22 agosto 1978 moriva Ignazio Silone

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Ricordo personale di un Maestro

Non dimenticherò mai i due preziosi colloqui avuti con Silone: uno a Pescara in occasione della prima nazionale de L’avventura d’un povero cristiano da parte della compagnia teatrale La Giostra, quando gli confidai l’idea di scrivere una tesi dal titolo L’esperienza religiosa e il problema morale di Ignazio Silone.[1] Egli si mostrò molto interessato alla cosa e mi fece il gradito dono (fatto a pochi, precisò) del suo numero telefonico. Così ebbi modo di telefonargli più volte e di fargli visita nella sua abitazione a Roma, in via Ricotti, vicino al Verano: trentacinque minuti di piacevolissima conversazione che gustai moltissimo e di cui presi puntuale nota, uscendo dalla sua casa.

Mi ricordo il mio buffo barcollare linguistico nel rivolgermi a lui: all’inizio lo chiamai Dottore, qualche volta Professore; poi, pensando di usare termini impropri, mi avventurai nel chiamarlo, per il resto della conversazione: don Ignazio. Non mi venne affatto in mente, durante quell’indimenticabile conversazione, che il modo più acconcio fosse quello di chiamarlo Maestro.

Ricordo, fra l’altro, l’ammirazione con cui egli parlava di Giovanni XXIII, e l’insistenza che metteva nel discorso per dire che il pontificato aveva provocato un grande salto di qualità nell’esistenza umana e cristiana di Angelo Giuseppe Roncalli. Ricordo anche il suo riferirsi volentieri a Martin Buber, che quella volta non conoscevo affatto. Oggi ne capisco bene la ragione. E ricordo piacevolmente i molti con cui incoraggiava l’esposizione del mio progetto di tesi che era scaturito dalla lettura completa delle opere. Un piccolo prezioso ricordo per ultimo. Mi diede una copia del dramma Egli si nascose, ormai fuori commercio, accompagnando il gesto con un’espressione sorridente: «Voglio vedere se un prete riconsegna i libri avuti in prestito!».

Ricordo anche il bicchiere di buon Madera che mi offrì, ma soprattutto la gentilezza, tutta abruzzese, con cui mi ascoltò e consigliò. E, se mi aiutate ad avere sincero pudore, confido la gioia immensa che mi procurò salutandomi: «Reverendo, lei ha capito bene il mio pensiero». Fu una simbolica “iniezione di canfora” per me che ero un prete nel suo primo “anno di Messa” e impaurito a sostenere l’avventura di impostare bene la mia tesi da redigere e discutere in una università prestigiosissima, in quegli anni, ma anche tanto severa, che mi ricordo avesse già arricciato il naso alla proposta di un lavoro di dottorato di teologia su uno scrittore…

In quella casa tornai a incontrare la signora Silone, Darina Laracy, soprattutto perché lei aveva redatto Suor Severina, il romanzo postumo di Silone, lasciato incompiuto. La visita fu per saperne di più (Severina, tuttavia, non entrò nella mia tesi), ma soprattutto per conoscere meglio Silone da chi gli era vissuto accanto per tanti anni.

Ricordo, in modo particolare, gli anni di scrittura della tesi (alla Gregoriana non erano possibili pastoni rabberciati…). Ricordo le difficoltà a fare accettare una tesi di teologia su uno scrittore (era cosa non praticata). Dietro ad uno studio sul pensiero di un autore c’è sempre una storia di sofferenza fatta di tante croci piccole o grandi: bivî che inchiodano a indecisioni spesso lunghe, difficoltà nel decifrare i problemi che questi pone, paure di poter tradirne la verità, immancabilmente connotata da aspetti autobiografici e, pertanto, difficile da indagare con le sonde di una procedura conoscitiva che vuole obbedire ai canoni dell’obiettività.

Ma dietro ad uno studio non manca mai un’esperienza di consolazioni che quella storia dolorosa mitiga e attenua: trovi sempre chi ti aiuta, chi ti consiglia, chi ti suggerisce come uscire da imbarazzanti culs de sac, chi t’invita alla moderazione del giudizio e chi ti slancia al rischio di un’ermeneutica inedita e tutta personale, chi ti riporta, con osservazioni pertinenti, nei limiti di un linguaggio più ironico o t’incoraggia a dar più colore a verbi e aggettivi. Io ne ho avuto tanti di questi momenti belli, fra i quali eccellono i due incontri con Silone. Debbo dire che con Silone è nata una vera parentela spirituale (che non significa condividere tutto del suo pensiero), che mi fa compagnia da allora.

