Chiesa in uscita e buona stampa

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Gli effetti della “Chiesa in uscita” si fanno sentire anche sulla editoria cattolica? La domanda viene opportunamente sollevata in questo intervento di Alberto Dal Maso, dottore  in teologia,  docente di Storia e forme del culto cristiano alla Fondazione B. Kessler di Trento e redattore responsabile dell’edizione italiana della rivista internazionale di teologia Concilium, oltre che da vent’anni editor dell’Editrice Queriniana di Brescia (Andrea Grillo).

Il libro religioso:
se realtà e fantasia sorpassano gli schemi
Verso una UELCI 2.0? 

La filiera d.o.c. del libro cattolico dovrebbe essere questa: comprovati autori cattolici scrivono ciò che bravi editori cattolici, avvalendosi preferibilmente di tipografie cattoliche, sapranno pubblicare affinché ne siano nutrite il maggior numero possibile di menti cattoliche; e una fedele rete di distribuzione cattolica rifornirà le librerie cattoliche che, spalleggiate dal supporto promozionale di un portale cattolico, venderanno appunto il prodotto al lettore cattolico finale (oppure a opportune biblioteche, rigorosamente cattoliche pure esse). Dovrebbe: in teoria. Ma in pratica oggi è sempre meno così. Perché ogni tanto la fantasia e persino la realtà si piccano, per fortuna, di superare i nostri schemini sulla “buona stampa”. Vediamo allora che cosa è accaduto e cerchiamo di capire che cosa questo implica.

La realtà oltre gli schemi

Da almeno sette anni in Italia, in occasione delle fiere nazionali del libro – ieri il monopolistico Salone di Torino, oggi (oltre al Lingotto) il nuovo Tempo di libri nei padiglioni di Milano-Rho – un apposito Osservatorio, organizzato dalla UELCI (Unione degli editori e librai cattolici) in collaborazione con l’Ufficio studi dell’AIE (Associazione italiana editori), elabora dati e statistiche destinati ad accendere sul settore dell’editoria religiosa una fiammata di attenzione.

Le cifre che anche quest’anno sono state snocciolate confermano una tendenza “scandalosa”, se confrontata con gli schemi di purezza cristallina che dovrebbero disegnare il percorso del libro d.o.c. dal produttore al consumatore. Risulta infatti che il libro religioso:

  1. è sempre meno opera di autori cattolici: entrano prepotentemente in scena penne ibride, refrattarie alle rassicuranti classificazioni canoniche;
  2. è sempre meno pubblicato da case editrici espressamente cattoliche: normalissimi editori laici erodono man mano il terreno altrui, andandosi a infiltrare per di più nella fetta di mercato economicamente più redditizia (realizzano fatturati maggiori in rapporto alle copie vendute);
  3. è sempre meno distribuito da soggetti cattolici: o perché gli editori puri scelgono una distribuzione generalista, o perché gli editori proprietari di reti distributive ne vendono le quote di maggioranza a imprenditori laici.

Ma le sorprese non finiscono qui. Che dire infatti dei lettori del libro religioso? Stando ai dati oggetto del rilevamento, si conferma che negli ultimi anni hanno cambiato volto:

  1. sono, in una percentuale sorprendente, poco o per nulla credenti, dunque ancora una volta non etichettabili come “cattolici” praticanti tout court; si potrebbe aggiungere, infrangendo altri cliché: sono giovani, attenti, curiosi, sono professionisti e lavoratori autonomi, possiedono un titolo di studio elevato;
  2. di per sé sono numericamente in costante aumento, in controtendenza rispetto al dato generale (sono più che raddoppiati dal 2010 ad oggi), ma vengono appunto intercettati dai grandi player, dai colossi dell’editoria italiana;
  3. sono propensi a rifornirsi di libri preferibilmente negli store on-line come Amazon (sta diventando il punto vendita di gran lunga più gettonato), anziché nella libreria religiosa tradizionale; risultato: queste ultime muoiono come mosche.

Si potrebbero aggiungere altri dettagli, più emblematici che inquietanti, ma non farebbero che confermare che la realtà ha largamente superato, rendendoli obsoleti, certi schemi “blindati”. Mentre i libri a vario titolo catalogabili come “religiosi” (dunque non solo “cattolici”) negli ultimi cinque anni hanno lasciato sul terreno un drastico 26% di fatturato…

La “buona stampa” messa all’angolo (pars destruens)

Se è la realtà che detta il tempo, dobbiamo dedurne che la “buona stampa” è defunta? L’editoria cattolica appartiene ormai ai ricordi del passato (ammesso che sia mai esistita così come l’abbiamo delineata sopra, calcando i toni)? Oppure ancora sopravvive, magari boccheggiando, ma esige un coraggioso ripensamento a trecentosessanta gradi? E se sì, che cosa significa oggi tutelare e promuovere la “buona stampa”? Anzi, più radicalmente: quali criteri (ri)definiscono come “buona” una certa stampa ai nostri giorni?

