È in crisi l’Europa o l’Occidente?

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La falsa universalità occidentale

Si accusa l’Occidente d’aver ritenuto mondiale il suo particulare e d’aver preteso, perciò, di dover mondializ­zare la sua particolare cultura. Due guerre svoltesi in Europa (1914-1918 e 1940-1945) sono state tranquillamente considerate guerre mondiali, mentre – specie la prima di esse – erano in sostanza guerre solo occidentali. Eviden­temente, si riteneva che l’Occidente valesse il mon­do intero!

Ma che dire dell’Occidente: è una cultura fra le altre o possiede qualcosa di singolare, di unico, di essenziale? C’è chi ritiene di sì, ad esempio E. Lévinas: «Sono d’accordo su questo punto – egli scrive – con R. Aron: final­mente, come dice, la terra ha una storia unica, tutti i popoli sono entrati nella storia dell’Europa. Il pro­blema dell’avvenire dell’Europa è, per me, il proble­ma dell’avvenire di tutta la terra, e di tutta l’umani­tà».[1]

Alla considerazione di tipo storico, E. Lévinas ne fa seguire una di tipo antropologico, che tradisce il suo radicale convincimento: «Credo fermamente al carattere dell’Occidente, malgrado i suoi stessi smarrimenti, e in qualche modo al profetismo delle sue ispirazioni. Penso che ci sia dell’occidentale in ogni uomo ontologicamente, c’è dell’occidentale in ogni uomo».[2] Evidentemente, questo è un giudizio non da tutti condiviso. C’è chi pensa che all’umanesimo dell­‘Occidente stia subentrando un umanesimo etnolo­gico, avente la sua verità prima nel biologico, nel vi­tale, nel naturale, nell’umano.

Saremmo al tramonto dei miti moderni e dentro il processo d’inversione dell’identità con l’alterità; saremmo testimoni del­l’ecatombe delle culture e, finalmente, nella condizio­ne di poter ben valutare il dono dei “barbari”. Sa­remmo nel vortice di una rivoluzione della memoria: cadono nel sospetto la memoria ufficiale (quella de­gli «scribi del faraone»), mentre vengono ritrovate memorie sommerse, minoritarie, emarginate e occul­tate perché non funzionali alla cultura egemone. Il “moderno” occidentale, come paradigma di unifica­zione culturale dell’umanità verserebbe in una crisi senza rimedio.[3]

L’Occidente della crisi

Il problema dell’Occi­dente, in verità, non è solo quello dell’espandibilità universalistica della sua cultura, quanto quello di salvaguardarne senso e identità. È a questo livello la perdita maggiore (o, magari, il rischio più alto) che l’Occidente si trova a fronteggiare. Sono entrate in crisi certezze riguardanti la verità, l’uomo, la vita, la visione del mondo, il senso del fare, i valori educati­vi. Eppure, di fronte ad una crisi che si apre a venta­glio in tante direzioni essenziali dell’esistere e che si spinge in grandi profondità, l’effetto non è stato quello del tacere su ciò di cui non si è più certi, ma quello di aumentare il volume della voce e di moltiplicare i codici linguistici.

È Babele. È la retori­ca sensuale e aggirante, furba e interessata. L’esito di questa caduta nell’equivoco neosofistico dell’opi­nione meglio prezzolabile, è che la vita degli uomini diventa in tal modo disponibile alla legge del merca­to, fino a quando qualcuno non si decide (ma ormai il rischio è stato esperimentato da molte nazioni oc­cidentali) per l’imposizione terroristica della propria opinione, anziché optare per il comune servizio al­la verità dell’essere, che è la verità dell’uomo.

La fi­ne dell’essere, la fine della ragione, la fine del rac­conto sensato degli accadimenti di vita, la fine della speranza come umile orgoglio d’invocare il sorpassamento dei cimiteri nascono tutte alla stessa maniera: dalla morte di Dio. Il figlio di questa sacrilega morte è «l’uomo del compromesso che ha imparato a convi­vere con il nulla».[4]

Col nichilismo si ha la simulta­nea disfatta dell’essere e dell’uomo; esso è «la situa­zione nella quale l’uomo rotola dal centro verso la x»; esso è «il processo nel quale, alla fine, dell’essere come tale “non c’è più nulla”».[5] In questo contesto del nulla, il «pensiero debole»[6] ritiene che l’unica possibilità che resta sia quella di poter amministrare il presente, senza alcuna possibilità di progettare la speranza.

Verso l’universalità planetaria

Prima di essere una questione, la cultura planetaria è un fe­nomeno storico dei nostri anni.[7] Nell’attuale crisi epocale, che tormenta la condizione del vivere umano, non è più permesso il lusso delle divisioni, delle giustapposizioni e dei mani­cheismi culturali. S’avverte, invece, ogni giorno di più, l’urgenza di recuperare tutte le componenti es­senziali della cultura umana, di scorgere e di accom­pagnare tutte le aperture, di cui una “cultura dell’integralità” è capace: fra queste aperture va compresa anche quella alla mondialità. Tutto si mondializza, in bene e in male; è la novità più vistosa del nostro tempo.

