Per conservare, rinnova!

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Su invito costante e amichevole di Francesco Strazzari (SettimanaNews), ho steso alcune convinzioni, quelle di un teologo anziano che attende con fervore «ciò che presto arriverà» nella vita della Chiesa e in quella degli uomini.

Credo che occorra mettere in primo luogo la convinzione di san Paolo (1Tm 2,4) «Dio vuole che tutti gli uomini siano salvati e giungano alla conoscenza della verità». Questa conoscenza non si esprime necessariamente con le convinzioni e le parole cristiane. Può essere la «legge scritta nel cuore » di cui parla ancora san Paolo a proposito dei pagani (Rm 2,14-16). La pazienza di Dio è infinita nei confronti di ogni uomo, e il papa Francesco ci ricorda che la misericordia appartiene alle profondità stesse di Dio. Possiamo dunque «sperare per tutti», come scriveva il teologo Urs von Balthasar in un libro divenuto celebre. Questa semplice convinzione ci consente di gettare uno sguardo positivo e di adottare un atteggiamento benevolo nei confronti di ogni persona che incontriamo e di tutte le altre.

Occorre poi rendere grazie di avere ricevuto da Dio la conoscenza esplicita di Gesù Cristo, della sua morte e risurrezione, dell’invio nel mondo dello Spirito Santo, e di avere ricevuto la rivelazione della legge di vita: «amare Dio, il prossimo, come se stesso» (Mc 12,28-34). Ciò invita ad approfondire continuamente, secondo la propria misura, questo dono che ci è stato fatto, con la lectio divina che ci dà familiarità con la Scrittura santa, con la partecipazione nell’eucaristia alla pienezza del mistero di Gesù, con la pratica della legge d’amore.

Detto questo, la Chiesa ha bisogno, come corpo, di “capire” il suo amore, la sua esperienza e la sua fede. Rendere conto, a essa stessa e agli altri, delle convinzioni che l’animano. Le prime riflessioni al riguardo sono quelle sviluppate negli scritti apostolici che, benché siano rivelati , si inscrivono nel contesto concreto, non necessariamente brillante, delle comunità. Da allora, non hanno perso valore.

Come la Chiesa vive nel mondo e nel tempo, in una maniera molto più essenziale che si pensasse all’origine perché “il tempo dopo Gesù Cristo” dura ancora e ancora, occorre ammettere che questo tempo è rivelatore, cioè svela di continuo il contenuto della Rivelazione, e che è costruttore, cioè, che attraverso questa rivelazione, modifica e la coscienza della Chiesa e la pratica del mondo. La parola-chiave è quella di Newman: «sviluppo». Bisogna capire questa parola in maniera globale, cioè non solamente intellettuale, ma vitale. Si dice talvolta di qualcuno che ha della “visione”, e questa parola ha qualche cosa di profetico. Occorre quindi ammettere che possiamo oggi vedere e vivere cose che non erano apparse con tanta nettezza prima. Si potrebbe dire: dopo 2000 anni, non c’è niente da attendere. Ma sì, giustamente! Cogliere i segni dei tempi è riconoscere ciò che non era ancora apparso e che, una volta accettato, mette in una luce migliore l’insieme già conosciuto. Ma è anche accettare che la sintesi precedente di cui disponiamo non sia più del tutto soddisfacente. Nell’Annuario pontificio degli anni 1960, appariva il motto del card. Ottaviani: «sempre idem» (sempre lo stesso); subito dopo veniva quello del card. Di Jorio: «innova». Questi due motti sono utili l’uno e l’altro: la maniera migliore di continuare la tradizione è rinnovare. Il vero rinnovamento fa risplendere come non mai la tradizione.

