Lettera aperta al card. Bassetti

di:

chiesa italiana

Signor cardinale,

nelle mie parti, in Abruzzo, c’è una domanda che certamente lei non si farà leggendo questo piccolo scritto: «Quando mai abbiamo mangiato insieme?», volendo significare: chi ti dà la confidenza di scrivere una Lettera aperta al presidente della Conferenza episcopale italiana?

Ho uno sbozzo di risposta per questa domanda, qui neppure eventuale. Gli è che noi abbiamo mangiato insieme, sebbene una sola volta, ed è accaduto a Chieti, la mia città, la sera dell’inaugurazione dell’Anno accademico 2014-2015, nell’Istituto teologico abruzzese-molisano, quando l’invitai, come preside di quella Scuola di teologia, a svolgere il tema “Vita della Chiesa e teologia nell’orizzonte della conversione pastorale”. Di quella Prolusione ho un affettuoso e lieto ricordo che mi è, fra l’altro, spunto felice per scrivere questa Littera.

Perché una “Littera discipularis”? 

Questa Littera è qualificata come discipularis perché non è lo scritto di un maestro, ma è il dire di un “discepolo” che, in un qualche modo, è proprio l’opposto del maestro (altro è insegnare, altro è apprendere), anche se nella pedagogia contemporanea s’è preso a dire, con Paulo Freire: «Nessuno educa nessuno» e credo diremmo meglio se parlassimo in positivo: Tutti educano tutti.

Fra i cristiani, per altri motivi, sempre si dovrebbe dialogare in forma comunionale, perché la circolarità del battistero e la circolarità della tavola eucaristica, disponendo i posti nella frontalità fraterna, ricordano che serve una franca e gioiosa confidenza. Nessuno, infatti, è superiore nell’agápē e nemmeno al liminare del battistero o sotto l’ombra luminosa dell’ambone quando vi si annuncia la Parola che non passa…

Di là dell’affettuoso celiare di prima, gli è che noi ogni giorno – non da lontano, ma nella più intima vicinanza della commensalità – mangiamo lo stesso “pane eucaristico”, il santo pasto davvero in grado di abilitare alla confidenza conviviale, peraltro già pretesa dalla fraternità battesimale.

Bello il “bouquet” di sei fiori nelle aule della CEI 

Eminenza, senza farlo apposta, dopo poche righe di questa Littera s’è composto un piccolo serto di parole cristiane, oggi tornate più belle: odorosi fiori, bastevoli per un piccolo bouquet (fraternità, convivialità, dialogo, familiarità, pastoralità, discepolarità).

Su questi sei fiori osservo soltanto che si tratta di parole che evocano prioritariamente la persona di Gesù, immodificabile «essenza del cristianesimo», come ci ha aiutato a scoprire don Romano Guardini, l’impareggiabile maestro di teologia italiano, al quale la Chiesa in Italia farebbe assai bene a riferirsi nella trattazione dei suoi molti temi, dacché egli ha osservato la realtà umana e cristiana in ogni suo aspetto (non solo teologico, intendo dire) con sapienza alta.

– Fiori offerti da Gesù alle Chiese. Con la tessitura di queste sei parole è scritto, con fili forti e lievi, anzitutto il nome di Gesù e, di riverbero, quello della Chiesa e della missione. Insomma, da questo nostro Fratello necessario abbiamo ricevuto il dono della fraternità battesimale e il Vangelo come suo codice di vita. Sedendo alla tavola eucaristica esperimentiamo, con lui, il gaudio della convivialità, assumendo il pane donato e il vino dell’allegria che ci fanno «gente di Pasqua» (card. A. Tagle). Da Gesù abbiamo avuto la consegna a onorare dialogo e familiarità come membri della famiglia di Adamo e della famiglia ecclesiale, che egli, il «Fratello universale» (René Voillaume), l’Adamo più di Adamo, ha suscitato per noi.