L’impatto dei problemi ecologici, delle scelte economiche o politiche si avverte, sempre più imme­diatamente, su scala mondiale. La presente situazio­ne di mondialità non si è creata dall’oggi al domani; s’è originata, invece, sotto la pressione di diverse onda­te storiche decisive, che possiamo chiamare proprio ondate di mondializzazione:

1) L’espansione politico-militare (l’Impero di Ales­sandro Magno, l’Impero Romano);

2) L’espansione economico-commerciale (le scoperte geografiche, i commerci);

3) L’espansione tecnico-industriale (l’invenzione della macchina e lo sviluppo del macchinismo);

4) L’espansione mediale-planetaria (l’esplosione del­la comunicazione massmediale).[8]

Ma, oltre a queste ondate storiche, occorre conside­rare anche grandi forze, che oggi contribuiscono a formare la cultura della mondialità, e che possiamo perciò chiamare forze universalizzanti. Esse sono:

1) La scienza e tecnica: linguaggi e culture tendono ad adeguarsi al solo codice tecnico-scientifico;

2) La politica e l’economia: basti considerare il feno­meno dell’interdipendenza internazionale che il si­stema monetaria origina;

3) Le grandi religioni: è sufficiente considerare l’effetto di mondializzazione procurato, sia pure lenta­mente e con difficoltà, dai dialoghi interreligiosi ed ecumenici;

4) La coalizione della specie: siamo oggi testimoni del coalizzarsi della famiglia umana dinanzi ai pericoli della sua estinzione procurati dalla bomba nucleare, dalla bomba ecologica, dalla bomba biogenetica, dal­la bomba economica, dalla bomba demografica, dal­la bomba migratoria, dalla bomba razzistica.

Dal momento che le minacce incombenti sull’u­manità si presentano con dimensioni universali, an­che le risposte sono proporzionate ed assumono le di­mensioni planetarie.[9] Tuttavia, la tendenza alla mondializzazione della nostra civiltà va ascritta an­zitutto a un moto che si diparte dall’interno di essa, e solo secondariamente, alle condizioni di rischio che in essa si presentano. Osserva P. Prini, in proposi­to: «Forse la nostra civiltà borghese, oltrepassando se stessa per opera di quella stessa scienza che l’ha fondata o ha contribuito potentemente a fondarla, sta ritrovando, con ben altra complessità di senso e di conseguenze, l’ideale dell’uomo universale che il Rinascimento aveva preannunciato con la “fantasia esatta” di Leonardo».[10]

L’ora della saggezza: non negare la crisi

Ma se è Babele, si potrà almeno andare oltre Babele? Se l’Occidente da metropoli è diventata tribù, è ancora possibile trovare un centro di unità fra le cul­ture dei popoli? O, detto diversamente: è possibile costruire una cultura planetaria, ossia una cultura per la convivenza dei popoli?

La possibilità di una cultura dalle dimensioni planetarie non scompare solo perché è in crisi la leadership culturale dell’Occidente: è pre­sumibile pensare che una mondializzazione della cul­tura non sia possibile e realizzabile senza l’Occidente, ma neanche solo a causa di esso. Tuttavia, la partecipazione alla planetarizzazione della cultura, per noi occidentali, non potrà avvenire se non si parte prima dalla coscienza della crisi che attana­glia la cultura del nostro continente che, almeno nel suo carattere culturale, è egemone. È questo il primo atto di saggezza che si richiede.

La vecchia cultura occidentale, nella sua natura tecnico-scientifica, ubbidiva al dogma di un’espan­sione inesauribile e infrenabile, che nel tempo non è più sopportabile: «La percezione di una negazione e di una distruzione in atto, di or­dine planetario – ragiona P. Prini –, operata dal di­vario aperto tra l’illimitata libertà prometeica delle nostre tecniche e la repressione o la contaminazione dei valori vitali, edonici e spirituali della nostra real­tà naturale, è certamente la prima delle condizioni reali di quella rivoluzione antropologica che è il compito indifferibile del nostro tempo».[11] La cultu­ra occidentale, in essenza legata all’imperativo della produzione, è venuta a soffrire mortalmente della contraddizione tra il fare e l’essere, tra le dinamiche della produzione e le insopprimibili richieste di una saggezza vitale, di una comunità di viventi che si è venuta via via palesando minacciosamente nella coscienza e nelle istituzioni dell’umanità contemporanea.[12]

L’ora della speranza: non arrendersi alla crisi

La condizione attuale della cultura occidentale non può più vantare una sua egemonia; le si ri­chiede di raccordarsi con le “altre” culture, nel dialogo, nella reciprocità. Non è una condizione di disperazione, ma, in fondo, di nuova speranza, quella in cui si trova l’Occidente.

Ci sono ragioni per pensare che l’Occidente conservi in sé germi valoriali fertili, in grado di fargli sorpassare la crisi epocale che sta vivendo, potendo così rinnovare la sua identità senza perderla; l’Occidente è «la Bib­bia e i greci», afferma E. Lévinas.[13] Ora, «la Bibbia e i greci» hanno finito di esprimere le loro potenzialità di aggregazione, di unificazione dei popoli? Ciò che va aggiunto per rendere rigorosa questa domanda è chie­dersi se tale potenzialità sia disponibile per una unifi­cazione dei popoli su scala planetaria. C’è chi ha fiducia che l’Occidente possegga tale capacità.

