Il palco e il dittatore

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grido

Sono in pochi a sapere cosa voglia dire stare al centro degli sguardi di migliaia di persone che ti acclamano. Persone che non sono lì per quello che tu fai: sono lì per te. E non giudicano, non applaudono, non incitano neppure: semplicemente ti adorano, qualunque cosa tu dica, qualunque cosa tu faccia. Sono in pochi a sapere cosa si prova, e non posso certo dire di saperlo io. Però conosco una persona che, dopo aver assaporato questa potente sensazione, ne ha scritto; l’ha raccontato in parole, musica e immagini. Si può dunque chiedere a lui cosa si prova e cosa può succedere. Ascoltiamo dunque Roger Waters, per un ventennio bassista e cantante di uno dei più famosi e importanti gruppi musicali della seconda metà del XX secolo: i Pink Floyd.

Il gruppo musicale inglese, fondato nel 1965, raggiunse la popolarità planetaria nel 1973 con The Dark Side of The Moon (45 milioni di copie vendute) e replicò poi il successo nel 1975 con Wish You Were Here. In quegli anni Roger Waters era la figura di punta; quasi sempre era l’autore dei testi, contenenti spesso denunce di carattere sociale (particolarmente esplicite nell’album che seguì poi, il meno fortunato Animals, 1977). Nel 1979, con The Wall, Waters creò un doppio concept album di 26 tracce, destinato a venir presentato in un concerto dal vivo di impressionante complessità (fu messo in scena solo quattro volte). L’album vendette trenta milioni di copie e fu riproposto, nel 1982, come asse portante di un film diretto da Alan Parker.

Chi ricorda l’album The Wall e il relativo film di solito pensa agli studenti della Islington Green School che cantano Another Brick in the Wall part 2:

«Non abbiamo bisogno di istruzione!
Non abbiamo bisogno del controllo cerebrale!
Niente sinistro sarcasmo in classe!
Professore, lascia in pace i ragazzi!
Ehi, professore, lasciaci in pace!
Dopotutto è solo un altro mattone nel muro;
dopotutto sei solo un altro mattone nel muro»

the wall

Il messaggio che è rimasto impresso ha insomma a che fare con la denuncia di un sistema scolastico – quello esistente ai tempi dell’infanzia di Waters – caratterizzato dalla spinta all’omologazione delle giovani menti. Quel che non si ricorda è che disco e film dicevano anche molto altro. La prima parte è infatti dedicata alla difficile infanzia di un personaggio che nel film porta il nome di “Pink Floyd” (interpretato da Bob Geldof). È l’alter ego di Waters: un orfano ossessionato dalla mancanza del padre morto in guerra, reso insicuro dall’atteggiamento della madre iperprotettiva, oppresso per l’appunto da un sistema scolastico che chiede solo ripetitività e dà solo frustrazioni. Pink si riscatta attraverso la musica e diventa una rockstar, ma non trova la pace interiore; la sua esistenza viene anzi turbata dal tradimento da parte della moglie. Il muro è allora la metafora della barriera che Pink erige progressivamente intorno a sé per ripararsi dal male di vivere. Il cantante non è comunque in grado di reggere la situazione e ha un crollo nervoso. Per costringerlo a proseguire lo spettacolo gli iniettano una sostanza che lo rende piacevolmente insensibile (Comfortably Numb). A quel punto Pink può tornare sul palco, dove trova la folla che lo attende in delirio.

Waters era stato negativamente colpito, negli anni precedenti, dalla constatazione che le folle che seguivano i concerti dei Pink Floyd sembravano non curarsi affatto della musica e travisavano il significato dei testi. Adoravano a prescindere. Ed ecco che Pink, nel film, una volta salito sul palco trova una folla di fan assolutamente e acriticamente devoti, che hanno tutto l’aspetto di skinheads. In divisa nazista e sotto il simbolo dei “martelli incrociati” (evidente riferimento alla svastica o ad altri emblemi totalitari) si rivolge loro in questo modo (In the Flesh):

«Ci sono delle checche a teatro stasera? Mettetele al muro!
Ce n’è uno sotto il riflettore che non mi sembra a posto, mettetelo al muro!
Quello lì sembra ebreo, e quello là è negro. Chi ha fatto entrare tutta questa feccia?
Ce n’è uno che fuma uno spinello e un altro con i brufoli.
Se fosse per me vi farei fucilare tutti!»

