Padre Heiner, vescovo

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P. Heiner Wilmer, 57 anni, fino all’aprile scorso superiore generale dei dehoniani, il 1° settembre viene consacrato vescovo della diocesi tedesca di Hildesheim. A pochi giorni dalla consacrazione il giornale diocesano Kirchen Zeitung di Hildesheim lo ha intervistato per chiedergli con quali sentimenti assume questo servizio nella Chiesa e quali sono le sue principali convinzioni riguardo agli attuali problemi della diocesi e della Chiesa. Di seguito l’intervista raccolta da Matthias Bode.

 

Heiner Wilmer

Heiner Wilmer, ordinato vescovo nella cattedrale di Hildesheim il 1° settembre

– Padre Wilmer, da quando lei ha ricevuto la nomina a vescovo di Hildesheim sono trascorsi ormai quattro mesi. Quali sono le sue prime impressioni sulla diocesi?

Sono entusiasta. Tutte le persone che ho incontrato finora mi hanno manifestato una grande cordialità e benevolenza, molti anche hanno una certa ansia di sapere chi è che adesso guiderà la diocesi. Sono molto contento della gente, del mio nuovo compito e della nuova tappa della mia vita.

– Quattro mesi sono lunghi. Ci sono stati in questo tempo dei momenti in cui lei si è domandato se la sua decisione, la scelta di accettare la nomina di vescovo di Hildesheim, era quella giusta?

No, non proprio. Il mio congedo dai dehoniani a Roma è stato certamente un po’ sofferto. Eravamo un’équipe molto affiatata, sono sempre andato d’accordo con tutti. Durante tutto questo tempo, mai una sola volta ho avuto esitazioni o incertezze né mi sono chiesto: “Mio Dio, perché mi hai fatto questo?”. Al contrario, sto già vivendo i miei primi sentimenti natii. Hildesheim è anche un po’ un tornare alla mia storia, ai miei luoghi d’origine.

– Con quali sentimenti si avvia al giorno della sua consacrazione episcopale?

Con gioia. Mi sono ritirato una settimana nel monastero di Marienrode e mi sono preparato interiormente. Naturalmente c’è un po’ di tensione. Ma questo non mi paralizza. Inoltre, so che ci sono molte persone che preparano quel giorno fin nei minimi particolari. Posso perciò stare del tutto tranquillo.

– C’è qualcosa che desidera affrontare per prima cosa come vescovo?

Voglio anzitutto ascoltare e, nel primo anno, incontrare più gente possibile. Non voglio chiudermi in un ufficio, ma uscire fuori, nella diocesi e in mezzo alla gente, per parlare della Chiesa e della fede, ma anche delle questioni che sono importanti per loro.

– Ci sono delle cose in particolare che lei ha già notato?

Mi impressiona la storia della diocesi di Hildesheim. Nella memoria dei cattolici è una storia incredibile di fortezza. La popolazione di Hildesheim è in grado di affrontare enormi sfide e lo ha già fatto. Penso al triplicarsi del numero dei cattolici dal 1945. Questa fatto non ha paralizzato né appiattito la diocesi, anzi essa ha riflettuto, si è rimboccata le maniche con una grande solidarietà. Avverto in diocesi una grande solidarietà con le persone nuove ed estranee. È una storia forte.

– Nel 2017, la diocesi ha perso oltre 9.400 fedeli, di cui oltre 5.500 usciti dalla Chiesa. Dall’anno 2000, il numero dei cattolici è diminuito di 80.000 persone. Si tratta di uno sviluppo ineluttabile davanti al quale possiamo rimanere solo impotenti a guardare?

Per me ogni uscita dalla Chiesa è un fatto doloroso che mi rattrista e mi fa pensare. D’altronde, viviamo in una società libera e in una Chiesa libera e la coscienza è sacra. Penso che sia importante poter prendere delle decisioni in contrasto con la Chiesa senza essere perseguitati. Noi non abbiamo alcuna pretesa totalitaria.

Questa è una cosa; l’altra è: abbiamo già la possibilità di rendere la Chiesa più attraente, per esempio, prendendo sul serio le esperienze e la vita delle gente. La sofferenza, le relazioni infrante, la fragilità della vita, ma anche le speranze e le attese – tutti questi temi importati non ci lasciano freddi, ma ci riguardano. Sono pienamente convinto che più siamo presenti in questi ambiti, tanto più il nostro messaggio sarà incisivo.

