Davide Assael: sulla fratellanza

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fratellanza

Davide Assael è ebreo italiano, fondatore e presidente dell’associazione lech lechà, docente di filosofia e scrittore. Con la Fondazione Centro Studi Campostrini ha pubblicato due volumi dedicati alla Fratellanza nella tradizione biblica: rispettivamente “Giacobbe e Esaù” vol. I e “Caino e Abele” vol. II.

  • Professor Assael, per lei, chi è il fratello?

La domanda “Chi è mio fratello?” sta all’inizio della mia ricerca. È una domanda a cui non è facilissimo, in realtà, dare una risposta, perché, più ci si pensa, più emerge quanto siano vari i contesti in cui si può utilizzare il termine fratello: nostro fratello è certamente colui con cui abbiamo un legame di sangue, ma, nel momento in cui diamo questa definizione, subito pensiamo, ad esempio, ad un fratello adottivo.

Possiamo quindi chiamare fratello anche un amico: non a caso, nel linguaggio colloquiale diciamo “è un mio amico fraterno”. Dunque, il campo semantico della parola continua a estendersi: da fratello di sangue a fratello adottivo, ad amico fraterno. C’è almeno un altro livello di estensione di questo termine: perché possiamo senz’altro considerare fratelli anche tutti coloro con cui abbiamo condiviso un’esperienza particolarmente intensa.

Ovviamente, quando dico fratello intendo fratelli e sorelle.

Ho cercato pertanto una definizione che tenesse insieme tutti i campi di applicazione del termine. Alla fine, ho individuato quella che può apparire la più semplice: fratello è colui con cui io entro semplicemente in relazione. Mio fratello è colui con cui intrattengo comunque vincoli di relazione, nella mia vita, oggi.

Ho potuto arrivare a tale definizione dalla stessa lingua ebraica, ovviamente a partire dalla Torah, dal Pentateuco. È il testo che ho ritenuto privilegiato per indagare il concetto. In fondo il Pentateuco è una storia di fratelli: Caino e Abele, Isacco e Ismaele, Giacobbe e Esaù, Giuseppe e i suoi fratelli, Mosè e Aronne.

La Torah è un luogo di elezione – fra i tanti possibili – per cercare la definizione del concetto di fratellanza.

Ebbene in ebraico “fratello” si pronuncia ‘àch, mentre “altro” si dice ‘achèr: la radice è la stessa. Non solo: è interessante notare come il termine che indica una relazione tra àch e achèr sia ‘achariùt: con la stessa radice la lingua ebraica esprime il vincolo della relazione, la responsabilità che lega l’uno all’altro. Dunque, per fratellanza intendo la relazione costitutiva dell’uno con l’altro: il vincolo di responsabilità che lega, dentro e oltre i legami di sangue. Dalla Torah – per me – questo risulta molto chiaro.

  • Perché si sta occupando proprio di questa tema della fratellanza?

È importante per me rispondere a questa domanda, perché ha un senso pure rispetto all’enciclica di papa Francesco Fratelli tutti di cui – a fine intervista – qualcosa dirò. Io penso che da diversi anni ormai, in Europa e in tutto l’Occidente, stiamo assistendo ad una vera e propria crisi della categoria della fratellanza: non intendo in termini morali o moralistici, bensì propriamente politici.

A mio modo di vedere, stiamo assistendo ad una crisi delle identità – ossia degli elementi collanti della collettività umana – e proprio per tale ragione non siamo più in grado di riconoscere chi sia nostro fratello. Ciò porta alla disgregazione sociale.

Penso pertanto che uno dei compiti fondamentali del nostro tempo – e degli anni a venire – sia elaborare un modello di fratellanza che tenga insieme le differenze che abitano il nostro mondo, a partire dal territorio in cui ciascuno di noi vive.

La difficile fratellanza
  • Perché Giacobbe e Esaù e Caino e Abele, in questo ordine?

Solo ora penso a come il linguaggio consuetudinario abbia invertito l’ordine della primogenitura in un caso e mantenuto nell’altro. Forse anche questo ha un senso: è chiaro che col passaggio da Giacobbe a Esaù si consuma – nella Torah – qualcosa che ancora con Caino e Abele non c’è. Con Giacobbe e Esaù entriamo in un contesto che possiamo definire di identità biblica. L’identità biblica si costruisce infatti dall’etica del figlio minore. Perciò viene prima Giacobbe rispetto a Esaù.