La tesi alla Gregoriana
su “Il cristianesimo di Ignazio Silone”

Un altro incontro sta dietro al mio studio su Silone, alla progettazione e alla stesura della tesi in sacra teologia: quello con il gesuita p. Domenico Grasso. Era un grande teologo, un vero maestro che sapeva guidare i giovani negli approcci e nella critica di autori non facili, con perizia consumata; il suo aiuto, inoltre, era assiduo e cordiale. La frequentazione della sua camera per motivi di studio finiva per far nascere e maturare preziose amicizie. P. Domenico Grasso (1917-1988), infatti, non dimenticava mai i suoi allievi, ma li seguiva e aiutava con costanza tutta gesuitica. Per anni egli fu per me preziosa fonte di consigli puntuali anche per l’insegnamento.

Non dimenticherò mai neppure il controrelatore, che era più d’accordo del relatore sul mio lavoro di tesi, il p. spagnolo José Maria DiezAlegría (1911-2010), uomo di un’apertura mentale impressionante: lasciava la Gregoriana in quei giorni (la controrelazione alla mia tesi fu il suo ultimo impegno) per le difficoltà avute con la pubblicazione del suo volume Io credo nella speranza (1972). Lasciò l’insegnamento universitario per andare a fare pastorale tra i poveri, al Pozo del Tío Raimundo, un quartiere del distretto di Ponte di Vallecas (un borgo di Madrid), insieme con padre Llanos… Egli lo sentivo siloniano nel cuore, soprattutto nel suo amore per un cristianesimo puro, paleocristiano…

Il testamento spirituale di Silone

Silone è morto il 22 agosto 1978, a Ginevra, dopo lunga malattia, ma ha voluto essere sepolto ai piedi del rudere del vecchio campanile di S. Berardo, a Pescina, dov’era nato nel 1900, con una croce di ferro appoggiata al muro e in vista del Fucino, da lui disegnata.

Secondo il desiderio formulato nel testamento, non ha voluto alcuna cerimonia religiosa. Ricordo con commozione quella mattina, quando tumularono la piccola teca delle sue ceneri. Silone dispose d’essere cremato, ma ci tenne a precisare che quella decisione non implicava nessun rifiuto:

«(Credo) Spero di essere spoglio d’ogni rispetto umano e d’ogni altro riguardo d’opportunità, mentre dichiaro che non desidero alcuna cerimonia religiosa, né al momento della mia morte, né dopo. È una decisione triste e serena, seriamente meditata. Spero di non ferire e di non deludere alcuna persona che mi ami. Mi pare di aver espresso a varie riprese, con sincerità, tutto quello che sento di dovere a Cristo e al suo insegnamento. Riconosco che, inizialmente, m’allontanò da lui l’egoismo in tutte le sue forme, dalla vanità alla sensualità. Forse la privazione precoce della famiglia, le infermità fisiche, la fame, alcune predisposizioni naturali all’angoscia e alla disperazione, facilitarono i miei errori. Devo però a Cristo, e al suo insegnamento, di essermi ripreso, anche standone esteriormente lontano. Mi è capitato alcune volte, in circostanze penose, di mettermi in ginocchio, nella mia stanza, semplicemente, senza dire nulla, solo con (forte) sentimento d’abbandono; un paio di volte ho recitato il Pater noster; un paio di volte ricordo di essermi fatto il segno della Croce. Ma il “ritorno” non è stato possibile, neanche dopo gli “aggiornamenti” del recente Concilio. La spiegazione del mancato ritorno che ne ho dato è sincera. Mi sembra che sulle verità cristiane essenziali si è sovrapposto [sic] nel corso dei secoli un’elaborazione teologica e liturgica d’origine storica che le ha rese irriconoscibili. Il cristianesimo ufficiale è diventato un’ideologia. Solo rifacendo violenza su me stesso, potrei dichiarare di accettarlo, ma sarei in mala fede».[2]

Come si vede, anche nel testamento – redatto circa quindici anni prima della morte – i sentimenti di gratitudine e di devozione per Cristo restano un leitmotiv siloniano. Ma, chi era per lui Gesù Cristo? Un uomo, sia pure sublime e ideale, oppure il Verbo di Dio incarnato? Un personaggio straordinario nel quale la bontà, la santità e la novità di Dio si sono rivelate in pienezza, oppure lo stesso Dio fattosi uomo per salvarci? Il Dio-Uomo che assume su di sé il dolore umano, oppure un filantropo d’eccezione e un maestro di vita che ci ha insegnato, appunto, come vivere?

