La crudeltà del Comico

di:

watchmen

A parere di molti, l’opera più nota di Alan Moore – V for Vendetta – non è la sua migliore: il capolavoro è un altro graphic novel, più ampio e complesso, che solo parzialmente si può definire «fumetto» essendo il risultato della somma di tavole disegnate e di testi scritti appartenenti a diversi generi letterari. Si tratta di Watchmen («Guardiani»), sceneggiata da Moore e disegnata da Dave Gibbons. Una «saga» di grandi dimensioni (il volume, articolato in 12 capitoli, supera le 500 pagine di grande formato), edita da DC Comics tra 1986 e 1987 e pubblicata in Italia come volume unico a partire dal 2007 per De Agostini Comics (il film del 2009, diretto da Zack Snyder, ha sfruttato alcuni aspetti della trama e della caratterizzazione dei personaggi riuscendo solo in parte a ricrearne l’atmosfera).

La storia che Moore ci narra ha uno sfondo «ucronico», vale a dire rappresenta la storia americana (e indirettamente mondiale) tra la fine degli anni Trenta e l’inizio degli anni Ottanta del XX secolo per come avrebbe potuto realizzarsi se alcune cose fossero state diverse. Dapprima alcuni vigilantes mascherati dotati di forza, abilità e talvolta spietata violenza hanno risposto alla diffusa domanda di «supereroismo», hanno fatto fronte al crimine e hanno ottenuto (almeno per un certo periodo) il favore della popolazione. Poi, nel 1960, un incidente avvenuto nel corso di un esperimento ha trasformato un fisico nucleare, il dottor Jonathan Osterman, in una sorta di superuomo, un «Dio aristotelico» (la definizione è mia) capace di manipolare la materia, potenzialmente onnipotente ma per questo sostanzialmente disinteressato alle vicende degli uomini, prigioniero (a modo suo) del passato e delle persone che in quel passato aveva conosciuto. L’esistenza di Osterman, ribattezzato per motivi propagandistici «Dr. Manhattan», ha permesso agli USA di vincere la guerra del Vietnam e, nell’anno 1985, mantiene nel mondo la superiorità militare americana. Ma quando nell’ottobre di quell’anno il Dr. Manhattan sceglie volontariamente l’esilio, l’URSS coglie l’occasione per rialzare la testa: invade l’Afghanistan e minaccia il Pakistan. Il presidente americano ritiene opportuno attaccare per primo. L’ora della devastazione nucleare sembra prossima.

Questa non è la trama del romanzo, ma lo scenario in cui si colloca l’azione: Moore narra una vicenda corale presentando di volta in volta un punto di vista diverso, portando il lettore dentro le vite e i pensieri dei vari «guardiani», con frequenti flashback che costringono a non affrettare la lettura ma a prestare invece attenzione a tutti i particolari delle tavole, anche perché gli stessi episodi sono narrati più volte cambiando le angolazioni (e le interpretazioni). Moore, magistralmente assecondato da Gibbons, ci porta a guardare con pietà o a prendere in simpatia l’uno o l’altro «supereroe», nonostante tutti abbiano non solo qualità che affascinano ma anche caratteristiche che li rendono odiosi o ripugnanti. Avviene così che la fine del più cinico e beffardo tra di essi, il Comico, apra la narrazione e che la morte del più violento e paranoico, Rorschach, la chiuda: ed entrambe sono descritte in scene che invocano pietà per uomini che pietà non avevano (quasi) mai avuto.

