Monachesimo: una vocazione nel cuore della Chiesa /1

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Iniziamo con questa prima puntata, dedicata alla specificità della «vocazione monastica», la pubblicazione di alcuni capitoli del volume a cura di Francesco Strazzari, La Giornata di un monaco. Conversazione con dom Jean-Marc Thevenet, abate d’Acey, EDB, Bologna 2016 (qui la seconda parte sulla preghiera e la terza sull’obbedienza).

monaci nel chiostro

 

– In una maniera un po’ paradossale, citerei volentieri una sentenza (apophtegma) dei Padri del deserto, questi monaci delle prime generazioni monastiche in Egitto e nel Medio Oriente. Un anziano ha detto: “La vita del monaco è: obbedienza, meditazione, non giudicare, non sparlare, non mormorare”. È scritto in effetti: “Voi che amate il Signore, odiate il male. La vita del monaco è: non prendersela con chi è ingiusto, non guardare ciò che è male, non immischiarsi in tutto, non ascoltare parole estranee, non rubare, ma piuttosto dare, non inorgoglirsi nel proprio cuore, non avere pensieri perversi, non mangiare avidamente, fare tutto con discernimento, in questo consiste la vita del monaco”. Sorprendente!

«Certamente sì. Presentare la vita monastica in questo modo è davvero sorprendente. Se è così la vita del monaco – mi domando – allora che cosa la distingue dalla vita di un battezzato? Non è affatto necessario essere monaco per realizzare ciò che proviene direttamente dalla Legge di Dio! Ogni cristiano è chiamato alle stesse esigenze…

È vero. Ma è questo programma comune che mi pare illuminante e interessante. La vita monastica non è affatto una vita riservata a degli specialisti o a degli eroi. È prima di tutto un vita battesimale, una vita in Cristo. È talmente vero che la più parte delle grandi Regole monastiche antiche sono un parte o nella totalità catechesi battesimali (Pacomio, Basilio, Regola del Maestro, Prologo della Regola di Benedetto ecc…)

La vita monastica non va vista come un “di più” in rapporto al vangelo. Non è niente altro che la vita cristiana nella sua integralità e radicalità. Così, la vocazione del monaco, lungi dall’ essere un cammino “eccentrico” di persone marginali, si situa al contrario nel cuore della vita della Chiesa».

– Il monaco passa la sua vita in un’abbazia, in un monastero. La vita monastica che cosa ha di apostolico?

«Molto presto la vita monastica si è definita come una vita apostolica. Non nel senso di vita itinerante alla maniera dei frati mendicanti o dei frati predicatori, neppure nel senso moderno di una vita missionaria per annunciare il vangelo, ma come riproduzione della vita della prima comunità cristiana a Gerusalemme: la comunità degli apostoli.

Così si trova in tutta la tradizione antica un riferimento costante ai due passaggi degli Atti degli apostoli che descrivono la comunità primitiva: “Erano perseveranti nell’insegnamento degli apostoli e nella comunione, nello spezzare il pane e nelle preghiere. Un senso di timore era in tutti, e prodigi e segni avvenivano per opera degli apostoli. Tutti i credenti stavano insieme e avevano ogni cosa in comune” (At 2,42-44). E ancora: “La moltitudine di coloro che erano diventati credenti aveva un cuore solo e un’anima sola e nessuno considerava sua proprietà quello che gli apparteneva, ma fra loro tutto era in comune. Con grande forza gli apostoli davano testimonianza della risurrezione del Signore Gesù e tutti godevano di grande favore” (At 4,32-33).

San Benedetto non fa eccezione. Cita questi capitoli degli Atti sia esplicitamente (in particolare nella RB 33 e 34 a proposito della spogliazione dei beni e della loro ripartizione), sia implicitamente in tre capitoli riguardanti la comunione fraterna».

– C’è quindi un nesso molto stretto tra la vita monastica e il battesimo.

