Nostalgia di Pio IX: quis corriget correctionem?

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Nel suo ultimo libro postumo – Retrotopia – Z. Baumann cita una bella definizione di nostalgia formulata da una docente di Harvard:

«Nostalgia è un sentimento di perdita e spaesamento, ma è anche una storia d’amore con la propria fantasia».

Baumann costruisce tutto il suo libro sulla base di tale “forza nostalgica” del nostro tempo. Questo mi sembra un bel criterio per intendere anche quel documento, detto Correctio filialis, con cui 40 cattolici, con l’aggiunta di altri 22 firmatari, hanno preteso di identificare 7 eresie nel testo della esortazione apostolica Amoris lætitia, chiedendo al papa di «correggere se stesso» e di «tornare sulla retta via».

Non voglio affrontare qui tutte le questioni di opportunità e di decoro di un tale scritto. Mi concentro piuttosto sul suo contenuto e sulle “scorrettezze formali” che, da un punto di vista puramente oggettivo, manifestano le 7 proposizioni che pretendono di identificare gli “errori papali”. La nostalgia, infatti, gioca un brutto tiro a chi ne è vittima: non solo gli impedisce di capire il presente, ma anche lo costringe a deformare il passato. Come dice la bella citazione, essa è frutto di uno spaesamento nel presente e di una fantasia sul passato. Vediamo perché.

a) La “tecnica” dei “canoni di condanna”

La Chiesa, nella sua lunga storia, ha elaborato con finezza una “espressione magisteriale” che ha preso la forma, fin dal Concilio di Nicea, del “canone di condanna”. Con esso una “proposizione”, identificata come erronea, viene formalmente condannata e resa incompatibile con la comunione ecclesiale. Ovviamente la proposizione non viene stabilita da un “gruppo di laici” e secondo criteri rigorosi: deve effettivamente corrispondere a posizioni esistenti storicamente e deve essere correlata a una posizione acquisita e compresa del magistero in vigore. Nella proposizione viene condannato solo ciò che essa effettivamente dice e per come lo dice, non altro. Per questo, nella storia, il “canone di condanna” ha svolto anche una funzione di “garantismo” rispetto ai diritti dei soggetti astrattamente condannabili per eresia.

b) La riduzione della dottrina a proposizioni di verità

Ma, accanto a questa antica tradizione, bisogna anche riconoscere che essa, per esplicita decisione degli ultimi due concili ecumenici (Vaticano I e Vaticano II) ha conosciuto un progressivo superamento. A partire dalla seconda metà del XIX secolo ci si è resi conto che la funzione dei “canoni di condanna” non rispondeva più alle esigenze del magistero e che bisognava far prevalere la “riformulazione degli usi”, piuttosto che la “condanna degli abusi”. La proposta di comporre uno sterminato elenco di “proposizioni condannate” al Vaticano I, e la resistenza a condannare anche una sola proposizione nel Vaticano II sono la testimonianza di una tendenza che, pur senza scomparire – basti ricordare la reazione cattolica al modernismo – attestano un processo irreversibile e salutare. Su questo superamento si leggono belle pagine in G. Lindbeck e in A. Dulles, che avrebbero giovato agli estensori del testo.

c) La doppia possibilità di “correzione scorretta”

Ciò non di meno, evocando non a caso gli spettri di Lutero e del modernismo, il documento continua su questa strada ormai chiusa da decenni, ma lo fa, purtroppo, non rispettando le regole di questo linguaggio classico. Perché per formulare “canoni di condanna” – anche se da parte di soggetti incompetenti – occorre rispettare un doppio livello di coerenza:

a) Da un lato, occorre che la proposizione formulata corrisponda effettivamente ad una espressione teologica o magisteriale realmente esistente. Ogni forzatura o analogia o generalizzazione del testo rende inutile la formulazione della proposizione.

b) D’altro canto, occorre che il parametro magisteriale  che sarebbe contraddetto dal testo in questione corrisponda effettivamente ad una “verità” acquisita e definita dalla tradizione cattolica.

Perché vi sia una “questione” interna alla tradizione, o un “vulnus” che la lacera, occorre che entrambi questi criteri vengano scrupolosamente osservati. In mancanza anche solo di uno di essi, la contestazione è fallace e priva di rilevanza. Nel caso della “Correctio”, come vedremo, nelle sue 7 proposizioni essa difetta sempre di questi criteri e pertanto deve essere considerata frutto di spaesamento e di fantasia, senza alcun effetto sul piano della dottrina. E’ un ottimo documento che attesta la “nostalgia” verso una Chiesa e verso un mondo che non solo non c’è più, ma che non c’è mai stato.

