Sinodalità e luoghi teologici

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sinodalità

L’infelice paragone del card. Koch tra gli esiti del Cammino sinodale tedesco e la devozione religiosa di alcuni cristiani al tempo del nazismo per Hitler, nasce dalla sua preoccupazione di una svendita allo spirito dei tempi da parte della Chiesa tedesca come rappresentata nei testi a lungo elaborati dai sinodali.

Insomma, la centralità del tema conciliare dei “segni dei tempi” come vero e proprio luogo teologico della fede, a cui anche la Chiesa istituzionale deve la sua obbedienza, rasenterebbe non solo l’eresia ma anche l’appoggio incondizionato al totalitarismo più bieco.

In questo spirito, ai “cattivi” cattolici di oggi Koch contrappone i “bravi” evangelici di ieri – quelli della Dichiarazione di Barmen e della Chiesa confessante, che afferma in essa la sua identità evangelica e dichiara coloro che non vi si ritrovano come fuori dalla comunione ecclesiale della Chiesa evangelica in Germania.

“Gesù Cristo, come è testimoniato nelle Sacre Scritture, è la parola di Dio che dobbiamo ascoltare in cui dobbiamo avere fiducia e a cui dobbiamo obbedire nel vivere e morire. Respingiamo, dunque, la falsa dottrina secondo la quale la Chiesa nel suo annuncio dovrebbe e potrebbe riconoscere, accanto a questa parola di Dio, anche altri eventi e potenze, forme e verità quali rivelazione di Dio” (Barmer Theologische Erklärung, These 1).

Il potere e la potenza del magistero cattolico

Il doppio paragone istruito dal card. Koch (falsi-veri cristiani: cattolici oggi ed evangelici ieri; falsa-vera dottrina: Cammino sinodale cattolico e Dichiarazione di Barmen evangelica), intesa a suo dire in spirito ecumenico, è invece problematica proprio per rapporto alla relazione ecumenica della Chiesa cattolica con quella evangelica.

Lo è perché rappresenta un gesto di potere del magistero cattolico che si appropria unilateralmente (e selettivamente) di un articolo confessante di un’altra Chiesa. Ossia, in un qualche modo, converte l’insegnamento della Chiesa evangelica a magistero di quella cattolica – senza rispettare l’ecclesiologia della prima, che esattamente non intende essere la seconda.

E lo fa senza trarre alcuna conseguenza ecclesiale per la Chiesa cattolica rispetto a quel luogo teologico, perché è a ciò che Koch eleva la Dichiarazione di Barmen quando viene contrapposta alla teologia del discernimento dei “segni dei tempi” tentata dal Cammino sinodale tedesco – dichiarata, da ultimo, un non luogo.

Il potere magisteriale e dottrinale cattolico è talmente pervasivo e inconscio, che non ci si accorge neanche di esercitarlo in maniera ecumenicamente indebita: prendo del tuo, senza chiedertelo, per dire ai miei che stanno sbagliando – esattamente perché io posso fare questo senza doverti rendere ragione alcuna di questo saccheggiamento della tua confessione.

Non solo: io ti dichiaro luogo teologico nella misura in cui questo serve a me per risolvere un problema di casa mia. Una volta eseguita questa funzione, puoi tranquillamente tornare alla tua realtà ecclesiale insufficiente, che ti fa essere sempre in difetto rispetto alla mia Chiesa – quella vera e unica, che Gesù ha voluto.

Al card. Koch si dovrebbe chiedere se la Dichiarazione di Barmen è in se stessa un luogo teologico (anche) per la fede cattolica, proprio nel suo essere e rimanere confessione evangelica della fede (ossia non cattolica)? Oppure, se ne è fatto unicamente un uso funzionale per risolvere le diatribe interne alla Chiesa cattolica – ossia, dichiarandone l’irrilevanza per la giusta fede cattolica al di fuori della sua momentanea appropriazione da parte del magistero cattolico?

