La “complessità” della fede

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Una delle esigenze più sentite da parte di chi si mette in ascolto di una proposta di evangelizzazione è quella della semplicità. Molte persone, credenti o meno, quando si trovano in un contesto di pre­ghiera o di riflessione spirituale, non accettano facilmente di sentirsi rivolgere parole difficili o di essere invitati a comprendere concetti impegnativi. Al di là del fatto che talora, dopo aver accettato sfide del genere, si deve concludere che quanto è stato detto poteva essere comunicato in modo mol­to più semplice, vi è comunque una sorta di preclusione tendenziale verso tutto ciò che nell’ambito religioso si presenta come complesso.

In effetti, in alcuni casi la difficoltà della comunicazione nella predicazione o nei momenti formativi dipende semplicemente dalle problematiche che toccano la persona dell’evangelizzatore. Ad esem­pio, un linguaggio ermetico potrebbe semplicemente servire ad esprimere, solitamente in modo inconsapevole, il proprio senso di superiorità sui propri ascoltatori, anzi ad esercitare una sorta di potere nei loro confronti, come se si dicesse loro “visto che capite nulla, dovete obbedirmi, perché io ne so ben più di voi”. Anche se fenomeni del genere non sono così rari anche nel mondo ecclesiale, esiste però una complessità intrinseca di tutto ciò che attiene all’esperienza spirituale che non può essere semplificata.

Non tutti sono d’accordo con questa affermazione. Ad esempio, alcune persone che si definiscono credenti ritengono che il cristianesimo sia fondamentalmente un’etica dell’amore che insegna a voler bene a se stessi e agli altri, soprattutto ai più poveri, e che quando si è compresa quest’idea mol­to semplice non c’è molto da aggiungere. Per queste persone qualunque complessità nell’ambito religioso è ingiustificata.

In realtà, l’esperienza cristiana non si riduce affatto ad un’etica della benevolenza, né al servizio dei poveri, ma consiste nell’accogliere quel dono di essere figli di Dio che il Signore Gesù ci ha conquistato con la sua vita, la sua morte e la sua risurrezione, e che il suo Spirito rende possibile dimorando in noi. Da questa condizione deriva una morale che è assolu­tamente in linea con un’etica laica fondata su un corretto uso della ragione, ma che nello stesso tem­po la supera ampiamente.

Ora, questa esperienza credente, che nella sua essenza si può esprimere in poche parole, veicola però una visione di Dio, dell’essere umano e del mondo che pone infinite questioni alla nostra ragione, le quali non possono essere affrontate in modo semplice. Anche se non tutti i credenti avranno la possibilità di riflettere approfonditamente su tali questioni, resta il fatto che questa riflessione fa parte integrante dell’esperienza credente e la arricchisce enormemente.

Il pensare adeguatamente la fede, anche nei suoi aspetti di complessità, è particolarmente importan­te per un ambito specifico dell’evangelizzazione, quello del mondo della cultura. La Chiesa, infatti, non è chiamata solamente ad annunciare il Vangelo alle singole persone per guidarle alla fede in Gesù, ma anche ad entrare nel dibattito pubblico, cioè nella riflessione culturale di alto livello che si sviluppa all’interno di ogni società laica su tutti i temi rilevanti per l’esistenza dell’essere umano e del pianeta che gli è stato affidato. Su questo piano le comunità cristiane sono chiamate a far maturare la cultura in cui vivono, cioè ad umanizzarla sempre di più, in modo da far crescere verso il regno di Dio quella parte di mondo in cui abitano.

Ora, entrare in dialogo con il mondo culturale significa sempre affrontare questioni molto complesse, di per sé non accessibili a tutti. Non per questo, però, tale attività è insignificante: è inutile lamentarsi della diffusione nella nostra società di idee strava­ganti e di stili di vita discutibili se non si sono investite risorse per contribuire a diffondere i principi di un vero umanesimo nell’ambito del dibattito pubblico.

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