La convocazione del Concilio Vaticano II, opera di un papa del resto totalmente a suo agio nella fede e nella pietà provenienti dal Concilio di Trento e interpretate da san Carlo Borromeo, è un atto profetico, un cogliere i segni dei tempi, un invito a ripensare e ad aggiornare la «visione» precedente della Chiesa. Ricorro a due esempi: i papi recenti, ancora vivi tutti e due, venuti dopo il Vaticano II, hanno delimitato di nuovo confini essenziali: Benedetto XVI ha dato valore, dall’inizio del suo pontificato, al Nome di Dio Amore. Non era nuovo (semper idem); lo si sapeva da sempre. Però nessun papa l’aveva valorizzato. Facendo questo, il papa invita a riconsiderare tutto sotto l’angolo dell’amore, ciò che è nuovo (innova). Papa Francesco prosegue in questa direzione mettendo avanti il Nome di Dio Misericordia. La nostra «visione» classica si appoggiava su altri nomi di Dio: Essere, Onnipotente, Eterno… Questi restano del tutto validi, ma non sono più essi che orientano la visione, non sono più essi che permettono di «costruire la Chiesa della carità» (Paolo VI). Un segno di questa «discontinuità continua» è il rovesciamento operato da Benedetto XVI stesso delle virtù teologali: la sua prima enciclica è sull’amore, la seconda sulla speranza, la terza sulla fede. Un tempo, si parlava della fede, della speranza, della carità. Lo spostamento non cambia nulla (semper idem) e cambia tutto (innova).

Il secondo esempio viene dal confronto tra Vaticano II e Vaticano I. Il primo concilio del Vaticano (1870) aveva promulgato una costituzione sulla Chiesa, intitolata Pastor æternus, il cui prologo è significativo (testo nel Denzinger-Hunermann 3050-3052). Il testo in effetti afferma il disegno eterno di Dio che è di riunire tutti gli uomini nell’unica Chiesa di suo Figlio. Perché questo disegno si realizzi, cioè, perché questa unità sia viva e vivente, Dio ha dotato la Chiesa di vescovi caratterizzati dal compito di mantenere questa unità. Finalmente, per assicurare l’unità di questo episcopato, Dio ha eletto il successore dell’apostolo Pietro alla cattedra di Roma. La parola-madre di questo prologo è dunque l’unità, attributo proprio della Chiesa di Cristo, essendo il servizio dei vescovi finalizzato all’unità della Chiesa, quello del successore di Pietro all’unità del corpo episcopale. Stando così le cose, si sarebbe potuto attendere che la costituzione annunciata da questo prologo contenesse tre parti: in primo luogo, la Chiesa, poi il corpo episcopale, infine il successore di Pietro abitualmente designato come il «papa». In realtà, come si sa, l’assemblea conciliare ha all’inizio trattato del papa, e l’interruzione del concilio ha fatto si che ci si fermasse là. Ora, la vita della Chiesa ha continuato e allora, così bene per la teoria che per la pratica, si è costruito tutto sul primato effettivo e quasi esclusivo di Pietro su tutti i piani: dottrinale, canonico, giurisdizionale. Si sono anche messi in risalto come non mai non i vescovi, ma i preti perché sono loro che , concretamente, nelle parrocchie, danno i sacramenti della salvezza e rendono presente l’autorità del papa. Tutto questo ha portato il suo frutto: si può fare un bilancio molto positivo della vita della Chiesa dal 1870 al 1962, anno di inizio del Concilio Vaticano II. Ma il Vaticano II ha ripreso le cose alla base, ristabilendo l’ordine annunciato nel prologo della costituzione del 1870, cosa che ha condotto, a partire dal Concilio, a inflessioni importanti nella vita della Chiesa e nella dottrina della Chiesa: il semper idem (è il testo del 1870, eco di una tradizione molto antica) esige, per restare vero, innova. (Dalla Lumen gentium alla Gaudium et spes).

Alla fine di che si tratta? Di costruire la Chiesa della carità, nel mondo degli uomini, oggetti della misericordia di Dio, grazie (nell’ordine) all’amore, la speranza e la fede. Per questo, meditare la Parola, celebrare la cena del Signore, costruire l’ordine di un popolo animato dai carismi dello Spirito, conservato nell’unità tramite il ministero dei vescovi in generale e quello di Roma in particolare, guarito nelle sue ferite e aperto nelle sue potenzialità attraverso il dialogo: questo è il nostro compito.

È mia convinzione che, per fare bene questo, occorra ascoltare i profeti. Gli italiani che Dio ha dato alla sua Chiesa: un bergamasco, Angelo Roncalli; due piemontesi: un “puro”, Carlo Maria Martini e l’altro “emigrato” Jorge Bergoglio. Ma occorre ascoltare anche quelli di fuori, in tutto il mondo: ve ne sono talmente tanti che non posso nominarli tutti. A ognuno mettersi alla scuola di coloro che “parlano al cuore”.

Ghislain Lafont, teologo benedettino

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Un commento

  1. P. Bernard Sesboué 9 aprile 2016

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