Quando la Chiesa è un’impresa

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Con una sentenza dell’11 settembre 2018 la Corte di giustizia europea ha delineato i criteri del diritto comunitario che la Corte federale del lavoro tedesca deve applicare nel caso di un medico cattolico, primario di medicina interna di un ospedale di proprietà della Caritas tedesca, licenziato per aver contratto matrimonio civile dopo il divorzio senza che il primo legame matrimoniale fosse stato annullato dal preposto tribunale ecclesiastico.

La vicenda è complessa, perché in Germania il diritto all’autodeterminazione delle comunità religiose, e degli enti – anche privati – associati a esse, è ancorato nella Costituzione federale. Questo particolare posizionamento costituzionale è stato recepito anche nella Legge generale sulla parità di trattamento (2006), volta ad applicare per la Germania la direttiva 2000/78/CE «che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e condizioni di lavoro» (Sentenza § 1) nei paesi membri dell’Unione Europea.

Il quadro giuridico tedesco

Nel quadro della legge tedesca è contemplata la possibilità che «una differenza di trattamento basata sulla religione o sulle convinzioni personali nel rapporto d’impiego con comunità religiose, istituzioni a esse correlate, a prescindere dalla forma giuridica, o associazioni che coltivano in comune una religione o convinzioni personali, sia altresì lecita quando una determinata religione o convinzione personale costituisce, tenuto conto delle regole di coscienza della rispettiva comunità religiosa o associazione sotto il profilo del suo diritto all’autodeterminazione o a seconda della natura della sua attività, un requisito professionale giustificato». In base a questo è lecito chiedere «ai loro dipendenti un atteggiamento di buona fede e di lealtà ai sensi delle regole della propria coscienza» in quanto comunità religiosa o associazione basata su convinzioni personali (Sentenza § 17).

Il Regolamento base del servizio ecclesiastico nell’ambito dei rapporti di lavoro nella Chiesa cattolica afferma che «tutti coloro che operano all’interno di un’istituzione della Chiesa cattolica contribuiscono congiuntamente attraverso il loro lavoro (…) a consentire che l’istituzione realizzi il proprio contributo alla missione della Chiesa». Il medesimo Regolamento prevede una diversità di trattamento tra dipendenti cattolici e non. Dai primi «si attende il riconoscimento e il rispetto dei principi del credo e dell’etica cattolica». Ai secondi si richiede un più generico «rispetto delle verità e dei valori del Vangelo». Queste disposizioni si «estendono anche ai dirigenti», categoria all’interno della quale ricade il medico licenziato dall’ospedale cattolico (Sentenza § 19-20).

Il ricorso del medico contro il licenziamento era stato accolto a tutti e tre i livelli del tribunale del lavoro tedesco (locale, del Land e confederale). Dato questo esito l’impresa ospedaliera cattolica è ricorsa alla Corte costituzionale federale, che ha invalidato l’ultima sentenza del Tribunale federale del lavoro, rimandando a quest’ultimo la causa. A questo punto il Tribunale si è rivolto alla Corte di giustizia europea per ottenere lumi sui criteri da seguire nel giudizio della causa, chiedendo in particolare se fosse possibile non applicare una prassi giuridica nazionale assodata nel caso questa non sia compatibile con il diritto comunitario.

Criteri comuni europei

La sentenza della Corte di giustizia si muove dunque su un doppio livello: indicare una criteriologia per la decisione della causa sulla base della direttiva 2000/78/CE, da un lato, e determinare il ruolo del diritto comunitario rispetto a quello nazionale, dall’altro. Il testo è pacato, analitico, e tiene in considerazione tutti gli aspetti. Sottolineando come la normativa europea lascia ai singoli stati membri dell’Unione di determinare la forma giuridica di regolazione dei rapporti con le Chiese e le comunità religiose.

