L’arte, religione sostitutiva

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scultura

«I musei sono luoghi di democratizzazione inclusivi e polifonici, dedicati al dialogo critico sul passato e il futuro… Sono depositari di artefatti ed esemplari per la società». «Sono partecipativi e trasparenti e lavorano in collaborazione attiva con e per diverse comunità per raccogliere, preservare, studiare, interpretare, esporre e migliorare le comprensioni del mondo». Sono questi alcuni passaggi della nuova definizione di museo d’arte elaborata dal Consiglio internazionale dei musei (ICOM, acronimo in inglese) che raccoglie 40.000 professionisti e 20.000 musei in 141 paesi.

Il vocabolario Zingarelli spiega così il museo: «Luogo in cui sono raccolti, ordinati e custoditi oggetti di interesse storico, artistico, scientifico, etnico e simili».

L’evidente distanza fra le due indicazioni  non è solo quella fra dinamico e statico e fra pervasivo e concluso. È una differenza ideologica fra passato e presente, fra la centralità del pubblico e del territorio e invece la stabilità delle collezioni e dei manufatti. Più in profondità, indica quell’acquatica estetizzazione del vivere che permea le civiltà occidentali.

Non mancano certo le critiche. Responsabili di musei di 27 paesi si sono opposti giudicando le nuove formulazioni troppo politiche, non operative, strette e colpevolizzanti (cf. Le Monde 7 settembre 2019).

Polemica nei musei

La polemica ha avuto anche riverberi italiani con le dichiarazioni del critico d’arte Francesco Bonami che giustamente ragionava sui paradigmi di fruizione dell’arte dettati dalla nuova cultura mediale. In particolare, constatava come ormai non è più percepita la differenza tra opera d’arte originale e fruizione virtuale, vedi quelle mostre a grande impatto tecnologico in cui i quadri vengono trasformati in esperienze visuali. La mostra sulle opere di van Gogh, in cui i suoi quadri sono riprodotti su giganteschi monitor, fa più visitatori del Museo di Amsterdam con le opere vere.

In questo senso, la polemica riguarda proprio il vecchio statuto sacrale delle opere d’arte in quanto originali. Che però oggi la tecnologia e la cultura visiva ha relativizzato totalmente.

Il dibattito perciò ha qualcosa di romantico e di velleitario. Il punto è che oggi la cultura è questa. Si può rammaricarsene, ma non si può starne fuori. Un po’ come chi rimpiange un mondo senza telefonini in cui si parlava di più vis a vis. Si possono avere molti rimpianti, ma nessuno sarebbe disposto a tornare indietro.

Così oggi l’arte non vive senza la sua parte di spettacolo. Fa parte dell’elevazione dell’estetica a paradigma del senso nelle società secolarizzate e nichiliste. Dove l’arte deve diventare spettacolo di massa per essere una religione sostitutiva. Sicché il vecchio mondo delle opere d’arte nei musei per un pubblico di cultori non esiste più, se non per una minima parte di persone acculturate e di mestiere.

Estraneità della Chiesa

All’ombra dell’imperante beautytudine e del suo panestetismo di massa, anche il mondo dell’arte, con le sue pratiche e le sue istituzioni, è uscito da tempo dalla ristretta dimensione del sapere e della ricerca, per confluire in quella miscela fra cultura, moda, sport e intrattenimento, che acquista reale valore simbolico solo se posto sotto la luce dello «spettacolo» e se fatto brillare nella replicabile unicità dell’«evento». Una convergenza verso il bello, come veicolo del senso e del consenso, in cui alla fine tutti fanno tutto come tutti, dove le banche fanno mostre, i musei fanno concerti, in libreria si mangia, al ristorante si recita, in un fermento di iniziative che mantiene le nostre città in un permanente stato di eccitazione eventistica.

L’arte ha però congiuntamente ereditato la gestione sociale di una vita dello spirito, non più legata a una trascendenza oggettiva, eppure non meno necessaria alla vita collettiva. L’arte, a suo modo, è un culto, i musei sono templi, le esposizioni sono ostensioni, le grandi mostre pellegrinaggi, le opere simulacri, le visite guidate una devozione, i capolavori reliquie, le attribuzioni miracoli, gli opening liturgie, gli artisti profeti canonizzati.

Persino l’“arte contemporanea”, nata come antidoto al nuovo oppio dei popoli della bellezza pubblicitaria, fatica molto a mantenere questa sua vocazione critica e profetica, per divenire oramai con evidenza la confessione elitaria e intellettualizzata di una più ampia religione popolare.

Abbiamo fondata convinzione che anche il ritorno di fiamma di una coscienza estetica e di una passione per l’arte dentro i recinti religiosi della vita cristiana, sia più legato a questo generale indotto collettivo che a una ritrovata coscienza teologica del tema.

Che cosa ci manca

La verità è brutta, affermava Friedrich Nietzsche nel Frammenti postumi del 1888. Solo la bellezza può consolarci di questa cruda evidenza. L’unico mondo che l’uomo può avere a disposizione è la rappresentazione che egli stesso decide di farne, mediante gli artifici di una bellezza trionfante, e nella distrazione di un edonismo socialmente organizzato per essere un paradiso in terra prima del nulla. Beati i cultori della bellezza, perché si ritroveranno felici almeno in questo mondo.

Il contesto ridefinisce anche il senso dell’arte nelle chiese. Ci vorrebbe la capacità di un piano culturale a lunga gittata che non è alle viste. Non l’aborto di “progetto culturale” come lo abbiamo conosciuto, ma un’alimentazione culturale dell’annuncio evangelico, delle nostre pratiche e dei nostri edifici. Ipotesi promettente e lontana.

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