Luciano Migliavacca

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liturgia

L’autore ci parla del suo nuovo libro in presentazione in questi giorni: Luciano Migliavacca. La musica sacra al bivio, edito da BAM (Beyond Any Music). Le domande sono poste da Giordano Cavallari.

  • Don Luigi, l’anno scorso ci ha parlato del suo volume su Lorenzo Perosi compositore (qui). In precedenza, lei ha pubblicato altri volumi sempre di musica liturgica e sacra. Quali le ragioni di questo suo nuovo lavoro, rispetto ai precedenti?

Quest’ultimo saggio su Luciano Migliavacca va collegato a quello su Lorenzo Perosi. Studiando il Novecento mi sono accorto che questi due protagonisti della musica sacra sono tanto diversi quanto fondamentali: si potrebbe dire che la musica sacra del Novecento stia dentro queste due estremi.

Con la morte di Perosi, nel 1956, è cominciato il vero lavoro del secondo, chiamato alla direzione della Cappella Musicale del Duomo di Milano. Migliavacca ha fatto la sua comparsa in un clima culturale e sociale particolarmente significativo, nel quale cominciavano a farsi conoscere figure quali David Maria Turoldo, Divo Barsotti e Ernesto Balducci, che l’allora arcivescovo Giovanni Battista Montini chiamava quali predicatori per la Missione straordinaria del 1957. È a queste figure che va accostato Migliavacca. Con questo volume intendo andare a comporre un quadro storico che mi sta molto a cuore.

  • Perosi è un musicista abbastanza conosciuto, mentre il nome di Migliavacca non dice molto, ai più. Perché i lettori dovrebbero conoscerlo?

Perché, per me, rappresenta il punto estremo verso cui ci si è spinti nell’emancipazione di un linguaggio musicale all’interno del culto, senza dimenticare quanto accaduto prima. Se c’è una difficoltà nella musica di Migliavacca sta nell’assenza di “infrastrutture”: in questo senso costituisce il contrario di Perosi.

Migliavacca non indulge, non concede niente più di quanto conceda la liturgia ed è per questo che è, ancora oggi, lui ad essere sulla strada giusta, se non altro la più coerente. Il suo stile si pone agli antipodi di quanto accade oggi nelle nostre liturgie, ove si indulge e si cercano continuamente prestiti da altri universi semantici.

Migliavacca è importante, inoltre, non solo per il mondo prettamente musicale. È una figura emblematica anche dal punto di vista sacerdotale. Rappresenta un’autenticità di stile, oltre che di eleganza, che sta scomparendo nel clero. Inoltre, si può definire un pioniere. Formato entro schemi preconciliari, li ha dovuti e li ha saputi aggiornare alla luce del Concilio.

Con strumenti precari, ha fatto emergere uno stile così originale da essere inimitabile, eppure assai riconoscibile; come lo è, del resto, per altri versi, anche quello di Perosi (qui: Gloria dalla Missa Dominicalis I).

  • Il sottotitolo di questo libro associa Migliavacca ad un bivio: quale bivio?

Nella sua radicalità il bivio sta tra i musicisti e i liturgisti. La musica sacra del dopo Concilio è stata costretta a trovare la propria soluzione in un’alternativa, non in una conciliazione tra queste due vie. Gli anni Settanta per la Chiesa hanno coinciso con un momento di smarrimento, o meglio di incapacità di interpretare i dettami conciliari con equilibrio.

Ad esempio, Domenico Bartolucci, direttore della Cappella Sistina, ebbe un atteggiamento molto diverso da quello di Migliavacca nei confronti delle innovazioni apportate dal Concilio. Migliavacca ha intrapreso la declinazione degli orientamenti senza mai smarrire la tradizione, venendo incontro consapevolmente ad un fatto nuovo. Le lettere di quegli anni indirizzate al suo vescovo Giovanni Colombo mostrano chiaramente che il lavoro sulla musica era per lui un impegno morale e che le scelte liturgico-musicali corrispondevano a chiare premesse culturali.

Alla fine degli anni Settanta era già visibile un perimetro che nel 1985 diventerà un muro. Migliavacca non coordinava già più la commissione di musica sacra diocesana e soprattutto non condivideva le scelte compiute dal Seminario. In quegli anni la musica in chiesa e in Seminario era coordinata da Eugenio Costa e da Giancarlo Boretti nelle cui idee prevaleva il concetto di funzionalità, secondo il quale ogni musica diventa liturgica non per caratteri intrinseci e propri, bensì in funzione dell’azione liturgica e soprattutto della partecipazione della assemblea.

