Ideali di un cattolicesimo semplificato

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Con bella sincerità, Aldo Maria Valli ha scritto le sue perplessità sulle “aperture” di papa Francesco  fotografandole, sostanzialmente, come un pericoloso “cedimento alle logiche mondane”. Senza volerlo, in tal modo, Valli sembra schierarsi – sia pure con molta circospezione e con il beneficio del dubbio – con coloro che preferiscono una Chiesa autoreferenziale rispetto ad una Chiesa in uscita. Se esce, la Chiesa, rischia di infilarsi dritta dritta nella tana del lupo … mentre se si chiude a doppia mandata…

Credo che nelle parole di Valli si esprimano, con dignità e con equilibrio, alcuni pregiudizi storici della Chiesa cattolica del XIX e XX secolo. Dobbiamo considerarli e rispondere ad essi con altrettanta onestà e chiarezza, se ne siamo capaci.

Cerco di concentrare la mia attenzione sul cuore dell’argomentazione di Valli, che rileva giustamente il passaggio da una logica dell’“aut-aut” ad una logica del “et-et”, che tuttavia, a suo avviso, rischia di essere compresa come logica del “no, ma anche sì”. Mentre l’et-et salvaguarderebbe la complessità, integrando il nuovo, la logica del “sì, ma anche no” relativizzerebbe tutto, banalizzando tutto.

Qui, a me pare, si colloca il punto pregiudiziale del ragionamento di Valli. Siccome l’et-et può degenerare nel “sì, ma anche no”, allora, parrebbe cosa migliore restare nella “fortezza” dell’aut-aut. Qui sta il punto debole del ragionamento, in cui l’inerzia della nostalgia e della presunzione, dalla quale tutti noi veniamo negli ultimi 30 anni, rischia di fatto di produrre un’alleanza della paura e di creare una barriera difensiva alla accettazione della complessità.

Già il Vaticano II aveva indicato, con assoluta chiarezza, che quella via – che potremmo dire dell’antimodernismo – era ormai definitivamente preclusa. Far valere un “oggettivo” opposto al “soggettivo” non ha alcun futuro. Illude solo chi non ci crede. Non lo abbiamo ancora imparato, 50 anni dopo? Ci siamo lasciati persuadere dalle tattiche e strategie di immunizzazione dalla complessità, messe in campo negli ultimi 30 anni? Qui mi pare che Valli, di cui ammiro sinceramente la franchezza, resti vittima di un modello nostalgico e premoderno di Chiesa, che non affascina solo lui, evidentemente, ma dal quale mi era sembrato prendere le distanze, in diverse occasioni.

È ovvio che le letture di questa “novità” – che non è modernismo al posto dell’antimodernismo, ma è un altro modo di affrontare la questione – possano essere del tutto distorte e che il “mondo” se le cucini a modo suo. Ma questo dovrebbe forse farci esitare? Ci mette forse a disagio una lettura riduttiva della profezia? Se il padre esce ad accogliere il figlio minore, siamo proprio costretti ad associare tutti allo scandalo del figlio maggiore? Ci sentiamo imbarazzati da un papa che prende sul serio il “soggetto”? Siamo proprio condannati ad avere schemi mentali che leggono il soggetto come soggettivismo, la libertà come liberalismo e il moderno come modernismo? Siamo ancora vittime di questi paradigmi elaborati più di un secolo fa e che già 80 anni fa erano in crisi?

Se il pontificato di Francesco, da più di tre anni, ha preso sul serio la complessità – al punto di chiamarla “meravigliosa complicatezza” – dobbiamo forse temere che questo ci complichi la vita e la testa? Non sarà forse che questa “semplificazione” della tradizione, alla quale ci siamo tanto legati, non corrisponda forse al nostro modo borghese di vivere la fede nel centro dell’Europa, turbati solo dai migranti all’assalto e dalle offerte speciali dei superstore? Non sarà, forse, che la vigilanza debba essere esercitata non solo sul “ma anche”, ma sulla continua tentazione di rifugiarci nell’aut-aut dell’immobilismo e della paura?  Perché non c’è niente di meglio che rifugiarci, nel nostro mondo eurocentrico, nella coscienza di una fede “totalmente altra”, che ci chiede “tutt’altro” e che affronta la nostra libertà, negandola, quasi violentandola, ma producendo solo fondamentalismo? Ecco, con questa riduzione della profezia al “totalmente altro”, possiamo consolarci con la nostra impotenza e ritagliarci forme di vita del tutto autosufficienti.

La questione sollevata da Valli, pertanto, è fondamentale. Ma non riguarda i “rischi” dello stile pontificale di Francesco, ma anzitutto i rischi di un loro fraintendimento. Francesco ha reintrodotto uno stile autenticamente cattolico dell’“et-et”, riscoprendo il primato del tempo sullo spazio e della realtà sull’idea. Questo non significa affatto rinunciare né alle necessarie radicazioni né alle buone idee, ma pensarle e promuoverle nel contesto di una “società aperta”, senza idealizzare nemmeno questo tipo di società, ma riconoscendola apertamente come segnata, anche pesantemente, dalla “cultura dello scarto”.