d) Le singole proposizioni e i loro punti ciechi

Vengo ora ad un rapido esame di ciascuna delle 7 proposizioni e cerco di mostrare il “defectus” che le contraddistingue. In via generale bisogna anche aggiungere che le proposizioni “incriminate” non sono mai citazioni letterali di AL, ma ricostruzioni, spesso  del tutto arbitrarie, del suo contenuto. Questa riduzione di AL alla negazione della dottrina ottocentesca sul matrimonio costituisce l’errore metodologico che compromette in radice tutta la operazione. Ma esaminiamole punto per punto:

«Una persona giustificata non ha la forza con la grazia di Dio di adempiere i comandamenti oggettivi della legge divina, come se alcuni dei comandamenti fossero impossibili da osservare per colui che è giustificato; o come se la grazia di Dio, producendo la giustificazione in un individuo, non producesse invariabilmente e di sua natura la conversione da ogni peccato grave, o che non fosse sufficiente alla conversione da ogni peccato grave».

Né Amoris lætitia né altre espressioni di papa Francesco lasciano anche solo sospettare che questa affermazione possa essere stata pronunciata. Il vizio teorico e teologico di questa proposizione è quello di intendere il “comandamento oggettivo” senza alcun riferimento alla esperienza del soggetto. La giustificazione chiede una risposta: la fatica di questa risposta non è ecclesialmente irrilevante, se non per una versione “impersonale” e “burocratica” della dottrina. Nessuno dubita ad es. che Dio doni a ciascuno la forza di “resistere” alla tentazione di uccidere. Ma ci sono circostanze particolari in cui l’uccisione del prossimo, se è condizione della mia vita, o di quella di mio figlio, diviene possibile, quando non necessaria. Qui non è in questione la “forza del soggetto”, ma il contesto in cui il soggetto risponde alla grazia. Non è negato il dono oggettivo di Dio, ma è salvaguardata la complessità della esperienza soggettiva.

«I cristiani che hanno ottenuto il divorzio civile dal coniuge con il quale erano validamente sposati e hanno contratto un matrimonio civile con un’altra persona (mentre il coniuge era in vita); i quali vivono more uxorio con il loro partner civile e hanno scelto di rimanere in questo stato con piena consapevolezza della natura della loro azione e con il pieno consenso della volontà di rimanere in questo stato, non sono necessariamente nello stato di peccato mortale, possono ricevere la grazia santificante e crescere nella carità».

La “condizione oggettiva” del divorziato risposato non è sufficiente a formulare il giudizio sulla persona. La differenza tra “istituzione matrimoniale” e “persone sposate” è il frutto del cammino ecclesiale che inizia dai primi del 900 e che progressivamente giunge fino a AL: se si formula la questione sulla base della esperienza di metà ottocento – che poteva presumere di prescindere dal soggetto –  è ovvio che si cade nello spaesamento e si arriva a ipotizzare che l’unico mondo cattolico giustificato possa essere quello di quel tempo. Ma è solo una ricostruzione fantasiosa: non vi è alcuna necessità di ritenere in peccato mortale chi “rimane in quello stato”. Non lo si può escludere, ovviamente, ma non si è costretti per necessità a considerarla una presunzione ecclesiale che si impone indistintamente, così come poteva essere 150 anni fa.

«Un cristiano può avere la piena conoscenza di una legge divina e volontariamente può scegliere di violarla in una materia grave, ma non essere in stato di peccato mortale come risultato di quell’azione».

La volontà di Dio e la legge divina non sono la stessa cosa. Ridurre la volontà di Dio ad una legge positivamente formulata significa perdere lo spazio della fragilità e della misericordia come criterio primo ed ultimo della azione ecclesiale. Inoltre, la piena conoscenza della legge divina non significa la sua conoscenza “in astratto”, ma in concreto. Tuttavia, per la conoscenza in concreto occorre conoscere le circostanze e le condizioni del soggetto. La proposizione proposta presuppone come chiaro a priori ciò che di volta in volta deve essere chiarito. Essa parla come se vivessimo in una “società chiusa”: per questo è il frutto di uno spaesamento e di una fantasia che pregiudica il rapporto con la realtà mondana ed ecclesiale contemporanea.

«Una persona, mentre obbedisce alla legge divina, può peccare contro Dio in virtù di quella stessa obbedienza».

Obbedire alla legge divina non è il fine, ma il mezzo. Fare la volontà di Dio è più grande e più complesso che obbedire ad una legge. Per questo già gli antichi sapevano che “summum ius summa iniuria”. Perché mai dovremmo scandalizzarci della insufficienza di una adesione alla tradizione pensata secondo il criterio assoluto della “obbedienza alla legge”? Vi è, in questa proposizione, l’ombra lunga delle “fantasie istituzionalistiche” che hanno pensato di declinare il Vangelo come un “parallelismo giuridico” rispetto allo stato moderno. Quel progetto, che si colloca tra fine XIX e inizi XX secolo, ha trovato una nuova formulazione a partire dal Concilio Vaticano II. Ma la nostalgia ripete ostinatamente la formula superata e la pensa come identica al Vangelo.