«Certamente. Il concilio Vaticano II fa l’elogio della vita monastica (Decreto sul rinnovamento della vita religiosa, n.9), ma non dice niente della sua natura. La vita monastica è puramente e semplicemente annessa alla vita religiosa. Al riguardo si può citare la costituzione dogmatica sulla Chiesa n. 46: “Pongano ogni cura i religiosi, affinché per mezzo loro la Chiesa abbia più esplicitamente a presentare a fedeli e infedeli l’immagine di Cristo che sta pregando sul monte o che annuncia il regno di Dio alle folle; il Cristo che guarisce i malati e i feriti o converte a vita migliore i peccatori; il Cristo che benedice i fanciulli e fa del bene a tutti in continua obbedienza alla volontà del Padre che lo ha mandato”».

– La costituzione fu approvata il 21 novembre 1964. Ne sono passati di anni e il testo continua ad essere stupendo e provocatorio.

Sostieni SettimanaNews.it«È un testo molto bello, ma che manifesta chiaramente la tendenza generale nella Chiesa a definire il monaco come “un religioso contemplativo”. Perché, secondo il testo citato, i religiosi hanno per vocazione di attualizzare e prolungare la missione del Cristo ed essi lo fanno secondo il carisma proprio del loro istituto: missionario, caritativo, educativo… Allora, in quest’ottica, la vocazione del monaco sarà quella di manifestare il Cristo nella sua contemplazione sulla montagna. Il monachesimo non sarebbe dunque che una espressione, tra molte altre della vita religiosa nella sua ricca diversità. Farebbe un servizio: quello della preghiera contemplativa.

Confesso che mi è difficile entrare in una tale prospettiva. Da una parte, perché la vita monastica non ha il monopolio della preghiera e della contemplazione, tanto più che la tradizione monastica non ha utilizzato che tardivamente questo vocabolario dal contenuto vago e ambiguo. D’altra parte, perché insistendo sulla funzione specifica della vita monastica, si rischia di perdere di vista la vera natura del suo carisma per la vita della Chiesa.

Le diverse forme di vita religiosa sono nate nella Chiesa per rispondere a dei bisogni specifici. Sono state suscitate dallo Spirito Santo in un momento determinato per un compito particolare al servizio della Chiesa e del mondo. Si è trattato spesso di un ruolo di supplenza: Vincenzo de Paoli, Giovanni di Dio, Giovanni Battista de la Salle e tante congregazioni del diciannovesimo secolo nel campo ospedaliero o dell’educazione fino a Madre Tersa e alle sue Missionarie della carità.

La vita monastica, invece, non è legata a nessun compito particolare, a nessun impegno specifico. Può certamente trovarsi momentaneamente coinvolta in una tale o tale altra missione – abbiamo conosciuto nel corso dei secoli i monaci missionari, predicatori, insegnanti, ospedalieri – ma non è questo il suo ruolo specifico. Ciò che importa capire è che il carisma monastico non è legato a nessun fare ecclesiale, ma al suo essere, alla sua finalità.

Ispirandomi a una espressione del padre gesuita Jean-Claude Guy, direi che la vita monastica è per il popolo di Dio memoria del battesimo. Il che significa che la vita monastica manifesta e ricorda a tutti i cristiani la natura e la finalità della loro vocazione di battezzati. Là si colloca la dimensione profetica della vita monastica e la sua missione più fondamentale.

Occorre qui citare il n. 44 della costituzione dogmatica sulla Chiesa, che, sebbene riferita a ogni forma di vita religiosa, mi sembra particolarmente descrivere bene il mistero della vita monastica: “Lo stato religioso, liberando i suoi seguaci dalle cure terrene, rende ai credenti ancora più visibili i beni celesti già presenti in questo mondo; testimonia meglio la vita nuova ed eterna che Cristo ci ha acquistato con la redenzione, e preannuncia la futura risurrezione e la gloria del regno dei cieli. Lo stato religioso inoltre imita più da vicino e rappresenta permanentemente nella Chiesa quella forma di vita che il Figlio di Dio scelse per se stesso quando venne nel mondo a fare la volontà del Padre, e che poi propose ai discepoli che lo seguivano. Manifesta infine con particolare evidenza la superiorità del regno di Dio rispetto ad ogni altra realtà terrena, e le esigenze supreme che esso avanza; dimostra pure la preminente grandezza della grazia vittoriosa di Cristo e l’infinita potenza dello Spirito Santo che opera nella Chiesa. Lo stato costituito dalla professione dei consigli evangelici, pur non riguardando la struttura gerarchica della Chiesa, appartiene tuttavia indiscutibilmente alla sua vita e alla sua santità”.

