McElroy: l’ora di trasformare la Chiesa

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La diocesi di San Diego nel sud della California al confine col Messico, guidata da Robert McElroy, si conferma  uno dei luoghi più interessanti di ricezione locale e contestuale della visione evangelica di papa Francesco, per un cattolicesimo all’altezza del nostro tempo e del compito missionario che lo deve innervare da cima a fondo.

Quella di San Diego, ricorda McElroy nell’omelia per l’ordinazione di Ramon Bejarano a vescovo ausiliare, «è una Chiesa di migranti» provenienti non solo da ogni parte del mondo, dai confini messicani a sud della diocesi, ma anche dall’interno degli Stati Uniti per via della grande base della Marina americana che si trova giusto alle porte della città.

Una Chiesa meticcia

Una Chiesa di migranti non è fatta semplicemente di «arrivi» che devono essere integrati in un quadro pastorale che li precede senza farsi interrogare e plasmare da essi; ma è soprattutto una Chiesa fatta di transiti, meticciamenti, tutta coinvolta in un continuo processo di apprendimento, in un movimento che si mette in cerca per raggiungere – delocalizzando e destabilizzando così strutture che sembravano assodate, ma che rischiano di essere solo il porto tranquillo dove nulla si muove.

Partendo dal Vangelo della messa di ordinazione episcopale, quello del Buon Pastore, McElroy individua la tenerezza esigente, intima e personale, del Padre quale disposizione affettiva che deve penetrare nel più profondo dei vissuti credenti e delle strutture della Chiesa locale. «Il tema del buon pastore è il cuore del Vangelo di oggi. Non c’è immagine più attraente in tutti i vangeli, così esigente nella radicalità della consegna di sé al bene del popolo di Dio, così umano nella sua espressione di cura quale atteggiamento permanente, che custodisce e protegge, così individuale nella sua espressione dell’amore divino del Padre che ci ha conosciuto fin dal primo momento nel grembo delle nostre madri e ci amerà fino alla fine».

Una tenerezza della cura e dell’amore, capace di rivolgersi individualmente a ogni persona, che deve rappresentare l’imperativo secondo il quale si declina la pastorale di una Chiesa locale. Questo ancora di più in un momento in cui la comunità cristiana si trova «in un tempo di crisi sociale» complessa: quella della pandemia provocata dal Covid-19, e quella delle agitazioni legate alla questione razziale che hanno scosso il corpo del paese. «Sarebbe un errore per noi come Chiesa locale guardare a queste sfide come qualcosa di solo temporaneo, oppure pensarle limitate nelle loro implicazioni unicamente per la vita della Chiesa di San Diego».

Punti di non ritorno

La pandemia, infatti, «ha trasformato il panorama della nostra vita ecclesiale in modi che cambieranno permanentemente la natura della nostra azione pastorale e di evangelizzazione». I modelli che ci sono familiari, quelli su cui sono stati investiti anni di impegno e di risorse, non funzioneranno più, sono stati definitivamente archiviati dalla brutalità della vita reale. Davanti a questa sfida, il compito della Chiesa è quello di reinventarsi, di avere il coraggio di abbandonare il porto sicuro, per navigare insieme all’umano nella concretezza della sua vita.

Un secondo «punto di non ritorno» è quello legato alle «questioni della razza e della nazionalità, dei diritti dei migranti e dell’imperativo per un’autentica solidarietà nella società e nella nostra Chiesa, emerse negli ultimi mesi» in tutta la loro drammatica urgenza. La comunità cristiana deve essere consapevole, e deve farsi protagonista, di «trovarsi nel mezzo di un profondo rinnovamento sociale in cui il senso di uguaglianza all’interno della nostra nazione sta venendo irrevocabilmente cambiato in meglio».

Di questi punti di non ritorno la comunità cristiana deve essere all’altezza proprio nel momento in cui la «pandemia ha distrutto il nostro sentimento personale e collettivo di sicurezza a ogni livello. Ci siamo trovati davanti alla realtà esistenziale che non abbiamo il controllo e che la sicurezza che abbiamo coltivato come un tesoro è un’illusione».

Tutto questo deve essere vissuto come l’invito esigente a dare un nuovo volto alla Chiesa locale: «Nei prossimi mesi e anni, la missione pastorale della diocesi di San Diego non deve essere quella di un ritorno alla normalità, ma quella di una trasformazione».

La pastorale dev’essere immaginata in maniera completamente nuova, così che essa diventi il modo che porta la Chiesa locale là dove le persone sono effettivamente. E non lo deve fare partendo dal nulla, ma facendo tesoro di tutto quello che la Chiesa di San Diego è stata capace di fare in questo lungo e duro tempo di pandemia. Qui abbiamo un vescovo che riconosce le abilità messe in campo dalla sua Chiesa in un passaggio inedito, e su di esse vuole costruire insieme alla sua gente il futuro della diocesi.

Quando il Vangelo è altrove

Una Chiesa locale che deve apprendere da altre Chiese, in particolare quelle latino-americane, vie per liberarsi dal peccato originario della nazione: quello dell’esclusione razziale. «Se dobbiamo costruire una vera solidarietà nella comunità della Chiesa e nella nostra nazione, dobbiamo riconoscere la dimensione di peccato che si trova in tutte le strutture e azioni di esclusione e di esclusività. Eliminando questa dimensione di peccato, noi ci muoviamo verso la giustizia e guariamo noi stessi».

La Chiesa di San Diego, insieme al suo vescovo, vuole essere una Chiesa che sa guardare dove sono in atto processi capaci del cristianesimo nel tempo che viviamo, e vuole essere una Chiesa che da essi impara per trasformare se stessa: «Ed è la Chiesa dell’America Latina quella che ha prodotto la teologia più dinamica e feconda per essere all’altezza del compito che Gesù Cristo ci affida nel XXI secolo». Trasformare una Chiesa locale vuol dire, dunque, cogliere le inversioni dei movimenti e lasciarsi istruire da esse.

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