Se così fosse, la Dichiarazione di Barmen sarebbe esattamente un non luogo teologico, proprio come il Cammino sinodale della Chiesa cattolica tedesca a cui viene (strumentalmente) contrapposta.

Nel voler indicare un giusto luogo teologico, il card. Koch ne svuota al tempo stesso ogni contenuto normativo che risiederebbe unicamente nella sua assunzione da parte di uno fra i molti luoghi teologici che la fede cattolica conosce e pratica – il magistero, appunto. E lo fa perché il magistero cattolico può, e non deve rendere ragione ad altri di questo suo potere.

I luoghi teologici e il magistero solitario

Allo spirito del tempo si può, dunque, rispondere solo con l’esercizio totalitario del potere del magistero cattolico – che fa e disfa luoghi teologici a proprio gradimento. Dando l’impressione che gli altri luoghi teologici, che pur compongono il corpo istituzionale della Chiesa cattolica e orientano la sua fedeltà al vissuto di Gesù, norma che sfugge a ogni principio di regolazione ecclesiale, siano inadatti ad attestare oggi la verità del Dio cristiano. Anzi, sono addirittura pericolosi e, quindi, devono essere magisterialmente disattivati.

Sotto una patina viscida di amore per la verità della fede, a cui oramai credono in pochi, l’operazione messa in campo dal card. Koch, e da altri epigoni della vera ecclesialità, mira esattamente a disattivare, insieme ai luoghi teologici, la sinodalità della Chiesa cattolica che papa Francesco sta cercando di edificare a favore del cattolicesimo a venire. Il senso della fede del popolo di Dio, che discerne i “segni dei tempi”, non sarebbe altro che la forma camuffata di una svendita della verità cristiana allo spirito dei tempi – davanti al quale solo il magistero solitario può.

Ma tutta l’architettura dei luoghi teologici disegnata da Cano mira proprio a impedire questa solitudine del magistero (o di qualsiasi altro luogo, fosse anche il “sola Scrittura” – la cui normatività indisponibile, della Scrittura appunto, non è mai stata messa formalmente in discussione dalla Chiesa cattolica, anche se è stata relegata al ruolo di mero proforma dal Tridentino al Vaticano II).

Quando il magistero si esercita e pensa come tutore esclusivo, senza lasciarsi istruire dagli altri luoghi teologici, cessa di essere uno di questi – ossia, cessa di avere qualsivoglia valore normativo per la fede e si riduce a essere semplice applicazione di un potere non teologico, ossia meramente mondano.

Anni addietro, Max Seckler ha reso ragione di questa architettura complessiva del sistema di Cano: i luoghi  teologici sono validi in quanto tali solo nel loro formare un tessuto testimoniale che non può essere scomposto nei suoi singoli elementi – assurgendone uno, o alcuni, a norma indefettibile degli altri. Quando questo avviene, il tessuto dei luoghi teologici si lacera e la fede cattolica non dispone più di appoggi reali affinché il suo credere possa essere concretamente una fede in Gesù – l’unigenito fra molti fratelli e sorelle, ultima parola di Dio. Quando questo accade, quella parola non è più ultima solo rispetto al suo contenuto, ma anche non può nemmeno essere più sentita: è come se non fosse.

Segni dei tempi e sinodalità

Non c’è cristianesimo senza discernimento, esattamente perché quella Parola continua a parlare e desidera essere sentita – da tutti, oggi, ovunque. Il tempo e il luogo (quello che comunemente chiamiamo storia) non sono quindi irrilevanti affinché la Parola possa risuonare ed essere percepita dagli uomini e dalle donne. Ed è così fin da principio, fin nel nucleo incandescente di quelle Scritture che veneriamo come sacre – sottratte alla nostra manipolazione.

