Dario Viganò: immagini e Vangelo /1

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Mons. Dario Edoardo Viganò, dal giugno 2015 Prefetto della Segreteria per la Comunicazione vaticana, e ora, dal marzo di quest’anno, assessore dello stesso dicastero, abbiamo posto alcune domande su come la Santa Sede, nel tempo, si è rapportata con i massmedia, in particolare con il cinema e la TV.  Pubblichiamo la prima parte dell’intervista che ci ha concesso.

Mons. Viganò, il magistero e la coscienza ecclesiale diffusa hanno affrontato l’apparire del cinema prima e della TV poi con un sostanziale assenso e curiosità. Non così nel passato con altre arti, come il teatro. Può raccontarne gli elementi maggiori?

Certamente si può parlare di assenso e curiosità, ma a cui si è accompagnata, da subito, la preoccupazione rispetto ai contenuti veicolati, alle forme della ricezione e agli effetti sugli spettatori.

Proprio l’atto che sancisce il primo incontro di un pontefice con il cinema mi pare introduca bene questo tipo di legame complesso. Le immagini in movimento di Leone XIII ripreso nel 1898 nei cortili e nei palazzi vaticani da William K.L. Dickson con la macchina da presa dell’American Mutoscope Company sono state efficacemente definite da Elena Mosconi le «prime icone mediatiche di una religiosità in via di transizione».

Il gesto benedicente che papa Pecci rivolge verso l’obiettivo è carico di significati: la benedizione è rivolta sugli operatori e sul nuovo strumento, ma, in forma simbolica, anche su coloro che sugli schermi del mondo avrebbero potuto vedere quanto ripreso.

Eppure, quelle immagini segnano immediatamente anche la presa d’atto del duplice volto che il cinema poteva presentare per la Chiesa nel nuovo contesto mediale: strumento d’apostolato capace di esprimere un’efficacia comunicativa mai raggiunta con altri mezzi, ma, al contempo, veicolo di incontrollabili processi di desacralizzazione e secolarizzazione.

I più recenti studi negli archivi vaticani svelano questi passaggi: la Curia vaticana si trovò subito a dover fare i conti con gli interessi delle società cinematografiche che accendevano la speculazione su immagini commercialmente molto redditizie, ma anche con luoghi di visione e palinsesti che accostavano l’immagine del papa ad ambienti profani o a spettacoli mondani.

Pecci – Pacelli – Roncalli

È la scoperta della natura proteiforme del cinema che apparirà sempre più come fenomeno di massa dai risvolti artistici, culturali, sociali, economici, politici. Si comprende allora perché la Chiesa abbia elaborato una doppia strategia di approccio verso il cinema, ma anche verso la televisione: da una parte, la legittimazione e il sostegno ai nuovi media, pensati, soprattutto, come strumenti pedagogici, dall’altra, la costante preoccupazione educativa e morale.

Certamente, nel tempo, ci sono state anche significative evoluzioni. Nel 1955 i due Discorsi sul film ideale di Pio XII resero chiaro il graduale avanzare di più marcate esigenze di dialogo e di apertura: con quei pronunciamenti Pacelli intese fornire alla coscienza del cristiano un quadro pastorale e dottrinale sistematico che gli consentisse di individuare egli stesso lo spartiacque tra il cinema capace di favorire la crescita dell’uomo e il cinema che rischia di compromettere lo sviluppo spirituale.

A imprimere tuttavia una decisiva svolta al lento e complesso confronto dialettico della Chiesa con gli strumenti di comunicazione sarà l’avvento al soglio pontificio di Giovanni XXIII.

Al di là delle radicali innovazioni che susciterà l’indizione inaspettata del Concilio, è la figura stessa di Roncalli a facilitare i cambiamenti nel rapporto tra Chiesa e media. Allo stile ieratico di Pio XII, si contrappone quello di Giovanni XXIII improntato all’affabilità e all’umanità, capace di veicolare, anche attraverso i mass media, una diversa immagine del pontefice che punta a far leva su una comunicazione non più diretta ai soli fedeli, ma mirata a coinvolgere anche il mondo laico nel suo insieme.

Ed è poi certamente l’evento stesso del Concilio a inaugurare una nuova stagione nel rapporto della Chiesa con i media. Se Inter mirifica fu il primo decreto a fare i conti con lo sviluppo esponenziale degli strumenti tecnologici e, dunque, con la nuova comunicazione globale, l’intero processo conciliare può essere letto come un cammino di maturazione dei padri conciliari nella consapevolezza di quanto rappresentino, dal punto di vista sociale, i media di massa come il cinema e la televisione.

