Di che cosa è fatto il racconto

di:

barthes

Fra l’introduzione di Paolo Fabbri, intervistatore dello studioso francese più di cinquant’anni fa – e oggi sintetico commentatore di quel testo brillantemente sopravvissuto ad un periodo in cui «la problematica narrativa è passata da un iniziale negazionismo, all’accettazione decerebrata dello storytelling» – e la postfazione di Gianfranco Marrone, che «in questo straordinario documento» individua i nuclei che lo rendono tanto più attuale e incisiva «in un’epoca di restaurazione positivista», leggiamo la lezione di Roland Barthes.

Perché di una lezione di chiarezza esemplare si tratta, che prende le mosse da una necessità innegabile: «milioni e milioni di racconti» sono stati elaborati «in tutte le società umane». «Il racconto è dovunque: in tutte le epoche, in tutti i paesi, in tutte le culture; si serve di qualunque sostanza – la parola scritta, parlata, l’immagine mobile e immobile». Di qui il tentativo di «scegliere un modello di descrizione», illustrandone i «ragionevoli» presupposti.

Fra rimandi culturali illuminanti ed esempi capaci di accompagnare anche il lettore poco addentro in queste tematiche, Barthes spiega di che cos’è davvero fatto un racconto, a partire dalle sue unità insopprimibili, funzionali dunque all’intelligibilità della storia, secondo un criterio diverso da quello che ci è consueto e si concentra su comportamenti, sentimenti, monologhi interiori.

Diverso ma in grado di considerare comunque le «espansioni», quelle «unità complementari o riempitive» – cioè – che pure compongono il racconto. Anche un racconto come Goldfinger, che – né più né meno che l’Odissea – non sfugge alla possibilità di essere analizzato sulla base della logica che governa la successione e i reciproci «inscatolamenti» delle sequenze delle sue unità essenziali, dei «nuclei» che lo fanno essere quel racconto e non un altro.

E dopo l’individuazione dei nuclei e delle loro relazioni, i personaggi, non come «essenze psicologiche» ma «in quanto partecipano a certe azioni», sull’esempio di quelli individuati da Vladimir Propp, familiare a insegnanti e genitori curiosi di comprendere le fiabe che raccontavano iniziando con quell’immancabile «c’era una volta», ossia con quel segnale – ci fa notare Barthes – che avvertiva che un racconto iniziava.

E il contesto del racconto? la sua «origine sociale», i suoi risvolti ideologici? Non si tratta di ignorarli, quanto piuttosto di riconoscervi i luoghi nei quali «il sistema del racconto tocca il mondo» – e il «mondo scritto» incontra il «mondo non scritto», avrebbe forse detto Calvino.

Sarebbe necessario che l’analisi semiologica giungesse a quella ideologica, ammette Barthes, non senza ricordare tuttavia, in conclusione, che «solo se il sistema ideologico passa attraverso il relais d’un sistema simbolico diventa opera letteraria, opera d’arte»

Roland Barthes, Sul racconto, Marietti 1820, Bologna 2019, pp. 88; euro 8. Recensione apparsa sul blog www.secondorizzonte.it, 9 ottobre 2019.

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