E l’intreccio originario fra Parola (di Dio) e storia (umana) si è fatto carne: ossia, non è rimasto esterno a questo meticciamento costitutivo: anzi, vi si è identificato come modo della sua stessa verità; così che l’apparizione della verità è condizione della sua affidabilità e giustizia per ogni donna e ogni uomo che sono al mondo. Anzi, è la qualità che decide della dignità di quella stessa verità. È in origine che la “regola dell’incarnazione” (Stella Morra) è complessa, così che solo una pluralità congiunta di luoghi ne può attestare il suo essere tra noi dopo il suo non essere più qui con noi.

Ma non è solo complessa, è anche dinamica – come ci ricorda Giovanni: “Quando verrà lui, lo Spirito della verità, vi guiderà a tutta la verità, perché non parlerà da sé stesso, ma dirà tutto ciò che avrà udito e vi annuncerà le cose future. Egli mi glorificherà, perché prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà. Tutto quello che il Padre possiede è mio; per questo ho detto che prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà” (Gv 16,13-15).

Tutta la verità è qualcosa di aperto e sempre mancante; qualcosa a cui si è introdotti dalla voce dello Spirito, ogni volta di nuovo ogni volta in maniera diversa – da una parola senza contenuto, un suono, un soffio su cui non abbiamo nessuna padronanza, che sfugge alla presa del sapere e dell’anticipazione.

Tra la verità che è stata e tutta la verità c’è uno scarto sui cui nessun potere può (neanche quello del magistero). “Segni dei tempi” è il nome che il Vaticano II ha dato a questo scarto, a questo non potere della Chiesa. Se a essi ci si riferisce in nome del potere, clericale o laicale che sia, se ne distrugge il contorno che li rende apprezzabili come tali: si fa come se non ci fosse più quello scarto che contraddistingue il tempo dopo Gesù – mancanza di lui che accende la possibilità di tutta la verità.

Per questo i “segni dei tempi” vanno maneggiati con cura e senza arroganza, da tutti – vescovi e magistero compresi. Perché nessuno può su di essi. Ma proprio per questo i “segni dei tempi” sono ciò senza i quali la Chiesa non può essere, se anche lei come istituzione vuole essere introdotta a tutta la verità che ancora manca e sempre mancherà. Ed è forse proprio questo che il potere della e nella Chiesa teme: di scoprirsi mancante di ciò che la fa essere.

Di qui il bisogno del potere di screditare immediatamente i “segni dei tempi” vedendo in essi null’altro che il diabolico mascheramento dello spirito del tempo (giudicato a priori contrario a ogni verità, senza previo discernimento): preferendo la signoria sulla verità che è stata all’introduzione a tutta la verità (ancora mancante, veniente dal futuro anteriore che è il tempo di Dio).

Disattivando il potere costituito, i “segni dei tempi” aprono alla possibilità di sentire tutta la verità, atto inesauribile e mai portato a termine dell’afflato dello Spirito. Perché lo Spirito è l’appoggio della mancanza su cui nessun potere può dominare. E la sinodalità è il primo passo di una Chiesa che si apre a questa disattivazione del potere e del dominio, che vuole decisamente abitare la mancanza in attesa che risuoni anche per lei il veniente di una verità tutta intera cui si può solo aspirare.

Si tratta non solo di un enorme processo di conversione personale e comunitaria, ma anche di una riedificazione radicale della Chiesa e delle sue strutture istituzionali – nella forma di una doppia approssimazione: all’evento messianico di Dio attestato dalle Scritture, da un lato; e a tutta la verità veniente, e quindi ancora mancante, che si muove sulle armoniche degli afflati dello Spirito, dall’altro. Ma, appunto, solo di approssimazione si tratta – così che la mancanza non cessi mai di generare la Chiesa che deve ancora venire.

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5 Commenti

  1. Livio Debbia 16 ottobre 2022
  2. Giorgia Gariboldi 7 ottobre 2022
  3. Adriano Bregolin 6 ottobre 2022
  4. Tobia 6 ottobre 2022
  5. Gian Piero 6 ottobre 2022

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