Il futuro dietro le spalle

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futuro

C’erano una volta i calendari a muro, quelli con i foglietti bianchi che, giorno dopo giorno, si dovevano strappare da un blocco che diventava sempre più sottile man mano ci si avvicinava alla fine dell’anno. Capita ancora anche oggi, talvolta, di vederne qualcuno. Fanno tanto vintage: in alto il nome del mese e in basso il giorno della settimana, a caratteri neri; ben in grande, in posizione centrale, la cifra rossa della data.

A pensarci bene, il gesto distaccare dal blocco, ogni mattina, il foglietto con la data del giorno precedente è tutt’altro che esente da significazione simbolica: traduce, infatti, in evidenza tangibile l’idea che il tempo sia, semplicemente, una cosa destinata a consumarsi con l’uso. Una cosa che, una volta usata, merita soltanto di essere appallottolata e buttata nel cestino della carta straccia, sotto la scrivania. In fondo, il passato è passato, si usa dire. E se è passato, tanto vale buttarselo dietro le spalle.

Il tempo lineare

Da quando la storiografia iniziò a muovere i suoi primi passi, intorno al V secolo a.C., nel pensiero occidentale la concezione del tempo si è andata irreversibilmente strutturando secondo i parametri della linearità, per cui qualsiasi accadimento viene a trovare la sua collocazione su una linea retta che da un prima porta a un dopo, da ieri porta a domani, dal passato porta al futuro.

Ci siamo abituati a pensare il tempo come un fiume che scorre, senza mai fermarsi, inesorabilmente, secondo un flusso incessante che può essere misurato e quantificato in modo sempre più preciso da orologi sempre più sofisticati e sempre più a portata di tutti: la funzione “cronometro” e la misurazione dei centesimi di secondo, ormai, non la si nega a nessun cellulare.

Il tempo lineare sembra avere avuto la meglio sul tempo ciclico e su qualsiasi altra rappresentazione del tempo che possiamo intravedere nella ricchezza lessicale di lingue come il greco o il latino; che solo fino a qualche decennio fa i lavori in campagna o le attività domestiche fossero scanditi dalle lunazioni o dal rinnovarsi delle stagioni, e che i rintocchi delle campane modulassero le attività quotidiane da un tramonto all’altro, ci suona come qualcosa di arcaico e superato. Lo stesso senso della festa come tempo altro sembra, oggi, essersi del tutto smarrito dentro la successione inerziale e ripetitiva di giorni che, diversi solo nei nomi, risultano del tutto uguali fra loro quanto a essenza e consistenza.

Il tempo ce lo figuriamo come lineare – rappresentabile sulla “linea del tempo”, appunto; ma anche come oggettivo e assoluto: ci basta digitare in un motore di ricerca le due parole “ora esatta”, e subito possiamo sapere, con precisione millesimale, che ora è, in quel dato momento, in qualsiasi paese o città del mondo.

Il processo che ci ha portati a questa idea comune e condivisa di un tempo lineare, oggettivo ed assoluto, si è dipanato attraverso molti secoli, prima di trovare quella definizione che a noi, oggi, pare scontata.

Un passaggio decisivo si ebbe nel 1884, con l’identificazione del meridiano di Greenwich come meridiano fondamentale, la conseguente messa in sincrono degli orologi di tutto il pianeta e l’azzeramento delle differenze tra le preesistenti, innumerevoli, ore locali.

Nel frattempo, il progresso tecnologico portava alla realizzazione di sistemi di misurazione del tempo sempre più precisi: dall’orologio da taschino all’orologio da polso, dall’orologio meccanico a quello al quarzo a quello digitale.

