Mongolia: 25 anni di evangelizzazione

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La piccola comunità cristiana cattolica della Mongolia –1.300 fedeli, pari allo 0,04% su una popolazione di circa tre milioni di abitanti, in gran parte buddista, in una superficie di 1.564.900 kmq – ha celebrato quest’anno i suoi primi 25 anni di evangelizzazione.

A dire il vero, storicamente, i primi tentativi di portare il messaggio del Vangelo nel paese risalgono al 6° secolo, ma con la caduta della dinastia Yuan la fede cattolica, anziché fiorire, scomparve del tutto.

L’attività missionaria riprese verso la metà del sec. 19°, ma con l’avvento del comunismo, finì anche in questo caso nel nulla.

Il racconto degli inizi

Bisogna arrivare al 10 luglio 1992, quando tre missionari del Cuore Immacolato di Maria giunsero nel paese per iniziare nuovamente l’opera di evangelizzazione, questa volta con successo. Due erano filippini – p. Venceslao Padilla e p. Gilbert Sales – e uno belga, p. Robert Goessens. Il momento era favorevole perché, caduto il comunismo, la Mongolia era diventata un paese democratico e il nuovo governo aveva subito deciso di allacciare relazioni diplomatiche con il Vaticano.

I tre missionari furono accolti con grande cordialità. I primi tempi non furono per loro facili, anche se non erano – per così dire – dei novizi. Avevano dietro di sé una buona esperienza missionaria: Goessens in Giappone, Sales ad Hong Kong e Padilla a Taiwan.

Padilla, narrando ora i problemi incontrati, ha ricordato anzitutto la difficoltà del clima: in Mongolia, d’inverno il termometro scende fino a 47 gradi sotto zero e d’estate tocca i 37 sopra zero. Un altro ostacolo fu la lingua. I mongoli parlano un idioma che appartiene alle lingue altaiche, oltre tutto difficile da pronunciare perché molto gutturale.

Ma, a parte questi aspetti, più difficile risultò l’inserimento in una cultura completamente diversa. P. Padilla racconta: «I mongoli sono un popolo nomade, e dei nomadi possiedono la cultura che consiste nello spostamento da un luogo all’altro al seguito delle loro mandrie, alla ricerca di sempre nuovi pascoli. Questo genere di vita influisce anche sul loro modo di pensare e di rapportarsi con gli altri. La gente vive nei gers – la tenda tradizionale che ha una quantità di significati spirituali e religiosi. La struttura circolare, per esempio, vuole significare l’unità della famiglia. Indossano abiti (del) caratteristici del posto, adatti alle estreme condizioni climatiche.

Come evangelizzare

Una delle maggiori difficoltà era di portare la fede a gente che aveva già un suo diverso quadro di credenze, relative al buddismo (di tradizione tibetana). Oltre a questo, le tendenze sciamaniche presenti tra la gente.

Poco alla volta, tuttavia, i missionari trovarono il modo di entrare nella mentalità dei mongoli e di comprenderne la cultura. Studiarono la loro lingua e impararono a mangiare il loro cibo.

Nell’evangelizzazione fu adottato il metodo evangelico del “vieni e vedi”, accompagnato da atteggiamenti di aperta amicizia, disponibilità, e di vicinanza al popolo, soprattutto ai poveri. «La nostra prima attività sociale – ha spiegato Padilla – è consistita nell’andare incontro ai bambini che formicolavano per le strade della città e passavano le notti nelle botole dove trovare un po’ di riparo e di caldo soprattutto d’inverno». Inoltre – ha aggiunto – «abbiamo cercato di fare del nostro meglio per esporci alle concrete realtà della gente, specialmente ai poveri. E da questi contatti sono nate delle iniziative per servirli e aiutarli nei loro bisogni».

Grandi prospettive si aprirono ai missionari con l’avvento di un regime democratico nel paese. Durante il governo comunista la libertà di espressione era limitata e nel cuore della gente si era creato un profondo vuoto spirituale. Con l’istaurarsi della democrazia, la gente, soprattutto i giovani, sentirono il desiderio di esplorare e conoscere cose nuove. E la fede cattolica era nuova per loro e molti si sentirono attirati da ciò che essa offriva. «Così – ha affermato Padilla – predicare con i fatti e dare testimonianza divenne lo strumento che scegliemmo per diffondere la fede e i valori evangelici. E a mano a mano che l’interesse cresceva, abbiamo organizzato dei corsi di insegnamento per coloro che desideravano fra parte della Chiesa».

Col tempo diversi tra i battezzati espressero anche il desiderio di sentirsi più coinvolti nella vita della Chiesa e di poter svolgere in essa un ruolo attivo. Con un certo orgoglio Padilla ha affermato: «alcuni sono stati mandati perfino all’estero per studiare da catechisti e diventare educatori. In questo modo attualmente disponiamo di un gruppo di catechisti e di operatori pastorali».

25 anni dopo…

Sono trascorsi ormai 25 anni. Due dei primi tre missionari sono migrati altrove: Goessens è tornato in Giappone e Sales è diventato preside della Saint Louis University a Baguio City nelle Filippine. È rimasto Padilla, che è diventato vescovo. Nel frattempo, sono giunti altri missionari: attualmente sono 78, di 11 congregazioni diverse, e operano in sette parrocchie in varie parti del paese.

Lo scorso anno la piccola comunità cristiana ha avuto la gioia di vedere salire all’altare il suo primo sacerdote: Joseph Enkh-Baatar. E attualmente c’è un altro giovane mongolo che studia in seminario, mentre continuano ad esserci sempre nuovi battesimi.

«Noi – ha affermato il vescovo Padilla – continuiamo a organizzare attività e fare progetti alcuni dei quali sono già in corso. La nostra speranza è di avere più vocazioni locali». E ha concluso: «Ora abbiamo bisogno di rafforzare la formazione permanente dei missionari, dei fedeli e dei credenti nel campo della teologia, della Scrittura e delle opere sociali».

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