Per questo, per me, l’accompagnamento delle persone è una chiave dell’annuncio e una chiave per migliorare l’attrattiva della Chiesa. In questo, però, rimango realista: capiterà sempre che alcuni voltino le spalle alla Chiesa, ma ci saranno anche sempre persone che decidono consapevolmente di abbracciarla.

– Entro il 2050 il numero dei cattolici – prevedono gli esperti di statistiche – calerà di circa 250.000. Manchiamo di fiducia in Dio se non abbiamo in vista un’inversione di tendenza?

Dovremmo prendere sul serio questi calcoli, ma non sono un dogma. La storia dimostra di essere piena di sorprese. Io credo nello Spirito Santo, al Dio delle sorprese. Io non sono un fatalista e affronterò il mio lavoro con ottimismo e non con il pensiero che davanti a noi c’è un destino ineluttabile.

– Cosa possono fare in particolare i preti in futuro?

Per me questo non è il problema principale. Il problema centrale per me è come noi tutti, donne e uomini insieme, possiamo andare avanti nella vita con fede e fedeltà a Dio e in fedeltà alla nostra responsabilità verso la gente. Il numero dei preti dev’essere tenuto presente, ma non è il problema principale. La grande domanda che dobbiamo porci è: chi sono coloro che si assumono la responsabilità, la guida – e chi è preparato a farlo?

– Ma i preti che rimangono non saranno sovraccaricati di lavoro?

È un pericolo che vedo. Io sono contrario a caricare ancor di più di lavoro i pochi preti che rimangono. Non deve avvenire che i preti nel fiore dei loro anni si ammalino sempre più e che procediamo a raccorpamenti sempre più ampi a spese di tutti i collaboratori a tempo pieno. Non possiamo andare avanti in questo modo.

– Quindi toccherà più lavoro ai laici?

Non più lavoro ai laici, ma forse a un numero maggiore di laici.

– Abbiamo bisogno di altre forme di leadership ecclesiale?

La storia ci mostra che avevamo già dei modelli del tutto diversi. Sono sicuro che lo Spirito Santo ci indicherà strade a cui finora non avevamo ancora pensato.

– Negli ultimi 15 anni le finanze diocesane sono state messe in ordine. Sono state create riserve significative e sono stati coperti i rischi – ciò è avvenuto con il ridimensionamento, la fusione di comunità, la chiusura di chiese, scuole e strutture. C’è una presa di distanza dall’austerità, ci sono degli investimenti in vista?

Sono contento che oggi la diocesi sia sana e che le sue sostanze non siano state dilapidate. Rendo omaggio a tutti coloro che nell’ultimo decennio hanno lavorato a mettere in ordine le finanze. Quanto e dove possiamo investire in futuro oggi non lo posso ancora dire. È chiaro: non si tratta di accumulare denaro. La Chiesa cammina in certo senso nella fiducia, il denaro appartiene alla gente e non ad un’amministrazione. Ma è chiaro anche che abbiamo bisogno di risparmi per affrontare responsabilmente il futuro e per adempiere agli obblighi verso coloro che lavorano per la Chiesa o che hanno lavorato per essa.

– Lei è un uomo di scuola, è stato insegnante e preside. Che significato attribuisce alle scuole cattoliche nella diocesi?

Attribuisco grande importanza all’educazione e alla formazione dei giovani. È un compito chiave della Chiesa; il cristianesimo è una religione che educa. Non è pensabile una nostra Chiesa senza la formazione e l’educazione. Perciò tutte le istituzioni che si occupano di educazione e di formazione sono per me estremamente importanti, a cominciare dalla scuola materna fino all’università e alla formazione permanente degli adulti.

– Le scuole cattoliche della diocesi saranno mantenute o ci saranno altre chiusure?

Può darsi che dobbiamo chiudere l’una o l’altra struttura, ma altrove può nascere qualcosa di nuovo. Bisogna verificare dove ciò è necessario. Io lotterò per fare ciò che è possibile.

– Quali contenuti sono particolarmente importanti per lei riguardo alla scuola?

Una chiave per l’educazione è la trasmissione dell’immagine cristiana del mondo e dell’uomo. Per me ciò che conta è che il giovane maturi una personalità tale da poter un giorno assumere in maniera autonoma, libera e consapevole, una responsabilità nella Chiesa e nella società. Un alunno che esce dalla scuola cattolica dovrebbe, da una parte, stare in piedi su due gambe e, dall’altra, nella sua fantasia toccare il cielo con la fronte.

– Lei, in quanto specialista del settore, si impegnerà nella guida?