L’Occidente avrebbe ancora la possibi­lità di aprirsi alla comunione delle culture “altre”, e non sarebbe affatto destinato alla rinuncia della sua centralità in questa planetarizzazione delle culture. Se non ha futuro l’Occidente – sembra di voler dire –, non lo ha neppure il mondo intero: la questione relativa al futuro dell’Occidente equivarrebbe a quella dell’avvenire del mondo e di tutta l’umanità.[14]

In con­trasto con questa posizione che crede ancora possi­bile l’unificazione delle culture a partire dall’Occi­dente grazie alla sua forza di aggregazione, c’è un’altra idea che vede emergere sulla mappa planetaria una pluralità di soggetti non riducibili a sintesi monisti­ca.

Superati finalmente i presupposti dell’antagoni­smo, essi sarebbero chiamati dalle sfide epocali, che minacciano la specie, a dar vita a un nuovo patto so­ciale di dimensioni planetarie che fondi la comunità mondiale, la cosmopoli.[15] Ma noi, in concreto, cosa dobbiamo fare per unire i popoli, ossia per la «comunione delle culture»? Presto detto: dobbiamo impegnarci ad elaborare e a costruire una cultura di comunione.


[1] E. Lévìnas, L’identità dell’Occidente, in Religiosità e Occidente. Riflessione sull’identità culturale della nostra epoca, a cura di A. Krali, Torino 1992, p. 9.
[2] E. Lévinas, L’identità dell’Occidente, p. 10.
[3] Su questo concerto delle dimensioni di crisi dell’Occidente, cf. U. Galimberti, La terra senza male, Milano 1984; M. Sahlins, Isole di storia, Torino 1986; C.F. von Weizsaecker, II tempo stringe, Brescia 1987. Vanno poi ricordati i volumi di E. Balducci: L’uo­mo planetario, Fiesole (FI) 1990; La terra del tramonto, Fiesole (FI) 1992.
[4] Cf. A. Rovatti, Trasformazioni del corso dell’esperienza, in Aa.Vv., Il pensiero debole, a cura di G. Vattimo e P.A. Rovatti, Milano 19907.
[5] G. Vattimo, La fine della modernità. Nichilismo ed ermeneutica nella cultura post-moderna, Milano 1987, p. 27.
[6] L’esito di un prolungato dibattito intorno alla «crisi della ragio­ne» afferma il convincimento di essere ormai arrivati a un punto in cui non c’è più un filo conduttore della storia, né un sapere globale che riesca a coordinare i saperi particolari in una visione «vera» del mon­do. Ciò che viene chiamato con l’espressione «pensiero debole», è un pensiero radicale: è il tentativo di sfondare, chiamando in causa Nietzsche e Heidegger, le resistenze che le immagini «forti» della ragione continuano ad innalzare. Il convincimento che viene coltivato vuole che, soltanto se ci liberiamo dai fantasmi dell’irrazionalità, potremo cominciare a scorgere un’idea di verità più frastagliata, più mobile, più tollerante e più utile: Aa.Vv., Il pensiero debole, a cura di G. Vattimo e P.A. Rovati, Milano 1988; F. Jameson, II postmoderno, Milano 1988; G. Vattimo, Filosofia al presente, Milano 1990; J.F. Lyotard, La condizione postmoderna, Milano 1991.
[7] La tendenza alla cultura della mondialità si è andata delineando, con intensità crescente, dai primi anni del dopoguerra: cf. J. Berque, Per una nuova cultura mondiale, Bari 1950; U. Laszlo, Obiettivi per l’umanità, Milano 1978; A. Nanni, Progetto mondialità, Bo­logna 1985; E. Harth, Alle soglie del Terzo Millennio. Una mente tecnologica in un cervello paleolitico, Firenze 1991.
[8] Cf. A. Nanni, L’uomo planetario nel villaggio globale, in Mondia­lità, 22 (1991) 19-20.
[9] Cf. A. Nanni, L’uomo planetario, p. 21.
[10] P. Prini, II paradosso di Icaro. La dialettica del bisogno e del deside­rio, Roma 1976, p. 30.
[11] P. Prini, Il paradosso di Icaro, pp. 27-28.
[12] P. Prini, Il paradosso di Icaro, p. 28.
[13] E. Lévinas, L’identità dell’Occidente, in Religiosità e Occidente. Riflessioni sull’identità culturale della nostra epoca, a cura di A. Krali, Torino 1992, p. 7.
[14] Cf. E. Lévinas, L’identità dell’Occidente, p. 12.
[15] Un’acre critica all’occidentalizzazione del mondo, fino al cata­strofismo, è svolta da S. Latouche, L’occidentalizzazione del mondo. Saggio sul significato, la portata e i limiti dell’informazione planetaria, Parigi 19924.

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