Eminenza, nel vostro primo discorso all’Assemblea generale, avete richiamato l’esigenza della «conversione pastorale», sulla traccia della Evangelii gaudium (nn. 25-33). Anche questa parola, cui lei si è come aggrappato in questi anni di presidenza della CEI, è ancora – felicemente – una parola anzitutto cristologica; anch’essa ci lega a Cristo, al pastore «bello e buono» (Gv 10,11), che non ha voluto successori, ma solo vicari. E, con questa espressione  cumulativa – la conversione pastorale –, ricordiamo quello che Gesù ispira alle Chiese, anche a quella in Italia e che lei tiene costantemente presente come filigrana di tutti i temi e problemi affrontati nella CEI.

– Un’enfasi sul sesto fiore del nostro “bouquet”. In questi ultimissimi anni, ho percepito nel vocabolario della CEI un’intonazione che sapeva più di teologia e di pastorale e meno di ansia politica, che in passato è sembrata essere, talvolta, perfino un poco asmatica. Contemporaneamente, la CEI, su continua sollecitazione del magistero sociale di papa Francesco, durante il brano di tempo della vostra presidenza, non è venuta mai meno all’attenzione da portare alle «croci dell’ora», per dirla con don Primo Mazzolari, un prete che, con la sua testimonianza e la sua letteratura pastorale attenta agli ultimi e ai lontani, potrà ispirare ancora di più la vita della Chiesa in Italia, lui che è stato felicemente chiamato il «parroco d’Italia».

E, ancora per converso, l’attenzione al sociale non si è mai scompagnata dalla concentrazione sulla dimensione cristologica e sull’ecclesiologia conciliare, dimensioni che si sono annodate nella stupenda parola evangelica della discepolarità. Questa parola, indotta anche dal magistero di papa Bergoglio che ha voluto affiancarla con la parola missionarietà come un rafforzativo (questa, infatti, è termine interno e costitutivo dell’idea biblica della discepolanza: cf. Mc 16,15), è una delle qualificazioni più evangeliche, più umili, più vere dire la Chiesa. Su di essa lei fa bene a intonare la sua presidenza e l’orientamento dei documenti-CEI.

Eminenza, nell’ecclesiologia del secolo XX il cardinale teologo Avery Robert Dulles, nel suo noto libro Modelli di Chiesa (Il Messaggero, Padova 2005), individua cinque forme ecclesiali: la Chiesa come istituzione, la Chiesa comunione mistica, la Chiesa come sacramento, la Chiesa dell’annuncio, la Chiesa del servizio. Ma, fortunatamente, nell’edizione del 1987, egli ha aggiunto un sesto modello: la Chiesa comunità di discepoli, ritenendola così fondamentale da poter essere considerata – davvero a buona ragione – come l’unica figura nella quale possono convergere i tratti caratteristici della Chiesa e nella quale trovare, perciò, la sintesi degli altri modelli ecclesiologici. Ebbene, questa dimensione di Chiesa, la si vede in filigrana nei parlari ecclesiologici dell’ultima CEI ed è una prospettiva di un’eleganza ecclesiale e spirituale impareggiabile.

Il costante ricordo che la Chiesa è una “Città verticale” 

Eminenza, come diceva Giorgio La Pira, «il cristianesimo è storia e geografia»: evidentemente solo storia e geografia, un aspetto da non dimenticare in fedeltà all’adorazione del mistero dell’incarnazione. Oggi capita spesso di dimenticare che la nostra storia e la nostra geografia fanno tangenza con l’eternità e col cielo di Dio.