Con Caino e Abele siamo invece in un ambito che potremmo definire – volutamente – universale. In Caino e Abele non si “descrive” la nascita dell’identità biblica, bensì del genere umano in quanto tale: vi si riscontra una logica – diciamo naturale – in cui la primogenitura resta in capo al fratello maggiore.

Mentre la grande rottura introdotta dall’etica biblica è proprio questa: la primogenitura passa nelle mani del fratello minore, con tutte le conseguenze del caso, perché si va a stabilire un modello di fratellanza non più costruito sulla gerarchia e la genealogia. Il momento in cui questo avviene è creativo – potremmo dire – di un nuovo modello politico, fondato appunto sull’etica del figlio minore, sulla possibile preminenza del minore sul maggiore.

Mi sono tuttavia occupato dapprima di Giacobbe ed Esaù, piuttosto che di Caino e Abele, più che per una ragione teoretica, per le contingenze delle mie ricerche sulle origini culturali dell’antisemitismo.

Nel rapporto tra Giacobbe ed Esaù – con Giacobbe che diventa Israele a seguito della lotta con l’angelo quale paradigma dell’identità ebraica – si manifestano le prime pulsioni culturali antisemite. Esaù – così dice la Torah – manifesta pulsioni aggressive, persino omicide, verso il fratello minore che ora si chiama Israele, poiché gli è stata sottratta la benedizione paterna.

Come ho anticipato, sta proprio nel gesto di sottrazione compiuto dal figlio minore rispetto al fratello maggiore che va a delinearsi l’etica ebraica e l’etica biblica tutta. L’aggressività nasce proprio per reazione a quel gesto originario di sottrazione. Ero interessato a indagare scrupolosamente questo momento, per me culturalmente originario dell’antisemitismo.

Devo precisare, a tal proposito, che il mio approccio – anche quando entro nel testo biblico – resta eminentemente filosofico, secondo la mia formazione. Il mio intento è definire dei concetti: in questo caso, appunto, quello di fratellanza. Più sono entrato nel racconto di Giacobbe ed Esaù – confrontandomi rispettivamente con le interpretazioni ebraiche e con le interpretazioni cristiane – più si è accresciuta in me l’esigenza di giungere ad una definizione del concetto di fratellanza, per la contemporaneità.

Tentando di abbozzare una risposta alla domanda sull’antisemitismo – come sempre succede in una ricerca – mi sono trovato di fronte ad una nuova domanda, ancora più esplicita: che cos’è la fratellanza? Ho proceduto quindi a ritroso nel testo biblico sino a Caino e Abele, perché questa è evidentemente la prima coppia di fratelli che si incontra nel testo della Torah.

Le analogie tra la storia di Caino e Abele e quella di Giacobbe e Esaù sono ovviamente moltissime, insieme alle differenze e agli esiti: i punti di partenza sono gli stessi; ciò che cambia – e molto – è il finale.

  • Qual è la difficoltà di essere fratelli, che lei rileva dai testi biblici?

Le due storie di Giacobbe e Esaù e Caino e Abele, si pongono in momenti diversi dello sviluppo umano, così come voluto dal testo biblico. Nella storia di Giacobbe e Esaù ci sono elementi che non troviamo nella storia di Caino e Abele. Ma il motivo del dissenso tra i fratelli – seppur mutando di segno – rimane, a mio avviso, lo stesso: tra fratelli incorrono inevitabilmente invidie e gelosie.

Nel caso di Giacobbe e Esaù tutto questo viene fatto passare attraverso la questione della primogenitura. Ma la domanda di fondo è tuttavia: “Chi è il preferito di mamma e papà?”. Chi eredita la primogenitura, è considerato, in fondo, il preferito.

Nel caso di Caino e Abele non è, di per sé, in questione la primogenitura, perché, nel racconto, ci troviamo ad un livello più semplice dell’organizzazione politica della società. Però la domanda di senso resta la stessa: “Chi è il preferito dei genitori?”. Nel racconto – come sappiamo – entra la questione delle offerte o dei sacrifici.

