i femminicidi – le enormi e continue proteste contro la corruzione – siamo il Paese che ha più presidenti in prigione o sotto indagine – o espressioni molto partecipate per esprimere la gioia di qualcosa che ci unisce e ci nobilita – abbiamo il più grande gruppo di tifosi della squadra nazionale di calcio del mondo.

Ho voluto leggere questi fatti cristianamente e penso che siamo gli stessi peruviani quelli che si uniscono in processione e quelli che escono per mobilitarsi e per tifare Perù. Senza importanti finanziamenti finanziari, come talvolta può accadere, le persone semplici si mobilitano per esprimere la loro fede e il loro anelito di giustizia, umanità e libertà.

Questo fatto è importante per annunciare il Vangelo; è necessario riconoscere i valori evangelici in questo sentimento popolare, sia religioso sia sociale. Nessuna interpretazione ambigua. E, come Chiesa, spetta a noi, soprattutto, valorizzare la matrice profetica di quella fede religiosa e i segni evangelici degli sforzi umani dei peruviani, per aiutarci a vicenda a maturare insieme e approfondire la nostra coscienza umana, sociale e spirituale.

Questo non può accadere senza capire cosa ci sta succedendo e senza apprezzare tutti questi segni che mostrano lo spirito resiliente di un popolo molto provato e variegato, ma che si sta scoprendo unito nel volere che certe cose devono cambiare e migliorare.

Chi non ascolta il grido e crede di dover insegnare la verità della fede dall’esterno si pone fuori da questo cammino e resiste alla lettura dei segni di risurrezione, rinascita, rigenerazione; si divide, come quando i discepoli che si credevano un’«élite della fede» (oligopistoi), non uomini di scarsa fede, ma partecipi della fede di pochi puri che non si mescolano alla «folla».

L’eredità coloniale ha lasciato un seguito di separatismo che disprezza l’opinione, i sentimenti e i modi di agire della gente semplice che cerca perché non trova più adeguate certe norme.

Soprattutto la nostra religiosità ha bisogno di essere evangelizzata, perché è mescolata a un pensiero molto gerarchizzato e persino a persistenti ideologie e abitudine coloniali. E ciò impedisce di vivere il Vangelo sine glossa in modo più completo, come dice Francesco; impedisce di comprendere e aprirsi al fratello e alla sorella maltrattati, è giudicato, non è apprezzato.

La nostra missione è fare i primi passi per generare un processo di conversione spirituale al Vangelo che porti ad una conversione pastorale nella Chiesa e ad una conversione personale e sociale nella nostra città.

La nostra missione è aprire la Chiesa in modo che i poveri del Signore la sentano casa propria. Un segno di questo bisogno è stato che i cattolici in Perù sono scesi al 75% dei credenti, quando eravamo più del 95%. Non stiamo rispondendo al desiderio di ascolto che pervade il nostro popolo.

Sinodo dell’Amazzonia

Il Sinodo amazzonico è un esempio della grande prospettiva della «Chiesa in uscita» proposta da papa Francesco in totale fedeltà al concilio Vaticano II. Con questo Sinodo un ruolo guida viene assegnato a una delle più grandi periferie esistenziali dell’umanità nei secoli, ed è chiamato alla consapevolezza che la vita di tutta l’umanità dipende dalla vita di questi popoli insieme alla loro ecologia. È un Sinodo per ri-suscitare la solidarietà umana con il mondo che Dio ha creato e ci ha lasciato come responsabilità.

Mattasoglio programma pastorale

La questione centrale è come la Chiesa si impianti robustamente in una terra e in un popolo di culture diverse che mantengono e rinnovano la memoria ancestrale del valore della natura, in condizioni assolutamente diverse da quelle della maggior parte del mondo urbano. Considerando che siamo di fronte ad un’emergenza ecologica, è necessario raccogliere tutto il ricco insegnamento che è stato acquisito dalle comunità missionarie cristiane in unità con i popoli indigeni per quanto riguarda il modo semplice di vivere e l’esperienza della fede, e come tale esperienza può essere un contributo alla Chiesa universale e al mondo intero.

La Chiesa del Perù, nelle sue diverse diocesi amazzoniche e quelle più urbane, è stata sensibilizzata in tutti questi mesi per partecipare al Sinodo, contando sulla visita alla Madre de Dios di papa Francesco, durante la quale ha posto le basi di un modello ecclesiale semplice e dialogico che potrebbe favorire un’opzione per uno sviluppo ecologico integrale.

Appena entrati a Lima, abbiamo voluto sensibilizzare questo aspetto collegandolo alla sfida della città che, essendo lontana dall’Amazzonia, tuttavia la influenza, poiché Lima è la città che per la sua modernità è quella che maggiormente contribuisce al riscaldamento dell’ambiente in Perù e vive indifferente alle conseguenze delle emissioni di gas tossici.

Insieme a questo, gli abitanti dei villaggi indigeni arrivano a Lima e formano comunità che non sempre valorizziamo o consideriamo parte della vita della Chiesa, pur essendo cristiani o cattolici come noi. La città tenta di adottare modi tradizionalmente urbani di vivere la fede. Il papa ha chiesto ai giovani di Madre de Dios di non perdere la propria identità per tornare nella foresta con nuove sintesi che aiutino ad assumere uno sviluppo ecologico integrale.

Mattasoglio programma pastorale

Dal momento che nell’arcidiocesi siamo in preparazione dell’Assemblea sinodale, includeremo negli argomenti l’aiutarci a immaginare i nostri legami con le diocesi amazzoniche e alcune proposte di evangelizzazione che aiutano ad agire a partire dalla città di Lima a favore della cura della nostra giungla amazzonica. È anzitutto necessario abbandonare l’approccio colonialista che vede nella foresta solo un grande magazzino di risorse per le industrie.