Ciò che temo, nel discorso proposto con onestà da Valli, è che possa essere fondato su un equivoco: ossia sull’ipotesi che la Chiesa possa annunciare il Vangelo restando fuori dalla cultura contemporanea e guardandola, diciamo così, da fuori e dall’alto. Questa è la radice di ogni antimodernismo. Senza essere modernista, il Concilio Vaticano II ci ha insegnato a non confidare più in questa “soluzione antimodernista”. Per questo è stato accusato di “modernismo”, non solo da Lefebvre. Così oggi rischiamo di fare anche con Francesco. Siccome prende sul serio la sfida di una condizione culturale e sociale nella quale la libertà dei soggetti e la coscienza dei singoli non possono essere aggirate, ci sembra che accondiscenda troppo alle logiche relativistiche e per questo non ci piace più. Sogniamo forse ancora una Chiesa in cui le relazioni sono semplicemente opzionali? O un’autorità che semplicemente si impone?

Su questo punto, che è viscerale, il testo di Valli mi lascia perplesso e suscita un’ulteriore domanda: che cosa avrebbe risposto Valli alla signora luterana? O alla coppia in seconda unione? E, infine, non stupisce che Valli citi un discorso di Benedetto XVI del 2010 sul tema della coscienza. Perché proprio in quel testo è evidente come ciò che per Benedetto è un problema, per Francesco è un’opportunità. D’altra parte, il modo apologetico con cui Benedetto XVI usava le note  – citando anche Nietzsche, ma solo per dimostrare che in una lettera alla sorella fraintendeva il temine fede – e come le usa Francesco – avvalorando anche pensatori o film non cattolici – dimostrano un diverso approccio alla cultura contemporanea. Il primo prevalentemente diffidava, mentre il secondo ha anche sempre qualcosa da imparare … ecco una differenza su cui Valli non si sofferma, rischiando di restare vittima del pregiudizio antimoderno, che giudica il rapporto con la coscienza e con la libertà quasi in contumacia.

D’altra parte, il criterio con cui Valli ha scelto gli esempi, mi pare che dimostri precisamente questa difficoltà di fondo. Ciò che la sua ermeneutica interpreta come “no, ma anche sì” è la banalizzazione di un principio morale del discernimento, che forse si vorrebbe escludere, per rendere la realtà più “attendibile” e meno complessa. Se poi, accanto a questioni serie si affiancano questioni molto meno serie – come la coesistenza di un papa che esercita il ministero con un papa che ha rinunciato a tale esercizio – allora è evidente che proprio dalla serie degli esempi emerge la logica di fondo: la nostalgia per i bei tempi in cui i papi non rinunciavano, i cattolici e i luterani non si sposavano tra loro, i coniugi non divorziavano e le religioni si ignoravano o si combattevano. Quella sì che era una Chiesa seria, bianca o nera, tutta sì sì e no no!

Il vero problema non è che il papa cammini secondo il Concilio Vaticano II, ma che nel popolo di Dio  – ma soprattutto in coloro che dovrebbero interpretarlo – si legga l’et-et nella forma sgraziata di un confusissimo “no, ma anche sì”. Credo che Valli abbia fatto bene a dire apertamente la sua reazione. Non bisogna nascondere le emozioni. Non sarebbe male se le argomentazioni, che ha esposto con sincerità, fossero messe al vaglio della nostra tradizione e cultura comune. Che non è solo quella antimodernista del XIX e XX secolo. Se Dio vuole siamo figli di una storia molto più complessa, che non deve vergognarsi della sua “meravigliosa complicatezza”. Un cattolicesimo semplificato non aiuta a vivere. Anzi, talora, può arrivare persino ad aggredire la vita! Grazie a questa tradizione non semplificata – che comunque dopo il Vaticano II si è affermata, nonostante tutto – abbiamo potuto subito riconoscere Francesco come papa e – anche grazie a lui – possiamo ora discuterne, con libertà e rispetto, stili e linguaggi. Già questa discussione potrebbe attestare con efficacia che non ci siamo abbassati ad un “no, ma anche sì”, ma che stiamo risalendo da un “aut-aut” semplificato a un “et-et” inevitabilmente complicato.

Pubblicato il 31 maggio 2016 nel blog: Come se non


Replica di Aldo Maria Valli

Controreplica di Andrea Grillo

Errata corrige: il Francesco dei tradizionalisti e quello vero, di Andrea Grillo

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5 Commenti

  1. Miglietta Guido 3 giugno 2016
  2. Giorgio De Checchi 1 giugno 2016
  3. Giorgia Gariboldi 1 giugno 2016
    • Andrea Grillo 5 giugno 2016
      • Giorgia Gariboldi 6 giugno 2016

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