Quando la preferenza per le offerte di Abele viene attribuita da Caino alla responsabilità del fratello, scattano i meccanismi di contrasto. La coppia “Caino e Abele” è pertanto paradigmatica dei rapporti di fratellanza. In ebraico si usa lo stesso termine per dire invidia e gelosia: qin’àh ha la stessa radice di Qàyin, Caino. L’invidia e la gelosia sono strettamente correlate ai rapporti di fratellanza. La Qin’àh è la mina che fa scoppiare la relazione.

Giacobbe è colui che riesce, in qualche modo, sia pure sempre in maniera incompleta – e tutta la tradizione del commento lo dice chiaramente – a conciliarsi con il fratello Esaù, dopo i vent’anni di esilio dalla terra passati presso lo zio Labano. Giacobbe torna nella sua terra e si inchina sette volte – particolare non insignificante – in segno di riconciliazione col fratello. Infine, lo abbraccia. Giacobbe riesce a fare ciò che Abele, invece, non riesce a fare. Abele – nel testo biblico – non riesce a rimediare all’invidia del fratello, non ci prova neppure, non trova le parole: Giacobbe sì.

Ma ripeto: la questione di fondo è sempre la qin’àh, l’invidia, la gelosia, la domanda: “Chi è il preferito?” oppure: “Chi è il primo?”. Questa è la domanda che rovina le relazioni e che rischia di farle naufragare, come sempre.

Vincolo e responsabilità
  • Capisco che nella sua lettura non c’è un fratello assolutamente “buono” e uno assolutamente “cattivo”.

Questo è un punto decisivo per me. In termini descrittivi – non in termini moralistici – che cosa sancisce che io sia in relazione con te piuttosto che con un altro? Di fatto avviene che io avverta con te vincoli di responsabilità maggiori rispetto ad un’altra persona. Mi spiego. Io sono naturalmente in relazione con i miei studenti, non con gli studenti della scuola a fianco.

Certo, anche con quelli, in qualche modo, ho un vincolo di relazione, ma è ovvio che la mia responsabilità maggiore ricade su chi ho di fronte. Il vincolo e il grado di responsabilità mi pongono in relazione tanto maggiore quanto minore.

Ecco, se adottiamo questa prospettiva, allora è difficile attribuire in maniera netta la responsabilità della “colpa” ad uno dei due poli della relazione, quindi ad uno dei due fratelli, come abbiamo peraltro comunemente fatto in occidente – per comodità etica – scandendo precisamente che cosa sia il bene e cosa sia il male e di chi sia la colpa.

Nella tradizione ebraica Abele viene definito ad esempio il “muto”. Nel capitolo quarto del libro della Genesi, infatti, non c’è mai una parola di Abele. Viene da sé chiedersi: “Che cosa ha fatto Abele per cercare di spiegare a Caino come avrebbe dovuto portare le sue offerte perché fossero gradite, ovvero – fuor di metafora – come avrebbe potuto e dovuto condurre bene la sua vita? Cosa ha fatto Abele per scongiurare l’esito nefasto della relazione con suo fratello?”. Niente: Abele non ha detto una parola, a differenza di quanto ha fatto Giacobbe.  La responsabilità della relazione è sempre di due, non solo di uno dei due.

Nei conflitti non si capisce mai chi ha dato veramente inizio. Di chi è dunque la responsabilità o la “colpa”? In tutti i conflitti relazionali queste domande non hanno mai risposte certe. Bisogna allora prendere semplicemente coscienza della crisi di una relazione. Le due unità – i due poli della relazione – non sono mai totalmente indipendenti l’uno dall’altro.

È sempre molto probabile che l’azione dell’un polo non sia altro che la reazione all’azione dell’altro. Ecco perché è sempre molto difficile stabilire una responsabilità, specie assoluta. Forse è comodo – molto comodo – presumerlo, perché aiuta a orientarsi nella complessità, ma poi si sconta sempre un prezzo molto alto in termini di invidia e di gelosia, ossia di quella qin’àh che invece bisogna in tutti modi cercare di far decrescere.

Il limite
  • Nei suoi libri tra le coppie di fratelli affiora il concetto del “limite”: cosa vuol dire?