Un’intensa opera di discernimento sul fenomeno complessivo della comunicazione che avrà il suo sbocco più maturo nel post-Concilio con l’istruzione pastorale Communio et progressio (1971), che rimodula le indicazioni magisteriali alla luce dell’insegnamento conciliare: nella Chiesa non prevale più l’aspetto censorio o strumentale verso i media, ma viene riconosciuto rilievo predominante alla questione della comunicazione all’interno dell’azione pastorale della Chiesa proprio discernendo il ruolo dei media nella costruzione di modelli sociali e nel plasmare gerarchie di pensiero.

Media e mistica

Una sfida che sarà raccolta con ancor più vigore da Giovanni Paolo II: già nella sua prima enciclica Redemptor hominis del 1979, sull’architrave dell’unità antropologica e teologica in Gesù, Wojtyla afferma la necessità di fronteggiare un’enorme sfida che può essere vinta solo dopo un’attenta analisi della contemporaneità e l’acquisizione di tutte le competenze sociologiche e comunicazionali necessarie: rispondere all’interrogativo del come le generazioni dell’era post-moderna, permeate da una cultura dove le media policy rivestono un ruolo capitale nella formazione dell’opinione pubblica, possano vivere il Vangelo.

Ed è interessante notare come oggi papa Francesco, col suo proprio stile, riprenda e allarghi il discorso: lo esprime chiaramente nell’Evangelii gaudium nel momento in cui afferma che oggi, quando le reti e gli strumenti della comunicazione umana hanno raggiunto sviluppi inauditi, il cristiano deve sentire la sfida di scoprire e trasmettere la “mistica” di vivere insieme, di mescolarsi, di incontrarsi, di prendersi in braccio, di appoggiarsi, di partecipare a questa marea un po’ caotica che può trasformarsi in una vera esperienza di fraternità, in una carovana solidale, in un santo pellegrinaggio. È l’idea di una comunicazione come “prossimità”: con questo stile le maggiori possibilità di comunicazione si tradurranno in maggiori possibilità di incontro e di solidarietà tra tutti.

Cinema e storia della cultura

– Lei sostiene che non sia possibile una riflessione sul cinema se non collocandola nei più ampi processi culturali. Può spiegare la sua posizione?

La veloce sintesi che ho appena tracciato mi pare possa fornire alcune prime indicazioni: la riflessione sul cinema va certamente oltre l’ambito estetico, artistico o massmediale per incrociare trasversalmente diversi processi di costruzione culturale.

In effetti, quando, nel 2006, curai, con Ruggero Eugeni, la collana in tre volumi, editi dalla Fondazione Ente dello Spettacolo, Attraverso lo schermo. Cinema e cultura cattolica in Italia, ci muovemmo sulla base di una costatazione tanto semplice nella sua evidenza, quanto difficile nella sua traduzione in un orizzonte di ricerca: negli ultimi quindici anni circa era emersa con sempre maggiore chiarezza l’impossibilità di una storia del cinema separata dall’orizzonte di una storia della cultura.

Ciò che stava venendo in luce nel panorama di studi nazionale e internazionale, in cantieri di ricerca anche molto distanti tra loro per metodologia e presupposti euristici, era che il mezzo cinematografico, fin dalla sua prima apparizione nel panorama mediatico, era stato capace di autoaffemarsi come fonte indiscussa di radicale ridefinizione dell’immaginario collettivo, dei valori individuali e sociali, delle categorie conoscitive e interpretative del reale.

Nella sua evoluzione storica il cinema appariva come il medium che forse più di altri aveva contribuito a ri-orientare i tratti delle culture ad esso preesistenti, a segnare il passo della loro successiva evoluzione e a costituirsi per questo, ancora oggi, come ambito di osservazione privilegiato a partire dal quale è anche sempre possibile cogliere gli elementi salienti e generali della più recente storia culturale.

Sulla base di questi presupposti lanciavamo la nostra sfida conoscitiva inevitabilmente ambiziosa: quella di ricostruire la complessa e articolata vicenda del rapporto tra la Chiesa e il cinema in Italia, rileggendola in virtù di questa non più eludibile congiunzione tra storia del cinema e storia della cultura.

