Storia, Bibbia e possibilità della politica

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Politica

Nella Bibbia esiste un gruppo di libri definiti “storici” (anche se tra di essi vi sono anche testi che appartengono a generi letterari diversi: si pensi ai romanzeschi “racconti esemplari” di Rut, Tobia, Giuditta, Ester). Se si chiedessero al cristiano medio delle notizie in merito, forse egli saprebbe citare qualche titolo (Giudici, Samuele, Re…) e probabilmente saprebbe narrare anche qualche episodio (a cominciare dalle storie di Davide e da quelle di Elia): i brani utilizzati in contesti liturgici e catechistici per i loro possibili riferimenti ai temi del Nuovo Testamento o per i loro contenuti morali. Allo storico, questi libri servono a ricostruire le vicende dell’antico Israele, dall’insediamento nella Terra promessa (descritta nel libro di Giosuè) fino alle rivolte dei Maccabei, nel II secolo a.C.; pur essendo evidentemente necessario cercare riscontri a quanto vi viene affermato e dovendosi ricostruire per quali motivi e con quali intenzioni un certo episodio è stato narrato in un certo modo.

Quelle pagine – soprattutto quelle che narrano di vicende definibili, in senso lato, “politiche” – sono state nei secoli compulsate anche alla ricerca di modelli, logiche, ispirazioni utili per istruire i cristiani che si trovavano nelle condizioni di dedicarsi alla difficile arte della leadership. Ci sarà stato un motivo se il popolo eletto si era organizzato in un certo modo. Anche in questo caso la selezione è stata piuttosto drastica: è stata esaltata la regalità benedetta di Davide (ma non le sue avventure extraconiugali o le sue tentazioni calcolatorie), la sapienza di Salomone (ma non le sue tendenze idolatriche) e poco altro (tra i re di Giuda, una certa attenzione ha avuto Ezechia). In tempi più recenti si è preferito cercare in questi libri soprattutto la polemica anti-regale – più la pars destruens che la pars costruens, dunque – quasi che la storia dell’antico Israele non comunichi e riveli nient’altro che la frustrante attesa del Messia: un Messia capace di superare le limitate possibilità umane e di instaurare un Regno di tutt’altro genere.

Però, a proposito del potere e della sua gestione, nel Vangelo c’è poco più della dichiarazione del tentatore (Lc 4,6: «Ti darò tutto questo potere e la loro gloria, perché a me è stata data e io la do a chi voglio»). Una frase che è risuonata senza che Gesù la confermasse o la smentisse. Quasi che la domanda sulla radice del potere umano e sulla sua natura debba rimanere priva di risposta.

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Chi scrive questi appunti ha vissuto con profondo senso di smarrimento gli avvenimenti degli ultimi anni. A lungo ci siamo chiesti come sia stato possibile che l’Europa abbia potuto piombare, nei primi decenni del Novecento, in una “guerra dei Trent’anni” capace di distruggere persone e principi, popoli e ricchezze, culture e dignità. Ora lo sappiamo, perché il nazional-socialismo (oggi lo chiamano sovranismo, ma è lo stesso), la “globalizzazione dell’indifferenza”, la ricerca di paradisi artificiali (chimici o elettronici), un protezionismo ottuso come proiezione politico-economica dell’insicurezza, il rifiuto (a tutti i livelli) di accettare un coordinamento collettivo di fronte alle tragedie presenti e future sono (tornati) tra noi. Hanno messo in dubbio i meccanismi della democrazia partecipativa e hanno cominciato a erodere anche i fondamenti della convivenza civile pacifica. Eventi che ci sembravano consegnati al passato sono tornati, presenti e incombenti. Conquiste che dovevano durare per sempre sono state ridotte a nuvole di fumo, pronte a essere spazzate via dal primo refolo di vento.