Sì, per me è molto importante introdurre il concetto di limite nel concetto di fratellanza. Mi pongo ora su un versante prettamente filosofico. In Occidente siamo, per ragioni culturali, inclini a pensare il limite come ad un muro che separa e che quindi ostacola la relazione. Il nostro immaginario si indirizza al tentativo di togliere questo muro, di abbattere il muro e di togliere il limite.

Questo tentativo ha chiaramente un suo senso, una sua idealità. Eppure, io sostengo che solo il limite è ciò che in fondo garantisce una vera relazione, perché la relazione è sempre fra due, come sto dicendo. L’immagine della coppia di fratelli è la metafora di una relazione molto densa, pregnante, complessa. I fratelli restano sempre due.

Se tolgo fra loro ogni distinzione, quale relazione resta? Il rischio è la reductio ad unum: uno fagocita l’altro. Il limite – se può essere un reale ostacolo alla relazione fra le parti – è pure la condizione che garantisce la stessa. Ecco perché io insisto sul ridare dignità al limite, perché solo un limite può garantire in fondo il massimo della relazione.

Penso che dobbiamo preoccuparci quando non ci sono più limiti fra le parti, perché vuol dire che ci troviamo in una situazione che potremmo definire – usando una parola spesso usata nel contesto ebraico – assimilazionista, in cui l’identità delle parti in relazione si affievolisce, sino a scomparire. Questo è fuorviante e pericoloso per le società contemporanee.

Ecco, il mio tentativo è quello di costruire un modello filosofico di fratellanza a partire dal concetto di limite, senz’altro debitore della tradizione ebraica, ma sempre in considerazione delle critiche alla stessa idea di limite portate dalla cultura occidentale, perché effettivamente il limite non deve essere inteso come qualcosa di fissato per sempre.

Le contingenze, le dinamiche, le sensibilità storiche mutano. Inevitabilmente tornano invidie e di gelosie. Dobbiamo essere sempre pronti a rimettere in discussione i limiti precedentemente apposti, mantenendo tuttavia il limite quale orizzonte decisivo per la migliore delle relazioni possibili.

  • Attraverso il significato del limite, lei introduce le differenze tra un modello di fratellanza ebraica e un modello di fratellanza cristiana. Può spiegare?

I due modelli di fratellanza richiamati vengono appunto dal confronto tra il commento ebraico e il commento cristiano delle Scritture. Il commento ebraico insiste molto nel mantenere la distinzione fra i fratelli, mentre il commento cristiano insiste sul superamento della distinzione.

Il commento di Paolo al riguardo è molto interessante: Paolo attraverso l’etica ebraica del figlio minore – quindi a partire dallo stesso superamento delle genealogie e delle gerarchie – recupera la figura di Esaù, il fratello maggiore, apparentemente sacrificato. Perché? Perché tende a costruire una comunità e quindi una società egualitaria. In una società egualitaria, anche colui che è stato scavalcato per affermarla, cioè il fratello maggiore, deve essere recuperato e pienamente integrato.

I commenti, nella loro immensa varietà, spingono dunque in una doppia direzione: il commento ebraico nel mantenimento della distinzione fra i fratelli, ma naturalmente nella necessità di coordinarla e di trovare un equilibrio all’interno della distinzione, non certo in una versione di dominio dell’uno sull’altro; mentre il commento cristiano spinge nel verso della radicalizzazione della stessa prospettiva ebraica, ossia nel verso della fondazione di una fratellanza e quindi di una società universale e totalmente egualitaria.

Qual è il modello più corretto? Io dico: nessuno dei due e tutti e due al tempo stesso. Mi aggrada – in senso critico – far giocare un modello con l’altro. Il modello ebraico costituisce un monito per il contesto cristiano, quasi a dire: “attenzione, il vostro modello di fratellanza non si riduca ad una logica di tipo assimilazionista”.

Questo penso sia un problema che – da un punto di vista teologico oltre che politico – abbia dilaniato la coscienza cristiana. La missionarietà ha dovuto duramente confrontarsi con questo: il cruccio è se l’azione missionaria non sia stata imposta in fondo con una logica assimilazionista. Penso che questa sia veramente una questione che dilania il cristianesimo, che sicuramente parte dall’intenzione della costruzione della fratellanza umana per ritrovarsi, anche inconsapevolmente, anche involontariamente, ad affermare un modello che cancella l’altro. È chiaramente un tema enorme.