Impossibile attendersi da Silone una risposta chiara e definitiva: era molto schivo nel rivelare i suoi sentimenti profondi; temeva anche di venire strumentalizzato; è vissuto sempre all’ombra dell’inquietudine, metafisica e religiosa, e della ricerca. Per una risposta obiettiva bisogna ricercare anche tra le sue righe e in taluni atteggiamenti della sua vita. Indubbiamente, ci sono, nella sua opera, elementi che inducono a credere che egli abbia optato per un «cristianesimo demitizzato»,[3] ridotto cioè a pura sostanza morale, senza dogmi e senza liturgia, espressione di fraternità, di solidarietà, di rispetto della persona umana, di tensione verso un mondo migliore. In questo sfondo Cristo sarebbe soprattutto il profeta di un modo di vivere degno dell’uomo, fondato essenzialmente su «due parole: vogliatevi bene»[4] e il maestro dell’«umile accettazione del dolore come elemento indissociabile della condizione umana».[5]

Vero discepolo di Cristo è chi accetta umilmente il dolore e lo trasforma in verità e coraggio morale; non solo discepolo, è anche prolungatore della sua presenza tra noi, dato che Cristo vive nei sofferenti, nei poveri e nei perseguitati a causa della giustizia. A questo Cristo ancora in agonia sulla terra Silone esprime la sua fede e la sua devozione; arriva anche a dichiarare essere di «quelli che non credono nella morte e risurrezione di Gesù, ma credono nella sua agonia».[6]

Le parole sono belle: Gesù ancora in agonia; Gesù vive e soffre nei poveri e nei perseguitati; Gesù riscatta il dolore. Sono anche vere? Sì, nel contesto della Rivelazione cristiana, secondo la quale Cristo, vero Dio e vero uomo, incorporando a sé l’umanità, vive nei battezzati, soffre e spera in essi, con essi costruisce il Regno di Dio, per il quale è morto e risuscitato. Ma se Cristo non è risuscitato? Allora tutto crolla: ci si pasce di illusioni, ci si delizia di chimere, si danza sul vuoto.

«Il Crocifisso, simbolo dell’umanità sofferente, in tanto è accettabile, in quanto sullo sfondo della croce si delinea la morte e la risurrezione. Se non fosse così, saremmo d’accordo con Nietzsche nel dire che egli “ammorba” l’umanità e va rimosso al più presto. Indubbiamente un uomo crocifisso non ha nulla di attraente. Gesù stesso disse che per credere in lui ci voleva un’attrazione del Padre, quella che comunemente chiamiamo la grazia. Ma Silone non la pensa così. Se si sente attaccato a Cristo “fin nelle fibre!” del suo essere è perché egli è il simbolo della dedizione agli altri. Ma Cristo è molto di più. È il Redentore, e lo è in quanto morto e risuscitato. Silone accetta la sua “agonia”, ma non la sua morte e risurrezione. Ammiriamo la sua nobiltà d’animo, ma non possiamo essere d’accordo con lui».[7]

È questo, il punto più debole della cristologia siloniana: un po’ romantica, evanescente, ambigua. Se Cristo non è Dio, il suo messaggio può essere benefico, suggestivo e nobile quanto si vuole, ma non può salvare l’uomo dal di dentro, né dare alla storia una direzione nuova che la riscatti dal male e la trasformi, avviandola verso l’affermazione definitiva dei bene, cioè del Regno di Dio, né i cafoni possono consolarsi perché sanno che uno come loro, venti secoli fa, è stato crocifisso. Se si accetta la risurrezione, il discorso cambia radicalmente. Cristo, morto e risorto, significa che la morte è vinta, che il nostro destino è redento, che la nostra speranza (l’utopia del Regno, tanto cara a Silone) ha un fondamento.

Quella croce di ferro sulla sua tomba

È possibile pensare che a Silone – spirito profondo e ricercatore impenitente – sia sfuggito il tragico di un Cristo, condannato a un eterno venerdì santo? Cioè, al naufragio della speranza e al nonsenso della sofferenza? In realtà, senza la risurrezione, qui inevitabilmente si va a finire. Salvo che non ci si rifugi nel miraggio di un paradiso terrestre, dono della storia di domani.