– Fra i “vicoli” della terra e le “nuvole” del cielo. Eminenza, noto con gioia che la CEI, nel suo molteplice esprimersi, da un lato, tiene i piedi sui «vicoli» della terra degli uomini e, dall’altro, pone la testa e il cuore fra le «nuvole» del cielo, il simbolo di Dio e del suo abitare. È buona cosa che lei, nel suo servizio alla Chiesa in Italia, aiuti a ricordare che, mentre ci si impegna a stare al mondo e a viverne la storia, c’è da avere sempre uno sguardo in alto. Questo è un ricordo importante, oggi che non mancano «gli arieti contro la Verticale», secondo l’ammonizione del filosofo italiano Michele Federico Sciacca, fortunatamente per noi convertito al cattolicesimo anche per il contatto profondo col pensiero di Antonio Rosmini.

– Sul fondale fisso della “scelta religiosa”. Eminenza, in questi anni, anche per un impegno più pastorale della CEI nell’alveo della “scelta religiosa”, suggerita dall’Azione cattolica di Vittorio Bachelet, ci ha fatto lietamente dimenticare quand’essa era troppo preoccupata di rincorrere gli ordini del giorno della comunità politica italiana, sebbene quella “incorsa” fosse intrapresa con buone intenzioni. Ci siamo ricordati, in questi anni, che la Chiesa è una “Città verticale”, non costruita dal basso, come avviene per le città degli uomini, ma è una Città donata, la santa città «che scende dal cielo, da Dio» (Ap 21,10). Questo ricordo è fondamentale per non trasformare la missione in un’avventura sociologica, umana e troppo umana.

Un “grazie” per la lezione di equilibrio ecclesiale

Eminenza, un grazie anzitutto perché in questi ultimi anni abbiamo visto una CEI (nei suoi programmi, nei suoi interventi, nel suo essere e nel suo porsi) esprimersi in una forma apprezzabile per uno stile davvero più ecclesiale rispetto alla considerazione dei tre tempi che scandiscono la vita della Chiesa e non solo di essa.

Guardando “in avanti” al futuro di Dio e “indietro” facendo memoria di Gesù.  Eminenza, abbiamo visto l’uso di due sguardi in accordo sapiente fra di loro: la Chiesa in Italia è stata chiamata costantemente, in questi anni ultimi, ad avere gli occhi profeticamente avanti verso il futuro di Dio, nell’apertura alla sorpresa delle appostazioni dello Spirito, ma anche a volgere gli occhi sapientemente indietro verso il passato, sapendo che la missione e la pastorale – quando non sono intraprese vanitose o ubbie personali – altro non sono che «“perdere tempo” per fare memoria di Gesù. […] Così una comunità cristiana che non “perde tempo” per far memoria di Gesù, che è senza memoria, non potrà mai essere una comunità cristiana» (Il discepolo, Glossa, Milano 2000, pp. 64. 65).

– Gli occhi responsabilmente bassi sul presente. Per terzo, la Chiesa in Italia, in verità da decenni animata da principio-missione, è chiamata continuamente all’impegno testimoniale e al soccorso ai poveri, agli ultimi e alle necessità varie delle comunità diocesane e, in questo infausto periodo del coronavirus, palese s’è fatta l’offerta di segni di aiuto alle comunità parrocchiali, cadute in situazioni di grande sofferenza anche dal punto di vista dei mezzi di sussistenza. Insomma, è sicuro che la Chiesa in Italia vive il presente come tempo della missione, della carità, del perdono, ma senza l’enfasi incomprensibile del «presentismo» che ha sedotto il nostro tempo immiserendolo, mentre esso resta per tutti, anche per le pastorali della Chiesa, come un pericolo di far cadere nelle sue forre.