«La coscienza può giudicare veramente e correttamente che talvolta gli atti sessuali tra persone che hanno contratto tra loro matrimonio civile, quantunque uno dei due o entrambi siano sacramentalmente sposati con un’altra persona, sono moralmente buoni, richiesti o comandati da Dio».

Non vi è dubbio che la esclusione della moralità dall’ambito del “matrimonio civile” costituisca l’eredità troppo stretta e asfittica di una contrapposizione tra Stato liberale e Chiesa cattolica che abbiamo ricevuto dal XIX secolo. L’atto sessuale è parte della identità del soggetto: separare la sessualità dalla identità cristiana è una operazione su cui non esiste alcuna possibilità di invocare una univocità della tradizione pre-ottocentesca. Se solo la nostalgia dell’ottocento permettesse di leggere la Divina Commedia, il Decamerone, o i registri dei parroci fino al XV secolo, scoprirebbe un mondo in cui il peccato più grave non era la lussuria, ma la invidia. Qui, per difendere la lotta ossessiva contro la lussuria moderna, non si resiste alla tentazione di invidiare non solo il mondo contemporaneo, ma anche la Chiesa nelle sue espressioni più alte.

«I principi morali e le verità morali contenute nella Divina Rivelazione e nella legge naturale non includono proibizioni negative che vietano assolutamente particolari generi di azioni che per il loro oggetto sono sempre gravemente illecite».

Una nuova confusione avviene su questo punto. La tradizione conosce bene la differenza tra comandamenti positivi e proibizioni negative. Ma il massimalismo recente ha costruito un sistema blindato – frutto di spaesamento e di fantasia – che a partire dalla “gravità dell’oggetto” pretende di essere dispensato dalla considerazione delle circostanze. L’indifferenza verso i soggetti è una delle conseguenze di questa impostazione distorta. Ciò che è “intrinsecamente male” è un concetto-limite che non si può applicare alla esperienza ordinaria. La pretesa che noi possiamo disporre di un elenco chiuso di fattispecie, per la cui considerazione le circostanze soggettive siano irrilevanti, è la risposta teoricamente sfasata e tradizionalmente non fondata allo spaesamento di fronte alla società aperta, nella quale il soggetto acquisisce maggiore autonomia e libertà, della quale deve tener conto il discernimento ecclesiale.

«Nostro Signore Gesù Cristo vuole che la Chiesa abbandoni la sua perenne disciplina di rifiutare l’Eucaristia ai divorziati risposati e di rifiutare l’assoluzione ai divorziati risposati che non manifestano la contrizione per il loro stato di vita e un fermo proposito di emendarsi».

Definire “perenne” una disciplina ottocentesca, maturata al cospetto del sorgere dello stato moderno e con il condizionamento del nuovo diritto civile, appare una proposizione falsa e gravemente unilaterale. Nessuno – né il papa né il Sinodo dei vescovi – ha mai detto o scritto di voler abbandonare una prassi ecclesiale di grande attenzione al rapporto tra la vita dei soggetti, la loro vita eucaristica e il cammino di conversione nel “fare penitenza”. Ma una lettura del rapporto tra “seconde nozze”, vita di grazia e conversione non può essere in alcun modo identificata , proprio per fedeltà alla tradizione, con l’assetto canonico e morale impostato tra metà 800 e codice del 1917. Il XIX secolo ha legittimamente introdotto una lettura più rigida e istituzionale che altrettanto legittimamente, sulla base di una più antica tradizione, può essere corretta, orientata e tradotta agli inizi del XXI secolo. Ma si deve ricordare che già ai primi del XX secolo le parole di Pio X, sulla eucaristia da intendersi non come premio ma come farmaco, entravano in tensione con questa rilettura rigida del rapporto tra peccato, penitenza e comunione.

e) 62 cattolici spaesati e di sfrenata fantasia

Uno dei firmatari del documento, l’economista Gotti Tedeschi, dopo aver firmato un documento così poco onesto, ha fatto una dichiarazione onesta: “Io non do dell’eretico al papa, non lo penso neanche lontanamente. Sarei stupido se lo facessi, non sono un teologo».”. In effetti, tra i firmatari, ci sono alcuni docenti, alcuni avvocati, alcuni religiosi, ma pochi teologi. Forse una migliore competenza teologica avrebbe giovato al documento. Ma forse bisognerebbe dire, in generale, che è sempre rischioso per tutti mettere la firma sotto testi che non si sono compresi. Perché così si rischia di fare ciò che non si vuole e di risultare stupidi anche senza volerlo. Ma lo spaesamento e la fantasia possono tanto. Di fronte a questa toccante attestazione di nostalgia, certo frutto di una grande storia d’amore con la fantasia, ma anche piena di gravi svarioni teorici e teologici, è giusto porre una questione finale: quis corriget correctionem?

Pubblicato il 26 settembre 2017 nel blog: Come se non.

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