Turchia: “Cristiani, che ci fate qui?”

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Dopo la vittoria di Erdoğan

Il 18 aprile si è riunita la Conferenza episcopale turca. I vescovi si sono detti di non intervenire sulla situazione attuale e di non rilasciare dichiarazioni. Non v’è dubbio che le cose non siano chiare, né per quanto è successo – la vittoria di Erdoğan – né per quello che succederà. Per ora, dicono di non avere particolari problemi. Le chiese continuano ad essere ben protette. A Pasqua sia il presidente sia il primo ministro hanno inviato gli auguri a tutti i cristiani, ribadendo che la Turchia è un paese di convivenza pacifica di ogni razza, lingua, popolo e religione. I vescovi si augurano che sia di fatto così.

Sono molto preoccupati dei rifugiati, che costituiscono un grosso problema sia all’interno del paese sia per le ripercussioni internazionali. Sta loro a cuore la quasi totale assenza del turismo religioso, venuto a mancare per paura di atti terroristici. Tutti d’accordo che il momento non è certamente facile anche se, a prima vista, pare che la vita dei cristiani continui come prima nella normalità.

Ataturk e il vescovo

Sul finire degli anni Ottanta incontrai a Istanbul mons. Pierre Dubois, allora vicario apostolico, un cappuccino di origine francese, in Turchia da quasi cinquant’anni. Dicevano di lui un gran bene sia i cristiani che i musulmani. E anche le autorità statali. Portava i suoi ottant’anni e oltre con signorilità. Aspetto elegante, parola schietta.

Aveva conosciuto Ataturk, il fondatore dello stato laico, per il quale aveva una grande considerazione: «Lo vedevo al mare quando faceva il bagno. Era un uomo molto alla buona, parlava con tutti. Era laico, voleva uno stato laico, inserito nel contesto europeo». Dubois riteneva – e di questo era profondamente convinto – che la “svolta” di Ataturk sarebbe stata irreversibile, anche se in quel tempo vi erano movimenti contro la legislazione laica da lui data alla Turchia: «Non mi paiono in grado di cambiarla», sosteneva il cappuccino. Ataturk aveva proibito la poligamia, attirandosi ire a non finire. Affermava mons. Dubois: «Si verifica, infatti, che un diritto concesso dal Corano sia negato dalla legislazione civile. E questo per un musulmano osservante è un problema. La legge civile non ha diritto di reprimere – dicevano gli avversari di Ataturk – quello che concede la legge religiosa».

La conversazione con mons. Dubois si incentrò poi sull’islam turco: «La Turchia senza l’islam è impensabile. Che un turco sia cristiano e cattolico, suddito del papa, è impensabile per la stragrande maggioranza della popolazione. I musulmani turchi sono delusi di noi cristiani. Mi domando che cosa si aspettano da noi. Non abbiamo sempre dato quello che dovevamo dare. Il dialogo – le sembrerà ridicolo quello che sto per dire – dev’essere la risposta ad una domanda. Un musulmano mi chiede: perché lei non è sposato? Quanto guadagna? Perché è venuto in Turchia? Perché è soggetto al papa? Sono domande che esigono una risposta seria. Molte volte – oserei dire sempre – abbiamo eluso le domande reali. Il dialogo va fatto sulla vita. All’interlocutore si deve dare una risposta concreta. Ai musulmani le discussioni accademiche non interessano. Noi cattolici siamo per i musulmani “misteriosi”. Hanno l’impressione che abbiamo un mistero che non vogliamo svelare. Abbiamo ancora molte risposte da dare. Ad esempio, ci chiedono: “Perché avete le scuole? Chi le mantiene? È per guadagnare? Se non è per guadagnare, è per fare propaganda religiosa. Allora siete pagati dal Vaticano”. Dobbiamo essere sinceri, dire la verità e tutta la verità. Se non diciamo il perché della nostra presenza in Turchia, siamo ritenuti spie del Vaticano, propagandisti».

E con maggiore schiettezza mons. Dubois diceva che la presenza cristiana andava ripensata: «Deve essere una presenza più chiara, senza pregiudizi, senza paura, senza misteri. Essere sinceri. Se voglio convertire, devo dirlo. Se non voglio convertire, devo non volerlo veramente, e dimostrarlo, pensando che il mistero della salvezza dell’uomo è più misterioso di come lo avevo in testa cinquant’anni fa».

Comprensibile che serpeggi tra i cristiani la paura. Il nuovo corso incute timore. Ma, ad esserne preoccupati non sono solo i cristiani. Lo sperimentano magistrati, giornalisti, rettori di università.

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