No, non l’ho in programma. Io ho grande fiducia nelle persone del luogo e sono rispettoso del principio della sussidiarietà. Tutto ciò che può essere regolato e deciso in un’istituzione deve essere mantenuto. Non governerò dall’alto in basso. È qualcosa contro la mia convinzione, contro la mia natura e anche contro la mia esperienza. Oltretutto, per questo ambito abbiamo un’amministrazione episcopale.

– Lei ha definito la comunicazione una caratteristica essenziale del cristianesimo. Perché alla Chiesa riesce spesso così difficile parlare il linguaggio della gente?

Forse dipende dal fatto che insegniamo troppo e annunciamo troppo poco che cosa vuol dire per noi cristianesimo, fede e preghiera, cosa significano per me. Più predico stando lontano dalla mia storia, meno sono capito.

– Nel suo libro “Hunger nach Freiheti” (Fame di libertà) lei descrive Mosè come un cercatore di libertà, uno che ha sete di libertà e perciò ha il coraggio di mettersi in cammino. Cosa significa libertà per lei?

La libertà per me significa percorrere vie che ieri non avrei mai pensato che esistessero.

– Tuttavia molta gente associa la Chiesa più alle regole, alle prescrizioni e, a volte, persino alla paura che non alla libertà.

Per me il cristianesimo non è una religione della morale, ma della salvezza. Il messaggio cristiano non è un messaggio da mostrare agli altri. Cristianesimo significa creare tempo e spazio affinché ogni persona raggiunga la massima maturità possibile e una profonda realizzazione.

– Un capitolo del libro è intitolato “Mach was verrücktes” (Fa’ qualcosa di pazzesco). Pensa anche lei di compiere qualcosa di pazzesco per la diocesi?

Se dovessi progettare qualcosa di pazzesco, non sarebbe tale. Ciò che è pazzesco avviene all’improvviso e meraviglia gli altri in modo che anch’essi possano diventare pazzeschi.

– Nel suo libro “Gott ist nicht nett” (Dio non è accomodante) lei tratta apertamente dei suoi dubbi anche nei riguardi di Dio, della Chiesa e della sua stessa fede. Si nota che quello che scrive è del tutto sincero. Si comporterà anche da vescovo con in questa trasparenza?

Lo spero, e mi auguro che la gente mi richiami se ha l’impressione che io vada fuori strada.

–  Un argomento completamente diverso. Negli ultimi anni c’è un problema che ha angustiato fortemente la Chiesa: l’abuso sessuale. Come pensa di poter gestire questo problema nella diocesi di Hildesheim?

Questo è un argomento molto doloroso per me. Ciò che è successo è amaro e terribile. Per me è scioccante sentire ciò che hanno sofferto le vittime. Per fortuna nella diocesi c’è stato un cambiamento di paradigma e per trattare questo problema è stato costituito un istituto indipendente. L’istituto ha emanato una serie di raccomandazioni riguardanti misure da pendere per ridurre al minimo questi fatti in futuro. L’attuazione è già iniziata. Io farò di tutto affinché queste raccomandazioni siano messe in pratica.

– Da lungo tempo ha fallito anche la leadership della Chiesa?

Credo che la questione degli abusi nella Chiesa sia stata sottovalutata e credo che anche noi nella Chiesa siamo stati colpevoli, anche la leadership.

– Concludendo, alcune domande personali. Dove abita?

Io abito nel palazzo vescovile del duomo di Hildesheim assieme ad alcuni Fratelli di san Pietro Canisio (canisiani). Per me ho a disposizione tre locali di 16-18 metri quadrati, un soggiorno, una camera da letto, una saletta da pranzo e, naturalmente, un bagno. È molto più di quanto ho avuto come religioso.

– Chi cucina e cura le faccende domestiche?

C’è una governante presente 30 ore la settimana. La signora dal lunedì fino al venerdì si occupa della colazione, del pranzo, della biancheria e della pulizia della casa e si prende cura anche dell’accoglienza degli ospiti. Il pomeriggio e la sera provvediamo noi, io e i fratelli.

– Ha un piatto preferito?

Mangio quello che arriva in tavola – e, di questo, la metà.

– Che tipo di macchina usa come vescovo?

Una Passat Variant.

– Ha un autista o guida lei personalmente?

Per la maggior parte del tempo ho un autista. Siccome viaggio molto, posso impiegare meglio il tempo. Mi piace parecchio anche viaggiare in treno e mi riprometto di servirmene molto. Ho già una tessera ferroviaria.

– Come e dove trascorrerà le ferie?

Dipende. Durante le ferie mi piace la natura, amo camminare e racconto volentieri qualcosa.

– Ha in progetto di scrivere un nuovo libro?

 No. Per il momento no.

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