– Fra “presenza”, “ricordo” e “profezia”. Proprio per questo, la conciliazione dei tre tempi, tipica del cristianesimo storico e praticata significativamente dalla Chiesa in Italia in questo brano di tempo, risulta essere anche una presa di distanza sia da un futurismo senza memoria e senza impegno nell’oggi, sia nei confronti di un conservatorismo così bieco, ma anche volgare e cattivo (quello di oggi), dal quale vediamo ogni giorno provengono sassi a punta lanciati contro papa Francesco: discorsi più che critici su di lui, esposti con mano troppo svelta e con bocca poco riflessiva, che agitano il cuore e l’anima per diversi motivi, soprattutto per la manifesta malevolenza, mentre turba assai l’intravedere sorprendenti soggetti a intessere quei parlari con toni e in contesti a dir poco fuori posto. Cosa grave, si è arrivati a fare di questo papa l’oggetto di un continuo linciaggio (cf. M.G. Masciarelli, Il papa non è una sagoma per il tiro a segno, in SettimanaNews: 4.2.2020). Pertanto, esemplare è la doverosa difesa che lei e la CEI fanno filialmente e saggiamente di papa Francesco di fronte a questo agire inqualificabile.

La Chiesa in Italia dinanzi alla sfida sinodale

Eminenza, papa Francesco ha indetto il prossimo Sinodo per il 2022 col bel titolo: Per una Chiesa sinodale: comunione, partecipazione e missione. Prevedo che la Chiesa in Italia comincerà a pensare, senza meno in tempo, a questo Sinodo di fondamentale importanza per l’intera Chiesa. Sinodalità, infatti, non è la solita parolina stagionale che si inventa per rilanciare le pastorali depresse che hanno perso il cuore e l’anima, cosa che accade in modo ritornante nella Chiesa, quando sulle parole-progetto della pastorale e della missione scendono i tarli della ripetizione retorica o quando esse sono aggredite dalla tignola del tempo che le usura e le distrugge. Eminenza, bisogna che dovunque, anche nella CEI, si comprenda che la sinodalità è una parola diversa da quelle, perché dice una nota essenziale, strutturale e permanente della Chiesa.

È l’ora della sinodalità. Oggi certamente Dio ci fa dono del kairós della sinodalità. L’invito sinodale a camminare insieme è l’invito ad essere Chiesa perché il camminare insieme è il suo destino di grazia, è la sua dinamica e permanente postura. La sinodalità non si lega alla cronaca ecclesiale e ai futuri brevi della sua storia, ma si qualifica come la riscoperta di una dimensione dell’intero  Mysterium Salutis che si svolge sinodalmente, ossia nella comunione storica fra gli uomini e nel pellegrinaggio verso la Città eterna: la sinodalità è parola da millennio, anzi essa indica il cammino della Chiesa pellegrina, che qui comincia ma finisce in Cielo (cf. M.G. Masciarelli, Un popolo sinodale. Camminare insieme, Tau Editrice, Todi-PG 2016, pp. 187-189).

– Tornare al Concilio. Occorre tornare al Concilio anche nella Chiesa in Italia, dopo il riprovevole tentativo, a lungo protratto, di farlo dimenticare, di ridurne l’importanza e di complicarne l’approccio e la fruizione con una lunga, noiosa e affliggente questione ermeneutica nei suoi riguardi, che ha prodotto solo il risultato di allontanare dall’evento ecclesiale più importante degli ultimi secoli cristiani e di abbeverarsi alla sua fonte. Eminenza, è stato bello, ma anche umiliante che, di conseguenza, gruppi di laici, sacerdoti e anche vescovi abbiano dovuto far ricorso a partecipare a gruppi on line (ad esempio, “Viva il Concilio”), per tener viva la fiaccola del Vaticano II.

È vero: la sinodalità è una riscoperta (non un’invenzione) del post-Concilio; tuttavia, l’assenza del concetto sinodale e della sua terminologia astratta (sinodalità, sinodale ecc.) nei 16 documenti del Vaticano II non porta alla conclusione che questo tema vi sia totalmente assente e, storicizzando questo problema, non manca neppure la possibilità di trovare in essi importanti tracce di sinodalità, soprattutto nelle indirette premesse teologiche ad essa, ma anche in ragioni teologiche implicite. Queste premesse e queste ragioni vanno cercate, snidate e portate in evidenza. Serve trovare i semi gettati dall’ultimo Concilio, capaci di far rinascere, di fatto, la pianta della sinodalità (cf. M.G. Masciarelli, Le radici del Concilio. Per una teologia della sinodalità, Dehoniane, Bologna 2017, pp. 33-36).