Ma, d’altro canto, il modello cristiano costituisce e deve costituire un monito per quello ebraico, affinché il mantenimento della distinzione – il limite – non si tramuti in una deriva patologica, in un muro impenetrabile di separazione dall’altro, cosa che altresì tormenta, per altri versi – appunto e da sempre – la coscienza ebraica.

Ricordo, a tale proposito, che, quando furono aperti i ghetti in Europa a seguito dell’avanzata di Napoleone, molti importanti rabbini si opposero a una tale apertura proprio perché temevano l’assimilazione: eppure il ghetto era un luogo di tremenda tragedia umana!

Territori
  • Lei lega il tema della fratellanza a quello della “terra”: in che modo?

Sì, penso che pure il tema della terra rientri nella grande questione dei modelli di fratellanza. La terra, appunto, è un’idea di fratellanza fondata sul possesso di un dato territorio, quindi di una terra attribuita ad un popolo.

È un caso emblematico della declinazione del concetto di fratellanza. Il cristianesimo e la coscienza occidentale moderna ha ritenuto che la terra sia un limite dell’ideale di fratellanza, sino al punto di pensare alla sua rimozione. Ci si chiede: “la fratellanza può valere solo fra coloro che abitano una data terra?”.

La risposta cristiana è chiaramente: “no”.  Il modello cristiano proclama una fratellanza universale al di là di ogni confine territoriale. L’ebraismo insiste altresì sulla necessità di fondare una fratellanza ma a partire da una propria terra, proprio perché pensa a quel modello di fratellanza che viene dalla tradizione biblica, un modello da rispettare, un modello che non può essere certamente imposto ad altri, ma a cui altri possono ispirarsi.

Se si dà prova, nella propria terra, di riuscire a costruire una società in cui lo straniero abbia gli stessi diritti di chi vi nasce, si può offrire un modello a cui altre genti, in altre terre, possono ispirarsi. L’impegno è mostrare che effettivamente questo tipo di società esiste ed è più giusta.

Ecco, dunque, il grande tema della responsabilità storica di Israele, a partire dalla Torah. La domanda biblica ad Israele è sempre: “hai la tua terra, ma come la stai governando?”, come a dire: “se la governi male, non è neppure giusto che ti appartenga, perché dal tuo abitarla viene non viene l’essere il lume delle nazioni.

Quando comunemente si afferma che Israele è l’unica democrazia del Medio Oriente, si opera chiaramente una semplificazione, che tuttavia ha un suo senso rispetto al legame intrinseco tra etica e terra. L’etica ebraica tende a concretizzarsi in uno specifico territorio che è quello che la “sorte” ha assegnato.

La vicenda ebraica si è realizzata in un dato territorio – in una data terra – e non ha alcun diritto di espandersi ad altri territori. Ha semmai la possibilità di offrirsi quale modello esemplare. E qui si torna alla diversità cristiana. L’obiezione ad Israele viene da sé: “l’ebraismo sta mantenendo una distinzione fra ebrei e non ebrei, tra israeliani e non israeliani, fra chi abita la terra e chi non la abita e non la può abitare”.

È difatti vero che lo straniero per la Torah – semplificando – ha gli stessi diritti dell’ebreo nella sua terra, ma è pur vero che ci sono dei passaggi – ovvero dei limiti – che stabiliscono l’ingresso nella stessa comunità o società.

Che cosa significa dunque la terra nel concetto di fratellanza? La terra è un ostacolo o la condizione di possibilità della fratellanza? Siamo all’interno della dialettica fra una prospettiva dualistica e una monista. Entrambe le prospettive hanno le proprie criticità e virtù. Io credo che vada presa piena coscienza delle une e delle altre, ciascuno dentro di sé e dentro il proprio ambito, non per mutarsi, ma per vivere al meglio, con piena consapevolezza dei rischi.

  • Lei distingue tra antigiudaismo e antisemitismo: in che modo?

