“Adottare” un monumento, sì ma…

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Il tormento del terremoto nell’Italia Centrale stimola in vario modo pensieri alti e buoni sentimenti anche nella dimensione pubblica. Il denominatore comune è la solidarietà declinata nei verbi soccorrere, sostenere, ricostruire.

La situazione è seria e preoccupante, al punto da giustificare, se non il disarmo, almeno una tregua della rissa quotidiana che percorre la vita politica del paese.

A parte la politica, sui cui comportamenti è sempre salutare il dubbio, è innegabile che le dimensioni del disastro, e anche il perdurare di un “assestamento” che non è mai definitivo, abbiano concorso ad alimentare quella che convenzionalmente viene chiamata “gara di solidarietà”.

I moduli su cui essa si esercita e anche l’intensità delle espressioni di cui si nutre rivelano che è forte nel paese (e anche fuori) la percezione dell’emergenza come motivazione di un impulso a intervenire in ogni ambito e a tutti i livelli. Ed è davvero consolante che un simile atteggiamento di vicinanza alle persone e alle comunità così duramente provate sia condiviso, spontaneamente, da milioni di cittadini. Quelli che si immergono nelle operazioni al fronte e quelli che, nelle retrovie, concorrono a raccogliere quel che può servire nell’immediato e in prospettiva.

La “sfida” del “Corriere”

Così la tragedia diventa occasione e attrazione della solidarietà popolare; costringe a rompere, sia pure per una frazione e per un momento, la crosta di egoismo in cui siamo indotti vivere per scoprire il valore del prossimo e di quello che, nella circostanza, si può fare per ridurne le sofferenze.

In questo intreccio di buona volontà è corretto inserire a pieno titolo una iniziativa particolare, come quella patrocinata da Pierluigi Battista sul Corriere della sera del 3 novembre scorso: «Iniziare a ricostruire. E la borghesia potrebbe dar vita a una mobilitazione straordinaria per rimettere in piedi anche solo un frammento del patrimonio». Più in breve: «Adottare un monumento».

L’articolo valorizza l’annuncio del “re del cachemire”, Brunello Cucinelli, di voler farsi carico, con motivazioni spirituali, della ricostruzione della basilica di San Benedetto a Norcia. E ne dilata il significato fino ad auspicare, nei ceti possidenti – la borghesia – la nascita di un «sentimento di mecenatismo diffuso» come espressione di una «prestazione di civismo e di attaccamento a una cultura, a un’identità, a una tradizione». Ed è alla borghesia che non esita a rivolgere una vera sfida in tal senso.

Nobili motivazioni

Come dubitare di una così nobile intenzione? «Quante biblioteche disseminate per l’Italia, musei, chiese, affreschi, frontoni, absidi che possono essere salvati non solo dall’incuria ma anche da fenomeni distruttivi di portata micidiale, potrebbero essere adottate da chi, in cambio, può al massimo chiedere una targa, un segno di gratitudine minima?». Ed ancora: «…si tratta di dimostrare concretamente, per chi ne ha la possibilità, che davvero questo è il nostro patrimonio da salvare, da tutelare, da assicurare alle generazioni che verranno e che potranno nuovamente ammirare le bellezze che oggi sembrano compromesse per sempre».

Si potrebbe osservare che, spesso, il corrispettivo economico di simili gesti di generosità non si limita alla targa apposta sull’opera ma si traduce in un ricavo di pubblicità. Ma non è questo il punto perché di buona pubblicità si tratterebbe. Né va presa in considerazione l’opposizione – che l’autore paventa – di quanti ritengono che l’intervento dei privati costituirebbe un’invasione indebita in un dominio riservato allo stato. Chi potrebbe parlare di intrusione quando si agisce in un contesto di sussidiarietà, un circuito costituzionalmente protetto?

È utile invece chiamare in causa il principio dei… vasi comunicanti per esprimere il timore che, all’eventuale affluenza di risorse verso pur meritorie imprese specifiche, faccia riscontro un corrispondente deflusso dal cumulo complessivo delle risorse pubbliche realizzato mediante il prelievo fiscale.

Doveri “à la carte”

Non è un giudizio temerario in un paese nel quale – le statistiche ufficiali lo rivelano – l’estensione del sommerso (e in esso dell’evaso) – raggiunge quote drammaticamente elevate. E non si dica che sarebbe comunque meglio destinare una quota di quel che non viene messo a monte al recupero e restauro di preziose opere d’arte anziché al fabbisogno generale della collettività. In ogni caso, ciò non può avvenire per decisione unilaterale.

I «doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale» di cui l’art. 2 della Costituzione richiede l’osservanza non sono soggetti a compensazioni unilaterali del genere di una selezione à la carte. Se tale condizione manca, l’intero edificio non sta in piedi. Ed è per questo che l’appello per una destinazione pur lodevole di risorse non può essere disgiunto dalla premessa, anzi dalla pregiudiziale, dell’avvenuto adempimento del dovere fiscale da parte del donatore. Ancora più in chiaro: chi si sottrae a tale obbligo non può accampare titoli di benemerenza per non importa quale iniziativa.

Da incidere nel bronzo

È immaginabile che una proposta così convinta e convincente come quella lanciata dal Corriere consideri come scontato l’adempimento dei doveri fiscali da parte dei donatori. Ma proprio per questo varrebbe la pena di renderlo esplicito, anche per rendere più credibile e persuasivo l’appello.

In tal senso, si potrebbe suggerire che l’idoneità ad adottare un’opera d’arte sia attestata anche da un’idonea certificazione della posizione fiscale dell’adottante. Da incidere – perché no? – anche nel bronzo dell’apposita targa.

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