Prepararsi al prossimo Sinodo del 2022

Eminenza, il tempo che ci separa dal prossimo Sinodo è la buona occasione per prepararci ad esso, anche a livello CEI, approfondendo la natura della sinodalità, il suo porsi come principio permanente della vita di Chiesa, chiarendo previamente alcuni aspetti malcompresi, come l’equiparazione fra collegialità e sinodalità e, inoltre. evitando il rischio di risolvere la sinodalità in uno stile dialogico e partecipato nella prassi ecclesiale, e nulla di più.

– Un’attenzione: sì allo stile sinodale, ma la sinodalità è di più. È cosa buona motivare l’importanza dello stile relazionale, dialogale e di partecipazione dentro la vita di Chiesa, sulla linea dell’intuizione riflettuta e tematizzata del teologo Christoph Theobald – nato in Germania ma appartenente ai gesuiti di Francia, tanto che si definisce «un gesuita tedesco di Parigi –, che si spinge a dire che il cristianesimo è “questione di stile”, forse caricando l’idea di stile di contenuti troppo grandi e anche estranei.

Perciò, eminenza, nell’adozione dello stile sinodale, nei discorsi CEI e nelle sue proposte pastorali, forse bisognerà tenere presente che molto prezioso e vitale è lo “stile sinodale”, ma solo se si congiunge ad altro, come il vicepresidente della CEI afferma con retta sintassi teologica: «Due temi possono mettere alla prova oggi lo Spirito e la sposa: lo stile sinodale e l’evento sinodale. Sono due capitoli che rivelano se la cura animarum sfugge al duplice pericolo dell’idealismo spiritualista e del pragmatismo organizzativo. La Chiesa è più di un ideale o di un’organizzazione: è mistero e storia, è libertà e legame, è carisma e istituzione, è anima e corpo. Nessuno può pretendere di sequestrare da solo una dimensione» (F.G. Brambilla, Liber pastoralis, Queriniana, Brescia 20174, pp. 26-27).

– Necessita una chiarificazione rigorosa e necessaria. Eminenza, ha fatto piacere a tutti che l’albero del Concilio abbia prodotto un frutto così buono, qual è quello della collegialità episcopale, sia per l’equilibrio maggiore che ha fatto recuperare nel rapporto fra papato ed episcopato, dopo che il Vaticano I aveva accentuato molto il ruolo pontificio, sia per i forti impulsi dati alla collaborazione tra i vescovi (le conferenze episcopali ne sono un segno eloquente, dunque anche la CEI), sia, infine, per il buon riverbero che la collegialità ha avuto sull’intera Chiesa nella direzione del recupero di una comunionalità più ampia e profonda.

Tuttavia, la collegialità, plinto basilare per l’edificio della Chiesa, non è tutto né, di conseguenza, è la sinodalità. Perciò, in attesa del Sinodo del 2022, è necessario chiarire previamente alcuni equivoci, il primo dei quali è proprio il confondere sinodalità e collegialità: infatti, quest’ultima ha per soggetto specifico il corpo episcopale (ma, forse, si richiederebbe anche una più esplicita e motivata implicazione nella sua orbita teologica del corpo presbiterale). La sinodalità, invece, ha per soggetto l’intero “popolo di Dio” e, pertanto, abbraccia dentro di sé la collegialità episcopale, ne comprende e ne oltrepassa anche i limiti.