Il tema è assai intrigante, come si capirà. Ed è stato affrontato nei giorni scorsi, a Milano, con la consueta competenza e la giusta dose di preoccupazione. Ne sono venuti ottimi spunti di discussione, in svariate direzioni.

Qualcuno, è vero, ha riproposto una elencazione piuttosto consueta di lamentele – e di tatticismi di corto respiro (efficaci, al massimo, sui sintomi). Qualcun altro ha invece evidenziato alcune debolezze che meriterebbero di essere risolte da cima a fondo. Ne possiamo elencare alcune: l’ostacolo di un linguaggio “introverso”, diretto cioè implicitamente a chi già pratica il lessico ecclesiale e ne condivide i presupposti, il che oggi si delinea come un formidabile freno1; l’anomalia di un sottosviluppo cronico sia nell’editoria rivolta a bambini, ragazzi, young adults, sia nel settore della narrativa, laddove proprio questi due ambiti sembrerebbero offrire linguaggi adatti a scavalcare la barriera fra mondo laico e mondo religioso (servirebbero tanti Alessandri Manzoni del XXI secolo!); il limite di un nanismo endemico dell’editoria religiosa nostrana, restia a innescare opportune sinergie e ad avviare, ogni volta che sia possibile, una politica di vere alleanze, fusioni, acquisizioni (superando sterili campanilismi di bottega); l’asfittico confronto con la realtà europea – o persino mondiale – più vasta, fuori dai confini ristretti del Bel Paese, che suggerirebbe di guadagnare una visuale meno miope e provinciale.

La fantasia che rompe gli schemi

La realtà, di certo, si è incaricata di far saltare lo schema reduplicatore dell’ecclesiologia della societas perfecta: mentre il mondo ha scuole laiche, università pubbliche, editoria secolare…, la Chiesa decide di veicolare la salvezza istituendo scuole e università cattoliche, stampa e libri cattolici, sindacati e professionisti cattolici… Sicché al tempo di Pio XII aveva ancora senso una Unione cattolica italiana delle ostetriche (o dei medici, o di chissà quali e quante altre categorie etichettate ed etichettabili come “cattoliche”). Dopo il Vaticano II, però, ha ancora pienamente senso «una Chiesa che si costruisce come separata dal mondo, duplicando i servizi», come «una regione ben delimitata del reale» (L. Boff)? E, ai nostri giorni, l’insistito appello bergogliano a «una Chiesa in uscita» non chiama realtà come l’UELCI – ma anche i singoli editori, a qualunque “parrocchia” appartengano – a rivedere la propria identità e la propria mission? Mentre rischia di essere ridotto a fenomeno salottiero scandalosamente trendy, il vero «effetto Francesco» sull’editoria cattolica non dovrebbe forse essere questo ripensamento radicale?

Ebbene sì: lo stimolo a riconsiderare gli schemi abituali non viene più solo dalle rilevazioni sociologiche e demografiche incrociate con i dati delle camere di commercio. Viene anzitutto da un guizzo di fantasia. Fuori di metafora: da una sensibilità pastorale, da una teologia aperta e creativa, da una idealità profonda. Nello spirito missionario di papa Francesco.

Si rivela dunque inadeguata una risposta alle sfide della realtà che punti semplicemente sugli aspetti tecnico-organizzativi e commerciali dell’editoria religiosa. Questo metodo può servire, al massimo, a difendere meri “interessi di bottega” e tradisce in definitiva uno spirito autoreferenziale: lascia ognuno intento a curare il proprio hortus conclusus, senza visione. Per editori e librai cattolici, invece, non è anzitutto questione di un target da ricalibrare furbescamente, di nuove tecnologie da sfruttare a capofitto o di un mercato da ricolonizzare con i più astuti espedienti per non perdere posizioni di potere, ma di una nobile missione culturale da svolgere. Sembra di sentir risuonare l’ammonizione: «… non conquistare spazi, ma avviare processi»2. In fondo ciò tocca nientemeno che un nodo identitario.