La distinzione tra antigiudaismo e antisemitismo è evidentemente importante. Si sono date due forme di odio nei confronti degli ebrei, storicamente parlando. Una è quella che deriva dai grandi sguardi universalistici sulla storia dettati dal cristianesimo. Secondo i cristiani, gli ebrei hanno compiuto un tragitto, ma non l’hanno portato sino in fondo: da ciò nasce il “rimprovero” di non aver portato alle estreme conseguenze i presupposti etici del percorso della stessa identità ebraica.

Il cristianesimo rimprovera, appunto, all’ebraismo di aver mantenuto il limite che distingue. Il presupposto etico è comune a ebraismo e cristianesimo: cambia quanto questo sia stato portato in avanti, sino a quale limite o sino a quale annullamento del limite. Direi che in questo modo si è espresso l’antigiudaismo classico, che si è riversato poi anche sulla questione della terra e sulla questione dello Stato di Israele.

Mentre l’antisemitismo ha di per sé un’altra origine, quella che hanno incarnato i nazisti al massimo grado. L’antisemitismo pone, o meglio, impone il rimedio al passaggio fondamentale della fondazione identitaria ebraica, ossia alla sottrazione della primogenitura. L’antisemitismo è l’odio di Esaù nei confronti del fratello Giacobbe. È la vendetta sanguinaria di Esaù nei confronti di Giacobbe. Secondo questo pensiero il sacrificato della storia è Esaù, colui che, dall’inizio del mondo, per “legge naturale” aveva diritto alla primogenitura, quindi al comando sulla terra e sui popoli.

Esaù sarebbe dunque stato sacrificato in nome dell’affermazione della logica egualitaria, ebraica. Perciò l’antisemitismo nazista si propone di ripristinare la gerarchia originaria, rubata da Giacobbe in maniera meschina. Da qui l’immagine deforme dell’astuto ebreo che inganna tutti per sottrarre. Questa è l’iconografia – come sappiamo – su cui ha giocato la propaganda nazista, e, purtroppo, non solo.

Vero è che questi due corni – antigiudaismo e antisemitismo – si fondono e si confondono in diversi momenti storici, ma, in realtà, si tratta di due opposti concettuali, di due critiche che vanno in direzioni opposte: la prima mira a concludere un percorso, l’altra vuole ripristinare un’origine perduta.  Per un tragico gioco di coincidenza degli opposti, questi si sono incontrati dando luogo ai disastri immensi che sappiamo.

La via della modernità
  • La modernità, secondo lei, quale strada ha preso al riguardo?

È molto interessante considerare come la modernità si sia dedicata alle coppie dei fratelli biblici: Caino e Abele, Giacobbe e Esaù. Nel mio libro su Caino e Abele faccio notare come il paradigma della fratellanza sia stato molto sviluppato, nella modernità, dal teatro: ad esempio da Metastasio, Alfieri, Byron. Il teatro è, per sua natura, interessato al tema del doppio, dello specchio, perché il teatro, in fondo, è una duplicazione della realtà.

Perciò ha avuto l’intuizione di individuare nella prima coppia biblica di fratelli l’origine di tutti i temi teatrali. In che modo? Mettendo in crisi le rigidità dei modelli antichi, ossia ponendo radicalmente in discussione il tema della colpa.

Prendiamo, ad esempio, il Caino di Byron: è un’invettiva contro Dio. Caino viene interpretato come colui che subisce l’ingiustizia, il ribelle giustificato nei confronti di Dio, colui che interroga Dio lamentando l’ingiustizia subita. Caino diventa nel teatro di Byron la figura che interroga Dio circa il non senso esistenziale che sempre più morde la coscienza moderna e contemporanea.

La modernità scompiglia le rigidità del passato, per cui non è più possibile stabilire chi sia colpevole e chi sia innocente. Tutto è mischiato. Ciò ha avuto una funzione critica decisiva – io ritengo – per l’evoluzione dei modelli di fratellanza. Era chiaro che certi modelli avevano fatto il loro tempo e che si doveva costruirne di nuovi.