La collegialità è a servizio della sinodalità, poiché quest’ultima è sia il nome del progetto salvifico iniziale (o protologico) sia del compimento glorioso finale (o escatologico) del Dio trinitario. La sinodalità non toglie nulla alla collegialità, ma nemmeno si lascia confondere con essa né sostituire da essa. «La “sinodalità”, perciò – ha insegnato un eccellente maestro di teologia dell’Università Gregoriana –, ha una tensione maggiore della “collegialità”: quella infatti si riferisce a pastori e fedeli in forza della relazione di comunione che si crea con il battesimo fra tutti i rigenerati in Cristo; questa invece comprende tutti e solo i vescovi in virtù del sacramento dell’ordinazione episcopale e della comunione con il collegio episcopale» (A. Anton, “Strutture sinodali dopo il Concilio. Sinodo dei vescovi – Conferenze episcopali”, in CredereOggi, 13 [1993/4] 91).

Sinodalità e collegialità, pertanto, sono da tenere in mutua congiunzione, ma non in modo fusionale, né esse vanno equiparate o variate nella sequenza della “logica dei misteri”. La sinodalità è prima e va oltre la collegialità. La conseguenza, eminenza, è che anche la CEI deve essere anzitutto sinodale e per la sinodalità, orientando l’ineliminabile e fondamentale carisma sacramentale della collegialità nella direzione della sinodalità e a suo vantaggio: i posse salvifici particolarissimi dell’episcopato sono a servizio di tutti i christifideles.

Sulla celebrazione della sinodalità nella Chiesa in Italia

Eminenza, credo sia ormai un anno da quando è corsa voce, seguita da commenti di differente lettura, circa la possibilità di un Sinodo della Chiesa in Italia. Considerata ogni cosa, è da pensare che sia provvidenziale che quella possibilità non si sia data, stante la scelta, felicissima di papa Francesco di indire un Sinodo della Chiesa universale sul tema della sinodalità. Non sarebbe stato conveniente prepararsi a un Sinodo della nostra Chiesa, durante la preparazione o la celebrazione del Sinodo del 2022.

È da immaginare che, proprio sulla matrice che uscirà da questo Sinodo universale si rilancerà, con più frutto, l’esperienza sinodale delle Chiese “locali” (intesa come Chiesa presente nei diversi territori nazionali). Allora potrebbe riproporsi la celebrazione di un Sinodo della Chiesa in Italia. O anche: una celebrazione sinodale diversa.

Nel suo primo anno di pontificato papa Francesco ha suscitato un interesse assai vasto per la sinodalità, intesa anche come stile ecclesiale e come forma generale di pastorale. Egli ha chiesto una sinodalità diffusa con parole esplicite: «La sinodalità va vissuta a vari livelli» (Intervista a La Civiltà Cattolica del 18 agosto 2013). Perché, allora, non pensare alla celebrazione di Sinodi regionali, ossia delle Regioni ecclesiastiche presenti nel territorio del nostro paese?

La celebrazione di questi Sinodi, nella creatività saggia e profetica che lo Spirito sa suscitare, potrebbe offrire l’occasione per trovare fili forti al fine per raccordare le nostre pastorali maggiori all’interno delle singole Regioni pastorali: la formazione permanente del clero, gli studi ecclesiastici in Regione, le problematiche della famiglia, dei giovani, del lavoro, della cultura, della “pietà popolare”, delle nuove opportunità, dei nuovi doveri, delle impreviste riduzioni o riqualificazioni o creazioni pastorali imposte dalla policrisi del Coronavirus, che inizia un nuovo eone, che va gestito il più possibile sinodalmente.

Eminenza, vi chiedo mille perdoni per aver dilatato troppo la confidenza con voi, ma forse ogni tanto serve rischiare di andare dove ci porta il “cuore” biblicamente inteso. Vi bacio le mani e, per ultimo, vi ringrazio per le parole d’incoraggiamento usate più volte a favore dei sacerdoti, che sono state molto apprezzate perché i sacerdoti vanno anzitutto amati e aiutati.

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6 Commenti

  1. Sergio 21 settembre 2020
  2. Beretta Roberto 9 settembre 2020
  3. Samuele 9 settembre 2020
  4. Giorgio 9 settembre 2020
  5. Chiara bellani 9 settembre 2020
  6. Lucia Finocchi 8 settembre 2020

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