Modelli comunicativi e consumo

Quel nostro laboratorio storiografico si inseriva sulla scia di altri cantieri di ricerca che, da qualche anno, si erano attivati in Italia su questi temi (si pensi, ad esempio, ai ricercatori raccoltisi con Francesco Casetti attorno alla rivista Comunicazioni Sociali dell’Università Cattolica di Milano nei primi anni Novanta), rappresentando una sorta di risposta italiana a quell’ambito di studi che, nel contesto anglo-americano, prende il nome di Religion and Film Studies. Non a caso, in Nord America e in Gran Bretagna, il modello consolidato dal quale questa disciplina ha preso avvio è quello dei Cultural Studies che, fin dai loro esordi negli anni Sessanta, hanno posto un’attenzione privilegiata alla revisione dei modelli comunicativi e, in particolare, al consumo mediale.

Proprio il continuo riferimento alla realtà sociale nella quale vivono i soggetti che producono e consumano cultura, unitamente ad un approccio più propriamente comunicativo, hanno reso i Cultural Studies uno dei più interessanti approcci teorici al sistema dei media.

In questi ultimi dieci anni in Italia questo filone di studi ha fatto ulteriori e significativi passi in avanti consolidandosi in un più articolato ambito di ricerca. Tra i frutti più maturi di questi sviluppi è da segnalare il progetto di ricerca, nato nell’ambito dei PRIN 2012, curato da Tomaso Subini, docente di Storia e critica del cinema all’Università degli Studi di Milano, teso a studiare il ruolo del cinema nei processi di negoziazione dei conflitti socio-religiosi in Italia tra gli anni ’40 e gli anni ’70.

Per la prima volta, in modo sistematico rispetto a questi temi, ci si è posti come obiettivo metodologico lo scavo di nuove fonti d’archivio e secondo una prospettiva che ha mirato programmaticamente a favorire un approccio interdisciplinare ai fenomeni di studio. Un progetto che ha coinvolto una cinquantina di ricercatori italiani e di altre nazioni europee e che ha trovato anche un suo sviluppo innovativo nel varo della rivista specialistica Schermi. Storie e culture del cinema e dei media in Italia e nella costruzione di una banca dati online nella quale sono stati digitalizzati e messi a disposizione della comunità scientifica circa 10mila documenti sul tema provenienti dai numerosi archivi italiani.

Sbocco di questa densa attività di ricerca è stato il volume Catholicism and Cinema. Modernization and Modernity, da poco pubblicato per Mimesis International, che Subini ha scritto con Gianluca della Maggiore. Il libro è interessante perché mi pare ben rappresenti una sintesi dell’evoluzione delle ricerche degli ultimi anni essendo frutto di un dialogo interdisciplinare e di una convergenza tra approcci diversi: Della Maggiore è, infatti, uno storico dell’età contemporanea che, negli ultimi anni, ha scavato a fondo le carte dell’Archivio Segreto Vaticano contribuendo a ridisegnare le coordinate entro cui leggere l’azione vaticana verso il cinema tra le due guerre facendo emergere con profondità prima sconosciuta le implicazioni internazionali delle politiche vaticane e i loro riflessi sul contesto italiano.

Cinema e cattolicesimo

Lo studio del rapporto tra cattolicesimo e cinema è dunque uscito da una nicchia di ricerche molto specialistiche, per divenire un argomento attraverso il quale oggi storici dell’età contemporanea, storici del cinema, sociologi, antropologi, si confrontano in campo aperto, affinando sempre più i parametri d’indagine e i paradigmi tassonomici della ricerca.

Si sta arrivando così a definire un contesto di ricerca che mostra delle caratteristiche originali che lo differenziano, sotto molti aspetti, dall’esperienza inglese e statunitense. Parafrasando la celebre espressione dello storico Karl Polany, si potrebbe dire che cattolicesimo e cinema rappresentano uno dei temi privilegiati attraverso cui studiosi di discipline diverse oggi provano a misurare la portata e le caratteristiche della “grande trasformazione” (politica, economica, sociale, culturale) del XX secolo. Si avverte, cioè, un’estensione degli ambiti di osservazione che vanno anche oltre la storia della cultura (o della cultura visuale), per fare del rapporto Chiesa-cinema una chiave ermeneutica attraverso cui misurare la reazione del cattolicesimo italiano alle grandi trasformazioni novecentesche in campo politico, economico, sociale o per provare a comprendere in tutte le sue complesse sfumature la reazione della Chiesa al “potere” delle immagini in movimento.

Biblia pauperum e “cinema dei produttori”

– Il racconto di storie visive è stato da subito una narrazione difficile da contenere in contesti confessionali-dogmatici. Contrariamente ai processi di disciplinamento della carta stampata, l’apertura “ecumenica” al visivo da cosa è stata motivata?