Ma chi conosce Silone sa bene quanto egli, dopo l’uscita dal Partito Comunista («un grave lutto, il lutto della mia gioventù»),[8] sia rimasto allergico nei confronti di qualsiasi messianismo terrestre. A proposito del marxismo, Pietro Spina così si esprime: «Tristezza di tutte le imprese che hanno come scopo dichiarato la salvezza del mondo. Paiono le trappole più sicure per perdere se stesso».[9]

Noi crediamo che, nonostante tutte le ombre e le ambiguità, le pause di sfiducia e di sconforto, il Cristo di Silone sia quello della fede cattolica. Per tre motivi. Innanzi tutto, egli non si è mai stancato di proclamare ad alta voce la sua devozione e gratitudine a Cristo: che ha visto nei sofferenti, che ha invocato come speranza dei poveri e sostegno dei perseguitati per la causa del bene, che ha proclamato assertore della sola morale su cui fondare la società e la vita. Quale significato avrebbe tutto ciò se ci si riferisse a un semplice uomo?

In secondo luogo, Silone ha sempre proclamato la sua fedeltà all’«eredità cristiana» e il suo approdo a quelle «certezze irriducibili» che sono, nella sua coscienza, «certezze cristiane». Ora, l’anima di queste eredità e certezze è la fede in Cristo, vero Dio e vero uomo. Sappiamo bene che lo Scrittore ha respinto, un po’ frettolosamente, quelle “incrostazioni” storiche che, lungo i secoli, hanno appesantito e qualche volta anche alterato il cristianesimo primitivo; che le sue personali vicende gli hanno iniettato nell’anima sospetti e ripugnanze per le istituzioni e le ideologie, dunque anche per la Chiesa e per la teologia;[10] che la sua fede “primitiva” ha subìto un certo influsso del modernismo, accentuazione del sentimento religioso e messa in ombra dei dogmi e della dottrina della Chiesa, – e del protestantesimo liberale –, razionalizzazione del cristianesimo. Tutto ciò ha indubbiamente intaccato la sua fede, ma non ne ha spento l’anima profonda.

Infine, la preziosa testimonianza della professoressa Anna Cappelli che fu molto vicina a Silone, negli ultimi anni della sua vita, in un rapporto di grande amicizia. Si era recata da lui il 13 dicembre 1972 per portargli Il volto della speranza, un volume da lei curato in cui sono raccolte le lettere di Benedetta Bianchi Porro, la giovane romagnola, laureanda in medicina, morta in concetto di santità, a ventisette anni, dopo un lungo calvario che la lasciò cieca, sorda e totalmente paralizzata. «Eppure cantò la bellezza della vita, la fedeltà al Signore e le ineffabili dolcezze dell’amicizia. Insegnò la gioia e a tutti donò la speranza».[11]

«Nel nome di Benedetta – scrive la Cappelli – nacque tra noi un’amicizia che diventò sempre più profonda, mentre Benedetta entrava a far parte della sua vita». Negli ultimi anni «Benedetta gli portò un soffio di vita nuova, rinvigorì la sua speranza e operò misteriosamente in lui».[12] Scrivendo di lei, Silone ha formulato una verità che getta una luce nuova su quella sua pagina dove si parla del «Cristo in agonia, su questa terra»: «L’anima, legata a Dio, è come una foglia legata a un albero. Attraverso la linfa che la nutre, essa comunica con i rami, il tronco, le radici, la terra».[13]

La Cappelli ricorda anche la visita, fatta con lo scrittore, ai padri trappisti delle Frattocchie, la sua commozione, il desiderio d’incontrare, nella sua casa, un frate («ma la rigida regola della trappa non lo ha poi consentito»). Inoltre, il proposito di recarsi insieme a San Pietro per l’indulgenza dell’Anno Santo (1975). «La sera convenuta pioveva, faceva freddo, le sue condizioni di salute erano molto scosse, e al telefono mi chiese se dovesse prepararsi per uscire; io lo dissuasi».[14] «Tutte le domeniche seguiva con profonda partecipazione – riferisce ancora la Cappelli – la Santa Messa delle 11 alla TV, e ne traeva consolazione […]. Era vivissimo in lui il senso dell’Incarnazione e quindi il senso di Cristo».[15] Soltanto nella prospettiva della fede cristiana – Cristo è morto e risuscitato, dunque Dio – la croce di ferro della sua tomba, da lui stesso disegnata, le braccia aperte sul vasto orizzonte, acquista il suo vero significato.