La “buona stampa” in uscita (pars construens)

Le implicazioni di «una Chiesa in uscita» proiettate sul piano della produzione editoriale cattolica si dovrebbero allora indovinare seguendo, in prima linea, più alte ispirazioni: facendosi guidare dalla “fantasia” pastorale di papa Francesco. Proviamo a declinare due o tre stimoli possibili, a titolo puramente esemplificativo, per conferire al ragionamento maggior presa sulla realtà.

  • Occorre accorciare via via le distanze con un destinatario che, ritenuto “lontano”, di fatto è più vicino di quanto non si creda; occorre intercettare le sue istanze, i suoi interessi, i suoi aneliti, le sue provocazioni, i suoi linguaggi: come essere capaci di parola oltre i confini dei “soliti” credenti, mostrando uno stile kerygmatico intelligente ed empatico?
  • Occorre costruire ponti anziché innalzare rigidi steccati identitari (ovvero muri rivestiti di specchi): come intavolare un dialogo con l’altro – qualunque interlocutore si intenda con ciò (l’altro confessionale, l’altro religioso, l’altro non credente, l’altro indifferente…) – ovviamente senza abdicare alla propria identità ma aprendola al confronto, ovvero in un senso anti-relativistico?
  • Occorre abilitare il pensiero teologico a porsi sempre più al servizio della società, e della società reale, giungendo a tutti, in tutti i luoghi, in tutte le occasioni, in tutte le periferie: come aiutare quegli autori che sono i teologi (o più in generale gli “intellettuali organici”), rimasti stabilmente confinati nei seminari, a sconfinare, a scendere nell’arena del confronto dialettico con i colleghi delle altre discipline accademiche, mettendosi in gioco (un nuovo areopago)?

Probabilmente la risposta a queste e ad altre domande ha qualche assonanza con una parola come “qualità”: molti l’hanno saggiamente riconosciuto, senza falsi pudori, sebbene sia difficile parlare di qualità e praticare una produzione di qualità, non da ultimo perché i criteri di qualità possono essere diversissimi (e non li decide il mercato!).

Nella nuova sistemazione offerta da Tempo di libri la questione è rimasta sotto traccia: la si è intravista, ma un riflesso condizionato ha come impedito di tematizzarla. Quella non era probabilmente la sede istituzionale più corretta per svolgere una riflessione su questi temi. Temi che scaturiscono sì da un dato sociologico, o di costume, o di consumo, ma che per essere adeguatamente sviscerati necessitano di più vasto sentire: richiedono una riflessione fondante, fondamentale, anzitutto. Guai se, confusa nel coro della lamentatio generale (che potrebbe essere la forma surrettizia assunta oggi dall’autoreferenzialità di certo mondo cattolico), la problematica rimanesse del tutto inevasa! Riconosciamolo: a volte ci si accontenta di una vaga consapevolezza del problema, tenendosi a debita distanza. Affrontarlo è troppo scomodo, spinoso, smobilitante. Richiede una buona dose di autocritica, di discernimento, di conversione. Richiede visione, creatività, intelligenza (la furbizia non basta). E così si preferisce rimuoverlo, con la scusa di “ben altre” urgenze che attengono alla sopravvivenza stessa di un sistema e dei suoi schemini di gioco.

Non ci sembrerebbe allora fuori luogo una UELCI 2.0 che, come organismo collettivo e nei suoi singoli editori, ripensi a come servire meglio la Chiesa italiana, la società italiana, la cultura italiana ponendosi in atteggiamento di uscita. Che dunque, facendo leva su una “plasticità buona”, affronti di petto la sfida di un’editoria cattolica “in uscita”, stimolando – con ogni mezzo lungimirante – un libro cattolico all’insegna della qualità.


1 Per estensione: anche percorrere le larghe e rassicuranti strade del devozionismo, anziché arrischiarsi nella selva del confronto culturale alto, potrebbe essere una forma introversa e autoreferenziale di linguaggio. C’è però in agguato un pericolo: che questa distinzione sia semplicistica e pecchi di elitarismo. Occorre affrontare il nodo di un certo intellettualismo accademico che, per partito preso, snobba il “popolare”, anziché assumere la sfida di abitare questa “periferia” e innervarla di contenuti solidi.
2 Applicazione ipotetica: fare la fatica di scovare nuovi autori, di incoraggiarli, di farli crescere, dare loro un uditorio potrebbe essere “avviare processi”; lamentare che, sul più bello, questi autori vengono poi cooptati dai grandi gruppi editoriali e prendano il volo (lasciando l’almo loco natio) potrebbe significare rimpiangere di non riuscire a “conquistare spazi”.

Pubblicato il 8 maggio 2017 nel blog: Come se non

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