Dio, il forse e la filosofia

di:

bifronte

Il forse è la parola più bella del vocabolario italiano,
perché apre delle possibilità, non certezze.
Perché non cerca la fine, ma va verso l’infinito.

Giacomo Leopardi (1798-1837)

Forse! – Ma chi vorrà preoccuparsi di siffatti pericolosi “forse”!
Per questo occorre aspettare l’arrivo di un nuovo genere di filosofi,
tali che abbiano gusti e inclinazioni diverse e opposte rispetto a quelle fino a oggi esistite
– filosofi del pericoloso “forse” in ogni senso. – E per dirla con tutta serietà:

io vedo che si stanno avvicinando questi nuovi filosofi

Friedrich Nietzsche (1844-1900)

Ogni pensiero che inizia con la libertà rientra senza dubbio nella migliore tradizione filosofica dell’Idealismo. È qui infatti che la libertà assurge a punto di partenza assoluto, anche mediante il ricorso ad una nozione dinamica di dispiegamento dell’individuo che va sotto il nome di “espressività”. Non è dunque un caso, se nel sottotitolo del saggio di Gianluca De Candia Il forse bifronte. L’emergenza della libertà nel pensiero di Dio (Mimesis 2021, pp. 170, € 16), compaiano i concetti di “emergenza” e “libertà”, dialetticamente connessi a quello che è il concetto più saldo della tradizione, il concetto di Dio come principio primo e fondamento indubitabile di tutto ciò che è.

Rispetto ad un tale Dio soltanto il pensiero si trova a vacillare, ovvero noi – mentre egli rimane saldo in sé stesso e non conosce alcun “forse”. Infatti, a differenza della materia cangiante e mai afferrabile e della mutevolezza della natura (vicissitudo), Dio apparve sempre alla filosofia come l’essere più determinato di tutti. E tuttavia l’assenza di qualsivoglia mancanza in Dio implicava di principio l’esclusione di un suo genuino e sostanziale sviluppo, così come di quella facoltà essenziale che chiamiamo libertà. Nonostante il tentativo già di Plotino di attribuire una (quasi) volontà (e quindi anche una libertà) all’Uno, è dovuto infatti trascorrere molto tempo prima che la progressiva enfasi attribuita alla volontà da parte del Cristianesimo e dunque dello Scotismo e del Nominalismo, conducesse alla valorizzazione dell’idea di libertà nel concetto di Dio, di una libertà affatto deducibile a partire dalla coscienza che noi uomini abbiamo di questa facoltà.

Nella crepa così apertasi nella solida essenzialità di Dio si sono successivamente accumulate quelle determinazioni che vanno sotto il nome di arbitrarietà, potere decisionale, irrazionalità, storicità, personalità – determinazioni che hanno gradualmente modificato il concetto di Dio fino a renderlo un Essere che non solo ha fuori di sé un mondo con una sua storia di salvezza, ma che porta anche in sé stesso qualcosa come una storia. Con la storia però emerge il tempo, e con il tempo anche la possibilità, e con la possibilità anche il “forse” viene a intaccare Dio stesso, o meglio la nostra comprensione concettuale di Dio (come è stato drammaticamente illustrato da Schelling).

È proprio qui che si innesta la questione sollevata da Gianluca De Candia in questo saggio, che getta una luce veramente straordinaria sul “forse” e la sua natura dialettica e bifronte. Prendendo le mosse da una breve riflessione etimologica, De Candia mette giustamente in evidenza l’elemento di possibilità insito in ogni forse, il quale pertanto non deve essere sbrigativamente omologato alla semantica negativa dello scetticismo o del dubbio (o alla disperazione di Kierkegaard). Nelle intenzioni dell’autore il forse rimanda piuttosto alla categoria modale della possibilità (possibilitas) e alla sua relazione, sotterranea ma ferma, alla necessità e alla realtà (actualitas). Si tratta di un forse-possibilità che concerne la nostra comprensione (ermeneutica) e che fa segno a quel residuo di indeterminabilità che accompagna l’attuarsi stesso della filosofia nei suoi tentativi di determinazione precisa e definitiva non solo dell’Essere supremo, divino, ma in generale di tutto ciò che “è”.