Silone, cristiano della soglia

Ho pensato a lungo quale fosse il titolo più adatto per il mio libro su Silone. Mi ero ormai deciso a riadottare il titolo della tesi, Il cristianesimo di Ignazio Silone, magari corredandolo con uno di questi aggettivi: abruzzese, primitivo, evangelico, coscienziale. Senonché, è intervenuto qualcosa che mi ha fatto mutare idea. Ho deciso di leggere, nell’estate 1999, le opere più importanti di Simone Weil, la famosa filosofa ebrea, venerata da Silone, al fine di stabilire un paragone con la posizione cristiana del nostro, dal momento che, oltre a differenze essenziali che cercherò di evidenziare, ha con lui innegabilmente delle affinità spirituali e di scelta.

Com’è noto, la Weil, benché di sentimenti profondamente cristiani e cattolici, non ha mai compiuto il passo di entrare nella Chiesa cattolica. Ecco allora, il titolo che non si è lasciato cercare, ma mi ha cercato: Ignazio Silone, cristiano della soglia. Simone Weil non è entrata nella Chiesa, ma non ne è restata lontana. Silone, uscito dalla Chiesa in età giovanile, non vi è più rientrato, ma mi sembra che non si sia appostato in posizioni lontanissime: in un qualche modo, le si è fermato vicino, sulla soglia, appunto. Cercherò di dire che non è stato il cristianesimo a varcare la soglia, ma il suo cristianesimo, che dirò, con molta sincerità e franchezza, è parziale rispetto alla stessa esperienza cristiana weiliana. Un segno vistoso di questo consiste nel fatto che con gli anni pare che tra il suo «socialismo libertario» e il cristianesimo si operi un avvicinamento, una specie di sintesi.

Sensibile a certe voci nuove del socialismo europeo, in anticipo di oltre un trentennio su quella che sarà la riflessione della teologia cristiana circa il significato religioso del progresso nelle sue varie espressioni, Silone coglie nell’“utopia” il punto d’arrivo e di congiunzione delle sue speranze religiose e sociali.[16] Ma il cristianesimo non coincide con l’utopia, anche se sa comprendere dentro l’arco della sua escatologia la parabola utopica. Quel che manca a Silone di cristianesimo gli ha impedito di varcare la soglia della Chiesa. Ma stare sulla soglia è già, in qualche misura, stare nella casa: per Silone appartenere alla Chiesa. è quanto cercherò di far emergere colloquiando con lui per quanto riguarda la sua posizione personale ed esistenziale (che è difficile vagliare con giudizio oggettivo, come ogni scelta interiore), e, poi, ragionando sul problema oggettivo che Silone pone: quello della possibilità o meno di essere cristiano senza Chiesa.[17] A mio parere, l’approccio a Silone, sul tema del cristianesimo, richiede l’attivazione di due registri ermeneutici: quello della decifrazione dell’anima e quella del giudizio su una posizione che, perché esteriore e in un qualche modo da lui stesso motivata con ragioni di tipo storico e teologico, si fa oggettiva e merita di essere fronteggiata come tale.

Di Silone si può parlare solo con rispetto

La conoscenza personale di Silone e la frequentazione dei suoi scritti fanno nascere nel cuore un forte sentimento di rispetto, un senso di pudore nell’accostarsi a un uomo umanissimo e a uno scrittore che grava le sue pagine di tutto se stesso, tanto da imporre per esse lo stesso rispetto pudico che si nutre per l’uomo.

Con Silone, per non tradirlo, bisogna rimanere a una certa distanza: la impone tutto di lui, soprattutto la sua serietà sofferta, che però affonda le sue profonde radici in un terreno che contiene in sovrabbondanza gli umori della speranza. Recentemente, Darina Laracy, la consorte di Silone, ha giustamente affermato: «Sarebbe tradire Silone se qualcuno se ne appropriasse come è stato fatto in passato. Silone appartiene all’Uomo».