Nonostante il pubblico non venga blandito ma anzi aggredito, continua ad acclamare a gran voce la rockstar, che prosegue la sua requisitoria con Run like Hell: chi non la pensa come Pink sarà meglio cominci a correre («Ti conviene dormire tutto il giorno e correre tutta la notte e tenere i tuoi sporchi pensieri ben dentro»).

martelli

Si giunge quindi al tripudio fascista di Waiting for the Worms, che nel film vede Pink uscire dal teatro al passo dell’oca per guidare i suoi fans attraverso Londra, alla ricerca di qualcuno da sterminare (i “vermi” sono coloro che si costruiscono una posizione sfruttando l’odio).

«Aspetto di tagliare i rami secchi
Aspetto di ripulire la città
Aspetto di seguire i vermi
Aspetto di indossare una camicia nera
Aspetto di sterminare i più deboli
Aspetto di sfasciare le loro finestre e di sfondare le loro porte a calci
Aspetto la soluzione finale, che raddrizzi i torti
Aspetto di seguire i vermi, aspetto di aprire le docce e di accendere i forni
Aspetto le checche e i negri e i comunisti e gli ebrei
Aspetto di seguire i vermi
Ti piacerebbe vedere la Gran Bretagna dominare ancora, amico mio?
Tutto ciò che devi fare è seguire i vermi.
Ti piacerebbe mandare i nostri cugini di colore a casa, amico mio?
Tutto ciò che devi fare è seguire i vermi».

Alla domanda posta all’inizio dell’articolo, ecco dunque la risposta di Waters: l’acclamazione della folla genera delirio di onnipotenza. Ognuno tende a erigere un “muro” per ripararsi dal male che è nel mondo: ma chi si trova nelle condizioni di essere osannato tende a estenderne all’infinito le dimensioni, riversando le proprie ossessioni dal palco nelle strade, nel tentativo di cancellare qualunque “alterità”. Un delirio che non innalza l’uomo oggetto di tanta venerazione: anzi, lo abbassa al livello dei “vermi”.

L’illusione della strapotenza, del poter marciare per la città imponendo comunque la propria forza in un atto di semplificazione violenta, senza interruzioni e senza compromessi, si infrange sulla realtà. La violenza si rivela senza futuro e senza speranza; termina il sogno con cui si è pensato di poter modellare il mondo come fosse la propria stanza, chiusa e difesa da alte mura. La concretezza torna a bussare, e ha il volto delle persone. Persone che Pink non ama ma che, sia pure in qualche modo confuso e contraddittorio, gli sono state vicino. Nella mente di Pink si riaccende un barlume di umanità. Comincia un difficile percorso di ritorno alla normalità. Accetta di processare se stesso: uno strampalato tribunale lo costringe a distruggere quel muro che aveva costruito attorno a sé. Non c’è più il palco, non c’è più la folla: il grido «Tear down the wall!» conclude la traccia intitolata The Trial e prepara l’ultima, la solo sussurrata Outside the Wall.

«Da soli, o a coppie,
quelli che davvero ti amano camminano su e giù al di là del muro.
Alcuni mano nella mano, alcuni in gruppo. I cuori teneri e gli artisti resistono.
E, quando ti hanno dato tutto di loro stessi, qualcuno barcollerà e cadrà.
Non è facile, dopotutto, sbattere il cuore contro il muro di un pazzo bastardo».

grido

The Wall finisce con mezza frase, «non è questo il posto in cui…»: l’altra metà si trovava all’inizio dell’album, «…siamo entrati?», a suggerire un loop, un “eterno ritorno” dal quale non si potrebbe sfuggire.

Eppure, dopo essere usciti dal delirio, dopo aver concluso la marcia dei violenti, dopo aver denunciato l’ottusità dei fans, dopo aver visto abbattere il muro sono rimaste Another Brick in The Wall, Comfortably Numb, Run Like Hell; è rimasto The Wall, è rimasta la musica, è rimasto il film. Rimane la possibilità di trasformare quelle energie sprigionate dall’arte e dall’entusiasmo in qualcosa di diverso dalla costruzione del muro. Rimane la possibilità di fare politica.

Pubblicato su Il Margine, 5/2014. Le traduzioni dei testi sono tratte da Christian Diemoz, Le canzoni dei Pink Floyd, Editori Riuniti, Roma 2002 (con modifiche alla punteggiatura).

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