Il forse rimanda pertanto all’“al di là” di ogni (e in ogni) determinazione concettualmente esatta, a quella imprecisione e conoscenza congetturale che da Socrate, passando per Cusano fino a Schelling, ha inteso mantenere la dialettica concettuale entro limiti prudenziali, ha saputo cioè muovere il pensiero, molto prima di Husserl, verso una “epochê” rispetto alla finzionalità della sua presa sulla realtà. Nella superficie dorata, brillante e solida dei paradigmi filosofici emergono così crepe sottilissime, ad indicare i limiti della nostra dialettica. Sono proprio queste crepe che spalancano lo spazio dialettico del dubbio o, come possiamo imparare in queste pagine, del forse – uno spazio in cui la metafora del “salto” (Sprung) ritorna sempre e di nuovo ad indicare che l’individuo che ricerca, l’anima dubbiosa e persino il protagonista della più raffinata dialettica deve ad un certo punto lasciare la nota terra ferma per raggiungere il suo scopo.

Il pensiero speculativo del primo Idealismo, nel quale Schelling e Hegel si riconoscevano ancora accomunati, si è rivolto contro un razionalismo che pretendeva lasciare il forse fuori dai suoi tentativi di definizione clinicamente pura – così come, viceversa, la filosofia speculativa di Cusano, che portava il forse nel teorema dell’imprecisione, è stata accusata di irrazionalità (e panteismo) dallo studioso di Heidelberg e rappresentante del razionalismo aristotelico Wenck. De Candia invece distingue tre forme di forse: ermeneutico-libero, congetturale e anfibolico. Questa triplice differenziazione guida la stessa operazione ermeneutica dell’autore, di modo che egli stesso diviene oggetto delle sue stesse distinzioni (e questo perché il momento ermeneutico sembra comprendere in sé gli altri due).

Queste tre forme di forse conoscono via via diverse realizzazioni e si muovono ultimamente tra un “forse maggiore”, a cui appartiene una valenza “positiva” (la scommessa di Pascal come atto ermeneutico di probabilité, l’ermeneutica del forse teoretico e pratico kantiano, quello della “filosofia positiva” di Schelling e della ontologia ermeneutica dell’inesauribile in Pareyson), e un “forse minore” che ne rappresenta la controparte “negativa”, scettica (il dubium [!] minore di Descartes), ma che può anche oscillare, rimanendo in sospeso (come avviene per Derrida, col suo “né-né”, dietro il quale potrebbe celarsi – sit venia verbis – un “messianico” forse).

Seguendo l’itinerario storico e tematico tracciato da De Candia tale sviluppo giunge infine ad un “pericoloso forse in ogni senso” che, nel solco di Nietzsche e della filosofia italiana di ispirazione heideggeriana, stimola il discorso contemporaneo e si conclude, sembra, con il “forse speculativo radicale” di Massimo Cacciari (anche se le serrate e assai stimolanti obiezioni rivolte da De Candia alla posizione di quest’ultimo, fanno dubitare che questa sia davvero la più compiuta declinazione del forse metafisico).

Nella sua indagine De Candia analizza in maniera mirata lo sviluppo filosofico dell’idea di Dio svolto a partire dalla “modernità” – posto che essa inizi con Descartes, cosa che qui quantomeno si può concedere. Egli pone allo scoperto la dimensione ermeneutica di quel “forse” implicito in ogni accesso razionale all’Assoluto, ma anche all’individuale e allo storico. Il percorso tracciato è ben delimitato, dal momento che l’autore intende rilevare anzitutto paradigmi, la cui somma però abbraccia un orizzonte che va da Descartes a oggi (con particolare riguardo alla filosofia italiana).