  • Questo principio, in sé, non mi sembra sbagliato…

Certo. Ma non deve diventare un assoluto. La cosa più deprimente allora fu l’unilateralità delle scelte. Io colloco a quest’altezza la crisi della musica sacra italiana.

  • Nella seconda parte del libro lei approfondisce il pensiero musicale del compositore e lo avvicina, persino, a quello di Sant’Agostino: qual è, secondo lei, il punto di intersezione tra figure così lontane nel tempo?

I riferimenti costanti nelle scelte musicali di Migliavacca sono Ambrogio e Agostino. Non ci sono dubbi. L’uno serve per legittimare il diatonismo, l’altro per ancorarlo a un’idea di musica nella sua ambiguità costitutiva, collocata entro il continuo fluttuare tra esuberanza e malinconia.

Migliavacca è stato un grande studioso della tradizione ambrosiana, ha dedicato diversi saggi agli inni e ha catalogato con attenzione la terminologia musicale agostiniana. È per questo che il suo pensiero musicale potrebbe essere rappresentato compiutamente nella Augustiniana lectio choralis, scritta in occasione del XVI centenario dell’ordinazione episcopale di Ambrogio, avvenuta nel 374, ove trovano eco frammenti e ambientazioni tratte dagli inni ambrosiani. Soltanto chi era imbevuto di un tale pensiero musicale antico poteva intraprendere un percorso così pure innovativo. (qui: Inno a Sant’Ambrogio).

  • Migliavacca è stato direttore della prestigiosa Cappella Musicale del Duomo di Milano per quarant’anni: qual è il rilievo da conferire a questa figura a livello nazionale e, forse, internazionale?

La rilevanza sta nella straordinaria dedizione e nella pazienza quotidianamente spesa. Lo scopo primario di don Luciano era la liturgia, anzi la preghiera corale, quotidiana e festiva in Cattedrale. Caratteristiche – queste – che lo hanno allontanato dal concertismo, dalla ribalta, dalle logiche dell’industria culturale in cui siamo immersi oggi.

Il cardinale Montini ricorda che quando la sera tornava in arcivescovado e faceva il bilancio della giornata, avvertiva un senso di sgomento per il peso da portare sulle spalle: lo superava solo pensando che nella sua cattedrale un capitolo di canonici – mattina e sera – pregava per il popolo ambrosiano e un coro continuava a cantare. È questo che stava a cuore a Migliavacca, è questo che significa dirigere un’istituzione come la Cappella Musicale del Duomo.

Penso, perciò, che sia rilevante l’umiltà, la perseveranza, la preparazione della figura: la sua spiritualità di vero musicista al servizio di Cristo e della Chiesa.

  • Ora meglio sappiamo che don Lorenzo Perosi, oltre a dedicarsi alla musica liturgica e sacra, ha composto altro: bellissima musica da camera e per orchestra. E Migliavacca?

Migliavacca ha concentrato la propria attenzione esclusivamente sulla liturgia: ciò è indubitabile. Ma forse è meglio dire che la sua attenzione prioritaria è stata la Parola. Non per nulla si è laureato in lettere – con Giuseppe Lazzati – all’Università Cattolica, ed ha sempre mostrato una predilezione per il rapporto tra parola e musica.

Proprio per questo la sua attenzione come compositore ha spaziato nel campo della poesia frequentando diversi autori: Leopardi, Manzoni, Montale, Pascoli, Ungaretti, Palazzeschi, Bacchelli, Quasimodo, Rebora, Campana (qui: Le Vele per Coro di fanciulli), Pound.

  • Ogni direttore di cappella ha proprie caratteristiche di formazione e studio, con conseguenti scelte. Le faccio una domanda già fatta: lei che scelte farebbe per la liturgia oggi, specie per la musica di cattedrale?

Continuerei, come sta facendo lodevolmente l’attuale direttore della Cappella Musicale di Milano, sulla strada della valorizzazione del canto ambrosiano, magari senza perdere il rapporto con l’immenso patrimonio di cui dispone la tradizione milanese, che significa la predilezione per le formazioni corali con organo concertante, lasciando in secondo piano il coro a cappella.

Penso non solo a Migliavacca, ma anche a Grossi, Monza, Sarti, Fioroni, Gallotti e Marziano Perosi. Dimenticare questi autori significa smarrire la particolarità di Milano, oltre che l’espressione complessiva della liturgia. In questo senso il ricorso oggi al solo Rinascimento musicale è un rifugio per elaborare un “lutto”, una perdita evidente: quella espressiva.

Migliavacca da questo punto di vista è stato un vero maestro in senso evangelico perché ha saputo estrarre dal tesoro dell’archivio della Cappella «cose nuove e antiche» (qui: la Messa ad una voce in italiano).

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