Si è spesso rimproverato ai monaci di essere inutili perché non hanno un impegno nella città umana. Ma questa inutilità apparente è in effetti ciò che preserva la specificità del loro carisma. Il padre abate cistercense dom André Louf scriveva così: “L’irradiazione della vita monastica viene prima di tutto dal fatto che la sua grazia e la sua immagine hanno a che fare con l’incosciente della Chiesa e che esprime uno dei tesori più cari al suo cuore. È dunque importante che la vita monastica sia sempre nella misura di offrire riguardo ai credenti la pienezza del suo mistero. Una vita lontana dal mondo e senza responsabilità pastorali istituzionali è essenziale a questo mistero”».

– Allora, chi è il monaco?

«Detto che la vita monastica non può essere assimilata a una qualsiasi delle sue note caratteristiche (l’ascesi, la solitudine, la liturgia, l’accoglienza…) il monaco cristiano è anzitutto un discepolo di Gesù Cristo che, come lo esprime san Benedetto nella sua Regola, sotto la condotta del Vangelo segue le strade del Signore per ottenere di vedere Colui che ci chiama al suo Regno. Il monaco realizza questo nel monastero: scuola del servizio del Signore, scuola di carità, perseverando fino alla fine sotto una Regola, un abate e dei fratelli nella lotta contro il peccato, con le armi della fede, della speranza e della carità. È interessante notare che nella sua Regola san Benedetto dice poche cose sull’ascesi o sulla preghiera personale. Al contrario, insiste enormemente sull’obbedienza, l’umiltà, la carità fraterna che sono alla base stessa di tutta la vita cristiana».

– Signor abate, può dire allora che cosa significa «vivere diversamente»?

«Il monaco non è niente di meno, ma anche niente di più di ogni battezzato. E se, dal fatto della sua vocazione particolare segnata dalle note specifiche della separazione dal mondo (vita nel deserto), della solitudine, del silenzio, della lotta spirituale… Il monaco vive diversamente dai suoi fratelli e sorelle cristiani, questo vivere diversamente non dovrebbe mai diventare una messa al margine, ma dovrebbe sempre avere un valore di testimonianza, cioè, essere come un richiamo ai suoi fratelli e sorelle cristiani che, se sono nel mondo, non sono del mondo. Se voglio essere sale della terra e luce del mondo, come il Signore Gesù domanda loro, devono essi stessi vivere diversamente da quelli che non conoscono Dio.

Il monaco ha dunque la vocazione nella Chiesa di portare testimonianza dell’essenziale della vita cristiana, ricordare ai suoi fratelli e sorelle la specificità della loro identità cristiana e la finalità dei loro impegni. “Questo riconoscimento è reciproco: se i cristiani si sentono attratti dal monaco nella misura in cui essi intravvedono nella sua esperienza il volto nascosto di ciò che essi stessi vivono nel mondo, il monaco a sua volta si sente coinvolto da questa Chiesa nel mondo: tramite la preghiera e la lotta interiore, egli partecipa al lavoro e alla sofferenza apostolici, restando aperto e permeabile ai doni che lo Spirito dispensa. Questo reciproco riconoscimento nell’amore è il garante più sicuro di ogni vocazione cristiana che si viva nascosta nel deserto o che si svolga nel mondo” (dom André Louf)».

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Un commento

  1. Filippo 19 giugno 2017

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