Io penso – ed è stato il punto iniziale di questa nostra conversazione – che noi siamo ancora nel corso di questo tragitto, ossia siamo ancora chiamati a rinnovare l’ideale della fratellanza. È importante confrontarsi con i testi moderni che hanno indagato le coppie di fratelli biblici perché li hanno messi in scena, in primo piano, con istanze critiche da considerare per costruire un nuovo modello di fratellanza del nostro tempo. Siamo sempre in transito.

La modernità ci mostra che i modelli non sono mai definitivi, dobbiamo esserne coscienti e pronti a rivedere i limiti che hanno definito i modelli relazionali sino ad oggi. Confido in nuovi momenti costruttivi.

Fratelli tutti
  • Domanda d’obbligo: cosa pensa dell’enciclica di papa Francesco Fratelli tutti?

Sono tornato da poco da Vallombrosa, ove l’Associazione Biblia ha organizzato un seminario di qualche giorno – molto bello – sulla figura di Abramo: figura che unisce e figura che distingue le tre religioni abramitiche. Ad Abramo ha fatto più volte riferimento papa Francesco quale figura di comunicazione fra i monoteismi. Nell’enciclica Fratelli tutti si avverte fortissimo il suo anelito.

Penso che il papa abbia effettivamente colto il punto di crisi focale del nostro tempo. Gli riconosco pertanto una funzione veramente politica. Voglio dire – semplificando – che Francesco si è posto a capo di quel partito trasversale che è oggi contrario ad ogni sovranismo. È indubbio che stiamo vivendo un momento di neonazionalismo molto accentuato.

Il papa è la figura culturale – ma direi appunto anche politica – che più di ogni altra si è espressa in maniera netta nei confronti della tendenza neo-nazionalistica. È manifesta la sua difficoltà umana anche solo ad incontrare i leaders del neonazionalismo mondiale: tra l’altro, molti di questi ostentano l’appartenenza cattolica. Avrebbe potuto quindi accostarsi a queste figure per opportunità. Non l’ha fatto.

Il papa – con l’enciclica Fratelli tutti – è entrato perciò, secondo me, proprio nella grande e decisiva questione del nostro tempo: la crisi della fratellanza. Ha colto una delle dinamiche etico-politiche fondamentali di questi nostri anni.

Ovviamente l’enciclica ribadisce i termini dell’universalismo cristiano: non poteva essere altrimenti. Ossia ha riproposto sostanzialmente il modello che qui ho definito monista. Devo insieme rilevare che, dopo il concilio, la Chiesa molto ha lavorato sul proprio modello di relazione con l’altro, proprio a partire dalla coscienza dell’antisemitismo.

Nell’enciclica avverto l’eco dei documenti e degli studi più recenti circa il modo leggere e di interpretate le Scritture, nel recupero della loro origine ebraica e pure della lingua ebraica. Avverto empatia e vicinanza all’ebraismo.

La reazione del mondo ebraico all’impostazione universalistica del papa è stata ed è – un poco – sempre la stessa: c’è sempre il sospetto di trovarsi di fronte ad una logica assimilazionista.

L’enciclica rimanda implicitamente alla dialettica ebraico-cristiana in corso sul tema della fratellanza, di cui ho parlato in questa intervista. La mia visione è che il mondo ebraico debba fare uno sforzo di comprensione nei confronti del mondo cristiano: non si può chiedere ai cristiani di non essere cristiani, detto banalmente; così come i cristiani non possono chiedere agli ebrei di non essere ebrei.

Siamo tuttavia tutti coscienti – dopo gli orrori del passato – che questo sia un momento favorevole per le relazioni ebraico-cristiane. Sono oggi fuori tempo massimo – se non del tutto marginali – i fenomeni di pura opposizione tra ebraismo e cristianesimo. La tendenza è quella del riconoscimento reciproco.

Io vorrei, infine, fare un passo successivo dicendo che abbiamo il comune compito di elaborare un modello di fratellanza che si avvalga della critica reciproca, proprio per superare le possibili derive patologiche interne a ciascun modello, sia ebraico che cristiano.

Quel gioco critico di cui ho detto può avere corso sia in campo ebraico sia in campo cristiano. Questa potrebbe essere, secondo me, la degna conclusione del percorso di riconoscimento reciproco avvenuto dal concilio sino a questi nostri giorni.

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Un commento

  1. Giuliana Babini 21 settembre 2021

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