Di fronte a questa situazione mi sembrava necessario agire per fare più spazio alla dimensione pubblica, collettiva. Tutti i giorni la politica viene disprezzata perché è sentita come incapace di affrontare i problemi grandi e piccoli dell’esistenza; le vengono tolte, conseguentemente, forza e legittimazione, con il risultato di renderla ancora più debole. Un circolo vizioso che andava spezzato diminuendo la distanza tra sovranità popolare e governo, così da evitare che la partecipazione alla vita politica e il voto stesso fossero sentiti come una perdita di tempo. Perché se partecipare alla vita politica è considerato inutile, non diminuirà solo la percentuale dei votanti: diminuirà la legittimazione del governo, che non potrà certo dire di avere dietro di sé il sostegno dei propri rappresentati sia di fronte alle entità internazionali, sia di fronte ai cittadini stessi. Un sistema democratico delegittimato, inoltre, non ha alcuna possibilità di fare fronte agli altri poteri (da quelli economico-finanziari a quelli criminali), che non sono espressione della sovranità popolare. Bisognava dunque invertire la tendenza che ci ha allontanato dalla politica: aumentare le possibilità di riconoscersi responsabili dell’azione collettiva.

Gli italiani, per un motivo o per l’altro, si sono rifiutati di fare passi in questa direzione: e non mi turba tanto l’essermi trovato in minoranza (càpita), quanto piuttosto l’aver scoperto che tanti di coloro con i quali avevo pensato che si potesse costruire una proposta politica forte non abbiano colto l’importanza della posta in gioco (potrei sbagliarmi: forse la vittoria del “Sì” al referendum del 4 dicembre 2016 non ci avrebbe fatto fare passi avanti. Sono però certo che non ce ne ha fatti fare la vittoria del “No”).

Ecco allora come appare il nostro Paese, e forse non solo il nostro: uomini e donne che diffidano di qualunque cosa si presenti come “azione collettiva”; uomini e donne che si ripetono l’un l’altro che l’unica cosa seria da fare è difendere i propri interessi e i propri piccoli privilegi. Una società di diffidenti e rancorosi individualisti, che in nome del loro piccolo rancoroso individualismo non alzano un dito per difendere segni e strumenti della dimensione collettiva dell’esistenza.

Mi trovo allora a raccontare la storia degli ultimi decenni come una storia di speranze fallite. Speranze “penultime”; speranze in obiettivi che non stanno necessariamente nel piano di Dio (mi rendo conto che essere invece certi del fatto che le proprie speranze stiano nel piano di Dio porterebbe pericolosamente vicini alla bestemmia). Ma speranze in qualcosa che – ci era sembrato – avrebbe reso la convivenza umana meno misera e ingiusta. Speranza in una legge elettorale che desse ai cittadini il diritto di scegliere i propri rappresentanti e i propri governanti. Speranza in una magistratura capace di colpire la grande criminalità e il malaffare, senza riguardo ai privilegi sociali. Speranza in un’Europa capace di unire i suoi cittadini e di essere davvero un «luogo privilegiato della speranza umana». Speranza in un’alleanza che riunisse le parti migliori della cultura politica italiana. Speranza in un partito aperto, permeabile ai cittadini e impermeabile alle lobbies. Speranza nel valore delle regole. Speranza nell’impegno delle persone.

E invece ci ritroviamo di nuovo negli anni Ottanta. E non sappiamo neppure di quale secolo.

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Apro la Bibbia per cercarvi non dico delle risposte, ma almeno qualche orizzonte. Per vedere se e come gli uomini che Dio ha amato abbiano tratto dall’Alleanza qualche intuizione circa il modo di agire collettivamente.