parlamento europeo

La possibilità di una disparità di trattamento fra dipendenti della medesima impresa, sulla base dell’etica di una particolare comunità religiosa, è in accordo con il diritto comunitario quando essa è: essenziale, ossia nel caso in cui «l’appartenenza alla religione o l’adesione alle convinzioni personali su cui si fonda l’etica della Chiesa o dell’organizzazione interessata appare necessaria, a causa dell’importanza dell’attività professionale di cui trattasi, per l’affermazione di tale etica o l’esercizio da parte di tale Chiesa o tale organizzazione del proprio diritto all’autonomia (…)» (Sentenza § 51); legittima, il che comporta di dimostrare che «il requisito relativo all’appartenenza alla religione o all’adesione alle convinzioni personali su cui si fonda l’etica della Chiesa o dell’organizzazione in questione non venga utilizzato per un fine estraneo a tale etica o all’esercizio da parte di tale Chiesa o di tale organizzazione del proprio diritto all’autonomia» (Sentenza § 52); giustificata, e con questo si implica «non solo che il controllo del rispetto dei criteri di cui all’articolo 4, paragrafo 2, della direttiva 2000/78 possa essere effettuato da un giudice nazionale, ma anche che la Chiesa o l’organizzazione che ha stabilito tale requisito professionale ha l’obbligo di dimostrare, alla luce delle circostanze del fatto caso di specie, che il presunto rischio di lesione per la sua etica o il suo diritto all’autonomia è probabile e serio (…)» (Sentenza § 52).

Il doveroso controllo giurisdizionale dello stato

In ambito lavorativo, dunque, la verifica della liceità di disposizioni particolari richieste ai propri dipendenti da parte delle Chiese, comunità religiose o associazioni fondate su persuasioni personali, legate al loro diritto di autodeterminazione (Germania) o a quello di autonomia (Unione Europea), è di pertinenza della giustizia statale e non di quella interna «ecclesiale». Quel diritto particolare riconosciuto alle Chiese e alle comunità religiose, come le disposizioni che ne conseguono nell’ambito dei rapporti di lavoro che esse istituiscono, non può essere interpretato «nel senso che esso autorizzi gli Stati membri a sottrarre a un controllo giurisdizionale effettivo il rispetto dei criteri sanciti da tale disposizione» (Sentenza § 44).

Nel caso in questione, la Corte di giustizia ha affermato che viene meno il criterio dell’essenzialità, quale base che rende lecito il licenziamento del medico cattolico che ha contratto seconde nozze civili dopo il divorzio, perché nel medesimo ospedale vi sono primari non cattolici (e che, quindi, non sono tenuti alla stessa lealtà etica prevista per i colleghi cattolici che occupano il medesimo ruolo). Se l’assegnazione del ruolo di primario non dipende dalla confessione religiosa del lavoratore, allora non è possibile affermare che questo ruolo sia essenziale per l’affermazione dell’etica su cui si fonda la Chiesa in quanto impresa e datore di lavoro. Far dipendere il grado di fedeltà etica richiesta non dal ruolo professionale svolto all’interno delle attività imprenditoriali della Chiesa, ma unicamente dalla confessione religiosa di chi ricopre questo ruolo (aperto a tutti) è dunque atto discriminatorio.

In forza del diritto comunitario

Per quanto riguarda il rapporto fra diritto comunitario e diritto nazionale, la Corte di giustizia procede con cautela, affermando che la normativa sulla non discriminazione «trova la sua fonte in diversi atti internazionali e nelle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri» e che «essa ha il solo obiettivo di stabilire, in queste stesse materie, un quadro generale per la lotta alle discriminazioni fondate su diversi motivi, tra i quali la religione o le convinzioni personali (…)» (Sentenza § 67).

diritto comunitario

Questo dovrebbe risultare nella possibilità di un’interpretazione del diritto nazionale in accordo con quello comunitario. Nel caso in cui il giudice del rinvio (tedesco) «ritenesse di trovarsi nell’impossibilità di assicurare un’interpretazione conforme al diritto dell’Unione della disposizione nazionale di cui trattasi, egli dovrà allora disapplicare tale disposizione» (Sentenza § 69). In tal modo si afferma un primato del diritto comunitario su quello particolare degli Stati membri dell’Unione Europea.

La decisione finale passa ora nuovamente al Tribunale federale del lavoro tedesco, che si trova tra l’incudine e il martello della Corte costituzionale federale e della sentenza della Corte di giustizia europea – a cui è probabilmente ricorso per ottenere una legittimità comunitaria davanti al rinvio della causa decisa dalla Corte costituzionale; e, in forza di essa, poter riaffermare la sua prima deliberazione di illiceità del licenziamento del medico cattolico da parte dell’ospedale cattolico.

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