C’è in Silone lo sforzo continuo di non lasciarsi prendere, di lasciarsi catturare spiritualmente: ci si accorge di questa preoccupazione che lo anima e lo perseguita senza tregua. Tenersi libero, sempre, per ubbidire al magistero della sua coscienza è ciò che lo guida, forse è anche ciò che lo tormenta se per caso gli dovesse sembrare di non essere stato pienamente fedele. Silone s’impone per la sua dignità di uomo di coscienza: è come se ne stesse sempre auscultando la voce fino alle sfumature più lievi. Questa potrebbe essere una qualche decifrazione di quella spessa coltre di silenzio che avvolge l’intera personalità di Silone: un uomo in ascolto trasuda silenzio da ogni poro della sua anima. Ebbene, «solo con simili premesse, si può dire qualcosa della dimensione religiosa della personalità e della produzione letteraria di Ignazio Silone in modo rispettoso».[18]


[1] Luce D’Eramo riporta questo titolo della mia tesi, allora in fase di elaborazione, ne L’Opera di I. Silone, Mondadori, Milano 1971. Il titolo definitivo della tesi depositata presso la Pontificia Università Gregoriana (Roma) fu invece: Il cristianesimo di Ignazio Silone.
[2]
Riportato in appendice a Severina. Opera postuma a cura di Darina Silone, Mon­dadori, Milano 1981.
[3] I. Silone, L’avventura d’un povero cristiano, Mondadori, Milano 1968, p. 41.
[4] I. Silone, L’avventura d’un povero cristiano, p. 155.
[5] I. Silone, Terra di santi e di muratori in La fiera letteraria (11.4.1954).
[6] Cf. L. D’eramo, L’opera di Ignazio Silone, Mondadori, Milano 1971, p. 238.
[7] D. Grasso, «L’opera di Ignazio Silone» di Luce d’Eramo, in La Civiltà Cattolica, 1971, IV, p. 458.
[8] I. Silone, Uscita di sicurezza, Vallecchi, Firenze 1965, p. 113.
[9] I. Silone, Vino e pane, Mondadori, Milano 10703, p. 103.
[10] Interessante leggere due dichiarazioni di Silone. La prima, rilasciata al Messaggero di Roma, dice: «La Chiesa deve restare ferma alle proprie sicurezze altrimenti scenderà nel campo del dubbio e lì troverà tutti noi, vecchi laici. Ma che incontro triste sarebbe quello…» (riportata in E. Guerriero, L’inquietudine e l’utopia. Il racconto umano e cristiano di Ignazio Silone, Jaca Book, Milano 1979, pp. 234-235). La seconda è una risposta data al rev. Bruno Formentin, in merito alla presenza del prete nelle istituzioni: «Nelle istituzioni si resti, purché ci si regoli secondo coscienza, cioè si usino strutture ecclesiali per servire il popolo, non per asservirlo» (riportata in A. Ruggeri, Don Orione, Ignazio Silone e Romoletto, Edizioni Don Orione, Tortona 1981, p. 266).
[11] Cf. A. Ruggeri, Don Orione, Ignazio Silone e Romoletto, p. 172.
[12] La testimonianza della professoressa Anna Cappelli è riportata nel volume di A. Ruggeri, Don Orione, Ignazio Silone e Romoletto, pp. 171, 173.
[13] A. Ruggeri, Don Orione, Ignazio Silone e Romoletto, p. 184.
[14] A. Ruggeri, Don Orione, Ignazio Silone e Romoletto, p. 174.
[15] A. Ruggeri, Don Orione, Ignazio Silone e Romoletto, pp. 175-176.
[16] Cf. A. Scurati, Il punto d’arrivo d’Ignazio Silone, in Letture 33 (1978) 601.
[17] Che nell’affermazione del cristianesimo senza Chiesa o del Regno senza Chiesa Silone non volesse restare ad un livello puramente esistenziale, lo si deduce da tanti particolari. Egli non pretendeva di imporre ad altri il suo punto di vista, ma, cionondimeno, lo difendeva come si difende una posizione che si ritiene non personale, ma oggettiva. Basti ricordare una sua risposta ad Alessandro Scurati, dopo una critica di questi a L’avventura d’un povero cristiano (cf. Letture 1968, 427 ss.): «In quanto alla sua confutazione d’un certo modo d’intendere il Regno di Dio, lei sa meglio di me che non è una trovata personale. è una discussione che rimane aperta da molti secoli e non è vicina a concludersi, senza dedurne che una delle parti sia in malafede» (A. Scurati, Il punto d’arrivo di Ignazio Silone, in Letture, 33 [1978] 601).
[18] F. Peloso, Don Orione nell’opera di Ignazio Silone, in L’Osservatore Romano (9.4.1999).

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