Nel libro dei Giudici trovo l’eterna ricaduta: una storia ciclica che vede rincorrersi l’infedeltà, l’accedersi dell’ira del Signore, le disgrazie conseguenti, le grida di dolore, l’intervento di Dio a salvezza del popolo, il nuovo oblio dell’alleanza e il nuovo ricadere nell’infedeltà. Nei libri di Samuele trovo la domanda: ma Dio, da che parte sta? Di fronte alla richiesta del popolo di avere un re, contesta o approva? Accetta o subisce? Ma c’è una risposta?… E poi il lungo autunno dei due libri dei Re, che comincia con Salomone, prosegue con la rottura del regno e la divisione delle dodici tribù, che seguono due distinte linee di re: monarchi generalmente deboli e peccatori, quasi che l’infedeltà dei capi sia inevitabile. Due regni che cadono l’uno dopo l’altro in mani straniere (e idolatre). A questo periodo appartiene una ricca elaborazione del pensiero teologico, l’emersione della riflessione deuteronomica, grandi profeti come Isaia e Geremia (grandi anche nel loro opporsi a capi più o meno irresponsabili). Ma che dire delle vicende politiche in senso stretto? Davvero il camminare di fronte a Dio può non avere a che fare con la Storia dei governi e dei popoli?… E poi le Cronache: per dare coraggio ai ricostruttori la storia – quella storia – viene smussata e riscritta. E poi i Maccabei, i cui dissidi interni di lì a pochi decenni avrebbero aperto la strada a Pompeo (a Roma) e alla dinastia di Erode. Era possibile fare diversamente? E se non ci sono riusciti loro, cosa ci autorizza a pensare che saremo noi a giungere a risultati migliori o più duraturi?

Mi rendo conto che queste annotazioni sono dilettantesche, nel senso che non sono scritte da un biblista (ma non vorrei che – a 500 anni da Lutero – qualcuno tornasse a dire che la lettura della Bibbia è riservata agli specialisti). E mi rendo conto che sono annotazioni personali, quando invece la Parola di Dio dovrebbe invece essere letta insieme, nella Chiesa (vale a dire in un contesto assembleare, collettivo). Può essere dunque che da una riflessione ulteriore e dal dialogo comunitario io possa imparare un modo diverso di leggere i libri storici; anzi, spero di incontrare altri che vogliono discutere di questo tema per aiutarmi a progredire nella conoscenza della Parola di Dio. Ma non penso che sia giusto liquidare il problema in modo facile, consegnando all’oblio (vale a dire considerando appartenente a un passato irrilevante per l’oggi) il modo in cui l’Alleanza si è realizzata dentro la storia. Perché sappiamo che la relazione tra Dio e il suo popolo sta dentro la storia degli uomini e delle donne di questo universo.

In questa disgraziata storia umana Dio non ci abbandona, ed è questo l’orizzonte di fede che ci salva dalla disperazione. L’amore gratuito di Dio attraversa e pervade la storia; è lui la fedeltà che supera ogni infedeltà. Ma, detto questo, davvero ci si deve accontentare del fatto che la sciagura non colpisca la propria generazione? «Allora Isaia disse a Ezechia: “Ascolta la parola del Signore: ‘Ecco, verranno giorni nei quali tutto ciò che si trova nella tua reggia e ciò che hanno accumulato i tuoi padri fino ad oggi verrà portato a Babilonia; non resterà nulla, dice il Signore. Prenderanno i figli che da te saranno usciti e che tu avrai generato, per farne eunuchi nella reggia di Babilonia’”. Ezechia disse a Isaia: “Buona è la parola del Signore, che mi hai riferita”. Egli pensava: “Perché no? Almeno vi saranno pace e stabilità nei miei giorni”» (2 Re 20,16-19).

Come il salmista, siamo in attesa: stanchi di gridare, con la gola riarsa e gli occhi consumati (Sal 69,4). Come la donna del Cantico, abbiamo cercato ma non abbiamo trovato (Ct 3,1.2). Non vi è nulla di nuovo e nulla di strano nel dover attendere la Salvezza. Ma ci sono epoche nelle quali il tempo dell’attesa trascorre in un buio più fitto.

 Articolo pubblicato su “Il Margine” n. 6/2017.

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