È noto che nella storia del cattolicesimo il visivo è divenuto molto presto uno degli elementi cardine della pedagogia religiosa. Pensiamo a papa Gregorio Magno e al suo utilizzo dell’immagine come Biblia pauperum capace di delineare, da allora in poi, nell’Occidente cristiano una legittimazione didattica delle immagini.

Ancor prima dell’avvento della stampa poi i predicatori in volgare furono sapienti maestri nell’utilizzo di tecniche capaci di tradurre le parole in immagini e le immagini in parole interpretando i tesori visivi di chiese e palazzi quasi come esperienze multimediali ante litteram. In questo senso si può dire che l’unione di figurazione e predicazione è stata per secoli il terreno di decodifica dell’esperienza religiosa.

Il cinema ha introdotto sostanziali novità aprendo ad una cultura visuale che ha costretto anche il cattolicesimo a calibrare nuove traiettorie.

Gli anni del cinema delle origini costituirono un grande terreno di sperimentazione per la pedagogia religiosa: l’utilizzo del visivo rientrava all’interno di articolati programmi di catechesi che sfruttavano anche il potere di richiamo delle nuove immagini in movimento.

Nei primi anni del Novecento nelle chiese si poteva così assistere a conferenze visive che, attingendo alla grande tradizione figurativa sui personaggi e storie bibliche e sui santi, rispondevano a un’organizzazione testuale complessa, a metà strada tra la prestazione oratoria del predicatore e la riproduzione meccanica dei materiali visivi nell’ambito di una proposta a regime misto del consumo delle immagini.

Le “proiezioni luminose”, sovente allestite nelle chiese, erano cioè inserite in un palinsesto che, in linea con i canoni del primo cinema delle attrazioni, proponeva un equilibrio calcolato tra materiali diversi (immagini fisse, immagini in movimento, performance del conferenziere), tentando un aggiornamento pedagogico dell’azione religiosa in funzione audiovisiva. Si comprende, dunque, perché, non appena il passaggio al cinema istituzionale tagliò alla radice la possibilità di un’efficace mediazione ecclesiastica sull’esperienza cinematografica, la Chiesa decidesse per un cambio di strategia. A ben vedere, infatti, il “cinema dei produttori” veniva a mettere in discussione proprio l’elemento su cui si era fondato il rapporto tra la Chiesa e le immagini: ovvero la possibilità di agire con efficacia sui contenuti visuali e sui modi della loro ricezione.

All’inizio del secondo decennio del Novecento, con l’avvento del lungometraggio, e dunque col progressivo sviluppo di strategie testuali di racconto e di messa in scena sempre più autosufficienti e codificate e di sviluppi industriali di massa difficilmente controllabili, l’autorità ecclesiastica, valutata l’inattuabilità della prosecuzione di un condizionamento delle modalità dell’offerta cinematografica vietò perentoriamente qualsiasi permeabilità tra spazi sacri e spazi della visione e si concentrò su strategie di analisi e controllo che le permettessero di influenzare e discutere sui contenuti del prodotto filmico.

Narrazione e visione

Da qui si è avviato il lungo, e spesso impervio, pellegrinaggio della riflessione intellettuale, magisteriale e teologica che ha portato, col tempo, alla valorizzazione di un certo tipo di cultura visiva e cinematografica: il cinema che interpella la coscienza dei credenti è quello che apre alle domande, che intraprende cammini tra le sporgenze dell’esistenza mostrandone le grondanti ferite della coscienza. Il cinema arte, dunque, e non il cinema ideologico o il perturbante effluvio di immagini che non trovano collocazione se non nella pornografia.

Come ricordavo nel mio volume Etica del cinema, la responsabilità di un sapere attraverso un vedere risiede nello sguardo autoriale («etica della messa in scena» di André Bazin) su quanto rappresentato (certamente l’etica nel cinema) e soprattutto sulle modalità con cui il profilmico diviene materiale filmico (etica del cinema).

Rifacendosi al pensiero del filosofo Paul Ricœur, si può cioè dire che, come una tragedia, un romanzo o una poesia, il film intreccia narrativamente una proposta di mondo che offre alla “visione” di tutti gli spettatori possibili, al di là dei vincoli spazio-temporali della sua stessa produzione. La distanza che mi separa dal film, allora, diventa occasione per un processo di appropriazione, che fa della mia stessa soggettività un progetto e mai un dato: un progetto ermeneutico in senso proprio.

L’atto di appropriazione del testo filmico diviene così un ri-comprendersi e un ri-conoscersi: conoscere di sé qualcosa di nuovo, una possibilità nuova, una dimensione fino ad allora sconosciuta.


Dario Viganò: immagini e Vangelo /2

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