Ma proprio mentre la nozione di tempo come assoluto oggettivo cominciava a prendere piede nella vita quotidiana di milioni – miliardi – di persone, proprio in quello stesso periodo, tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, la fisica, la filosofia e la letteratura andavano contemplando, come possibili, altre rappresentazioni: attraverso percorsi diversi, ma fra loro interconnessi,

Einstein, Bergson, Joyce, Virginia Woolf, in Italia Italo Svevo, intrapresero strade che li portarono a pensare e a descrivere il tempo nella prospettiva della relatività, anziché dell’assolutezza. Il tempo diventava tempo magmatico, intriso indifferentemente di passato, presente e futuro; tempo della coscienza, del sogno e della interiorità; tempo liberato dai paradigmi conoscitivi che, proprio allora, stavano uniformando il pensiero comune. Su quelle strade hanno continuato ad aprirsi e ad intrecciarsi interrogativi affascinanti, di portata fortemente destabilizzatrice rispetto al concetto di tempo che abbiamo ormai naturalizzato nella nostra quotidianità:

«Perché ricordiamo il passato e non il futuro? Siamo noi a esistere nel tempo o il tempo esiste in noi? Cosa significa davvero che il tempo “scorre”? Cosa lega il tempo alla nostra natura di soggetti? Cosa ascolto, quando ascolto lo scorrere del tempo?».[1]

Cambio di prospettiva

È arrivato Natale, e dopo Natale i giorni corrono rapidamente verso la fine dell’anno. È il tempo di tirare le somme, di quadrare i conti, di chiudere un bilancio di esercizio e aprirne uno nuovo. Il tempo di riporre in archivio un altro faldone. Il tempo di dare un’ultima occhiata veloce al foglietto bianco con la scritta “31 dicembre”, prima di appallottolarlo e buttarlo nel cestino. Qualche rimpianto per ciò che è passato, per come è passato, uno sguardo speranzoso al nuovo calendario che si inaugurerà col primo di gennaio. Tutto qui.

Tutto qui? Siamo abituati a considerare il passato come qualcosa che ci siamo lasciati dietro le spalle. Ci sembra naturale pensarci immersi nelle acque del fiume “tempo” che, con la sua corrente, ci sta portando verso il futuro. Il futuro davanti ai nostri occhi, il passato dietro le spalle.

Ma, siamo sicuri che sia proprio questa la prospettiva corretta? Siamo sicuri che sia il passato a trovarsi dietro le nostre spalle e che, davanti a noi, ci sia il futuro? Se facciamo lo sforzo di uscire dalle categorie con cui siamo soliti considerare il tempo, se proviamo a cambiare posizione e punto prospettico, ecco, possiamo renderci conto del fatto che, nel fluire del tempo, nel fiume della vita, davanti ai nostri occhi, visibile e conoscibile, non c’è il futuro, ma il passato: il passato lo possiamo vedere e conoscere, mentre non possiamo vedere e non possiamo conoscere il futuro. Il futuro se ne sta, ben celato e invisibile, nascosto, dietro le nostre spalle.

Il futuro dietro le spalle. Che cambio di prospettiva. Il futuro dietro le spalle, mentre, davanti ai nostri occhi, a passo di danza, ci viene incontro tutta la grazia del tempo vissuto. È, questa, la postura del Te Deum, l’inno di ringraziamento che facciamo risuonare nelle nostre chiese la sera del 31 dicembre. È la postura del grazie. Grazie, per tutto e per sempre. Senza ansie, senza la preoccupazione di scrutare l’orizzonte per cogliere pronostici su quello che verrà, senza aspettative smaniose o lacerate. Dietro le spalle il futuro, davanti allo sguardo il passato. Il futuro come Mistero, nel segno della fiducia. Il passato come Presenza di grazia e riconoscenza infinita.

Addii

Ho visto lacrime doloranti  –
oltre ogni ragionevole cronometro –
sul volto di un uomo anziano
che piangeva la morte
della suocera centenaria.

E lì ho capito la qualità
del tempo e dell’amore.


[1] C. Rovelli, L’ordine del tempo, Adelphi, Milano 2017, p. 14.

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