Questa visione disumana e avida del complesso mondo amazzonico deve essere superata attraverso una profonda conversione che cambia il nostro orizzonte ristretto. Francesco nella Laudato si’ ha aperto il confronto e il dialogo per cambiare mentalità molto chiuse in tutte le aree urbane.

Ogni decisione pastorale deve essere presa comprendendo e apprezzando la realtà nella sua complessità, così come il significato evangelizzatore della stessa. Senza il principio di realtà, ogni decisione è ottusa. Dobbiamo ampliare la nostra prospettiva attraverso l’apertura spirituale per dare una risposta adeguata a un mondo di cui conosciamo poco.

Non mi dilungo sui dettagli, ma credo che questo debba essere il criterio di discernimento di varie questioni ecclesiali, non le nostre complicazioni occidentali e urbane. Contempliamo e comprendiamo con rispetto la singolarità del mondo con cui stiamo dialogando, lasciamo i pregiudizi e abbandoniamo la complicità con i predatori e gli avidi di certe finanze e industrie. Nemmeno una sola concessione teologica a questi interessi.

Come Chiese, dobbiamo anche realizzare un invio speciale di sacerdoti e missionari fidei donum, e ciò richiederebbe una conversione perché c’è la tendenza a lasciar perdere l’Amazzonia anche da parte dei sacerdoti di quei luoghi.

Ecco perché affrontare la questione amazzonica impegna vivamente l’intera Chiesa a lasciare la sua autoreferenzialità e struttura. Il Sinodo ci dà energia verso l’esterno e ci aiuta a trovare nuovi modi di vivere nella Chiesa.

Dire «noi» e il bicentenario

Sfortunatamente, sembra che il bicentenario ci troverà ancora divisi, per quanto ci sia ancora speranza. La verità è che nel nostro Paese l’unità è stata sempre difficile, è diventata una formalità, quando in realtà c’erano «molti Perù». Già uno storico famoso – Pablo Macera – diceva «dire Perù è un abuso della lingua».

Questo lo abbiamo poco a poco superato, ma non stiamo procedendo in modo lineare bensì a zig-zag: si avanza molto in un’epoca e poi, in un’altra, si retrocede di secoli. Io insisto nell’imparare insieme a dire «noi»; non è un problema semplicemente linguistico, è un problema relazionale. L’attuale società accusa un disimpegno molto forte nel vivere l’unità e un’accelerazione quotidiana verso una logica globale.

Mattasoglio programma pastorale

Quando ho sottolineato che vivevamo ancora disuguaglianze che generavano ferite molteplici di stampo coloniale, volevo insistere sul fatto che, sebbene le cause siano il prodotto della logica economica dalle radici coloniali, sta a noi abbattere le barriere e costruire ponti. E la Chiesa può contribuire notevolmente a risanare le ferite. Se non lo ha fatto o piuttosto ha acuito le ferite è perché non ha mantenuto chiara la sua prospettiva evangelizzatrice, ha ridotto la sua azione a una predicazione moralistica che genera sempre tensioni e giudizi affrettati, e non si è proposta, se non in casi estremi, come luogo di incontro, spazio per generare processi di ricostruzione dei legami.

L’esperienza religiosa del «si può / non si può», che papa Francesco ha messo in discussione per incoraggiare il discernimento a discapito delle ricette, è da superare, e il nostro bicentenario è un’ottima occasione perché, come sottolinea il grande sociologo Julio Cotler, il Perù è uno dei Paesi nei quali si verificano meno esperienze condivise, tutti siamo indifferenti l’uno verso l’altro, tutti siamo carichi di pregiudizi e di diffidenze. La condivisione di esperienze consente di conoscere per crescere nella fiducia, apprezzare il valore della vita dell’altro, costruire nazione, senso di identità nazionale, prossimità, non lontananza.

C’è ancora chi vuole che in Perù si dia solo un’unità derivante da una formalità tradizionale, quando alla fine non ce n’è nessuna, poiché non ci sfioriamo per non avere contatto con l’altro – meticcio, straniero, gringo, cinese, pallido ecc. –. È che guardiamo soltanto la bandiera o cantiamo l’inno nazionale, ma non ci guardiamo negli occhi né mostriamo con chiarezza le ferite per guarirle insieme; difficilmente ci mettiamo nei panni dell’altro. Forse, se coltivassimo un grande potenziale così come tante volte facciamo di fronte alle avversità comuni in cui corriamo tutti in aiuto, anche se alcuni per ora si limitano a filmare con il loro cellulare, raggiungeremo via via l’unità nella pluralità.

La Chiesa, che ha contribuito all’indipendenza con i suoi beni, oggi dispone di un bene più prezioso: essere uno spazio comunitario che vuole uscire dal suo recinto. Questa strada per il bicentenario dovrebbe permetterci di imparare l’incontro come cultura, in modo che, conversando, rieduchiamo pacificamente noi stessi per capire noi stessi ed essere peruviani migliori, vitalmente uniti e servitori affidabili dei più feriti.

Se possiamo fare un piccolo passo in generale verso questa forma controcorrente di Chiesa, potremo morire in pace. La Chiesa bella è quella nella quale viviamo, nelle parrocchie e nei gruppi ecclesiali dove sia possibile vivere con stima e affetto.

Questa è la Chiesa meravigliosa che vogliamo dare al nostro amato popolo di Lima. Francesco ci dà l’opportunità di farlo e siamo lieti di adempiere così la volontà del Padre. Lima, in forza dell’incoraggiamento di Gesù nella nostra Chiesa, deve rialzarsi. Che non si addebiti a noi ostacolare il suo percorso di libertà feconda e creativa.

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