Nel far questo il saggio è anche una freccia scoccata nel bel mezzo del più recente dibattito circa il ripensamento di presupposti e assunti propri dell’Idealismo in chiave pessimistico-scettica o eclettica – e che riscuota perciò i suoi effetti! Vi risuonano gli echi, da una parte, della svalutazione di tutti i valori da parte di Nietzsche, della distruzione dell’Idealismo di ascendenza hegeliana da parte dello psicologismo, dell’ermeneutica, della fenomenologia e dell’esistenzialismo, e inoltre la ulteriore svalutazione di quei valori che pure erano rimasti residuali in queste ultime correnti di pensiero da parte del pragmatismo, della Scuola viennese e della filosofia analitica e, dall’altra, gli echi del (post-)strutturalismo, del pensiero “debole”, del decostruttivismo – che con Derrida, per esempio, si impegna «a disfarsi anche di quest’ultima Anwesenheit» (ovvero della Lichtung o dell’Ereignis heideggeriani) –, nonché dell’eclettismo, eppure tutto ciò viene qui preso in esame in modo mirato, dal momento che l’autore pone la sua attenzione principale sui rappresentanti della scuola italiana (secondo le due più importanti filiazioni pareysoniane, Umberto Eco e Gianni Vattimo da una parte, e Ugo Perone e Claudio Ciancio dall’altra) – una tradizione filosofica, questa, che si colloca in linea con Schelling, (soprattutto) con Nietzsche, con Husserl o con Heidegger, e che, nello specifico, manifesta un interesse più o meno esplicito nei confronti della teologia. Perché è proprio in quest’ultima che il forse continua a vivere quale eterna provocazione del pensiero, come un “forse” restio ad una interpretazione strutturalista o analitica della realtà.

E così tutti gli autori qui presi in esame ricevono i propri epitheta ornantia, chi nella forma di una “debolezza” ermeneutica (Eco: “debolismo rivelativo debole”; Vattimo: “debolismo rivelativo forte”), chi di un “forse rivelativo” (Pareyson), “tensivo” (Perone), “paradossale” (Ciancio), e chi infine come “radicalizzazione speculativa” dell’indecidibilità (Cacciari).

Conviene, a questo punto, leggere un testo in anticipo che rappresenta, a mio avviso, un baricentro di questo saggio: «Nella religione la filosofia riconosce una verità che “interessa” l’esistenza e proprio per questo chiede una ermeneutica filosofica della finitezza, una indagine che avanza per continue approssimazioni, che mai si lascerebbero ridurre a “filosofia religiosa”, a prolegomena di una teologia confessionale.» Ciò significa che il forse bifronte dell’ermeneutica filosofica è in qualche modo imparentato con l’atteggiamento fondamentale del Dasein religioso.

Se è così, il “forse” rappresenta una provocazione permanente, la qual cosa rende il libro di De Candia estremamente attuale, nonostante il suo approccio “storico”. Si tratta, in definitiva, di quell’elemento aporetico che accompagna (e che, per Kant, deve poter accompagnare) tutti i nostri tentativi filosofici, di modo che il forse non riguardi solo una condizione soggettiva o psicologica, ma rappresenta una struttura oggettiva inevitabile! È qui che la tesi di De Candia, verificata mediante l’analisi dei testi, li attraversa per raggiunge il nostro spazio di vita e di pensiero.

Pur difendendo la doppia eventualità insita in ogni “forse”, ovvero la libertà dell’atto metafisico, è possibile riconoscere quanto l’approccio del tardo Pareyson, con la sua ontologia della libertà che segue Schelling, sembri parlare direttamente dall’anima dell’autore, così come non deve passare inosservata l’affascinante “parentesi”, solo apparentemente sorprendente, dedicata ad un protestante tedesco di spicco, cioè a Dietrich Bonhoeffer, al quale De Candia affida un posto di rilevo in dialogo con Ugo Perone. A chiudere il libro è un confronto, adeguatamente discusso e dettagliato, con il pensiero di Massimo Cacciari, che riporta il lettore all’inizio, al “forse pericoloso” della tradizione nietzschiana, ripensata alla luce del problema dell’Anfang, del possibile e della libertà.

Che questo interessante e stimolante libro, che presenta sempre tutti i suoi protagonisti in una dimensione complessa, stratificata e mai limitata all’unilateralità ideologica, possa trovare molti lettori; che il “forse” con le sue molteplici valenze filosofiche e quella sua pertinenza teologica che l’autore vi rivendica, possa essere riconosciuto nella sua indiscutibile importanza per il nostro essere e pensare.

  • Gianluca De Candia, Il forse bifronte. L’emergenza della libertà nel pensiero di Dio, Mimesis, Sesto San Giovanni (MI) 2021, pp. 176, € 16,00. Il testo di Thomas Leinkauf costituisce la Prefazione del volume.

copertina

 

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