Tutti i personaggi – anche quelli minori – espongono più o meno esplicitamente le loro visioni del mondo: Watchmen è ricco di «teologie», di Weltanschauungen che spiegano e a loro modo giustificano le azioni dei personaggi. Ognuno segue il proprio «credo», mostrando quanto un Dio sia presente a ognuno, un Dio che può avere di volta i volta i connotati del Deus ex machina di tradizione «classica» (che viene a tagliare il nodo gordiano dell’esistenza), del Dio «umanitario» che non ha ancora abbandonato la speranza di una società meno misera e ingiusta di quella presente, di un Dio «veterotestamentario» violento e vendicatore che ha in odio non solo i peccati ma anche i peccatori, di un Dio aristotelico che contempla la propria perfezione senza curarsi dei drammi umani, di un Dio che si nasconde e si rovescia in un nichilismo senza speranza; e, anche (in una delle pagine più belle), di un Dio che si rivela nel miracolo di ogni singola supremamente improbabile esistenza (pp. 306-307). Il fatto che Moore, alla fine, non sembri sposare nessuna di queste «teologie» e costringa dunque il lettore a schierarsi senza schierarsi egli stesso costituisce uno dei pregi maggiori di questa singolare opera letteraria.

Tutti i «guardiani» e tutte le loro teologie meriterebbero una riflessione. In questa sede vorrei occuparmi solo di The Comedian, Il Comico.

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Edward Blake (1924-1985) è «Il Comico». Corporatura robusta, grande forza fisica («muscoloso come un sollevatore di pesi», p. 10), sigaro sempre in mano, dapprima si veste con uno sgargiante costume giallo ma lo cambia presto con un’armatura di cuoio, completa di maschera, alla quale talvolta è applicato lo smiley, il sorriso. È il più giovane tra i Guardiani («Minuteman») degli anni Quaranta e il più vecchio nel gruppo che in qualche modo si ricrea negli anni Sessanta; vive rapporti complessi e spesso difficili con i «compagni» ma, soprattutto, è l’uomo convinto di potersela cavare sempre. «Parlava come se fosse sempre al di sopra di tutto, come se non gli sarebbe mai potuto succedere nulla… Era il Comico. Era convinto che l’ultima risata sarebbe stata la sua» (p. 45). Affronta qualunque missione senza dubbi o scrupoli: è per questo che il governo americano lo usa nella seconda guerra mondiale, in Vietnam, in Iran, in Nicaragua e in altri momenti oscuri della storia recente (è lui, probabilmente, il killer di Kennedy; è lui che, eliminando Woodward e Bernstein, fa insabbiare lo scandalo Watergate e permette a Nixon di rimanere presidente fin dentro gli anni Ottanta).

Il comico

Perché lo fa? Lo spiega egli stesso, nei flashback che accompagnano il suo funerale. «Ascolta. Una volta che comprendi che tutto è solo uno scherzo, essere il comico è l’unica cosa che abbia un senso. Perché è tutto una burla, tutto una presa in giro. Non c’è nulla di serio, nella vita» (p. 55). «Sono tutti pazzi» dice il Comico, commentando i tumulti che scoppiano a New York nel 1976. «Ma non tu?» gli chiede un altro guardiano, il Gufo Notturno. «No, non io. Io relativizzo e cerco di guardare il lato divertente delle cose». «Ma il paese si sta disintegrando. Che cosa è accaduto all’America? Che fine ha fatto il sogno americano?». «Si è avverato. Lo puoi ammirare ora» (p. 60). Così lo ricorda Rorschach: «Aveva visto il vero volto del ventesimo secolo e aveva scelto di diventarne un riflesso, una parodia» (p. 69).

Nella logica della narrazione anche la «comicità» di Blake ha un limite, e sarà questo limite – il fatto di non accettare che si possa architettare il più grande attentato immaginabile allo scopo di… salvare il mondo – a costargli la vita. D’altronde nessuno dei tormentati personaggi del romanzo – nemmeno il fanatico Rorschach, nemmeno il glaciale Ozymandias – è completamente privo di momenti di ripensamento e di dubbio. Ma del Comico rimane nella mente soprattutto il ghigno demoniaco che sfoggia, ridendo, mentre imbraccia il lanciafiamme.

Così lo descrive il Dr. Manhattan: «Non ho mai incontrato qualcuno così deliberatamente amorale. Si adatta all’atmosfera: la follia, i massacri immotivati… Sono venuto qui per comprendere il Vietnam e le sue implicazioni sulla condizione umana, e capisco che poche persone si possono permettere una tale comprensione. Blake è diverso. Capisce perfettamente… e non gl’importa» (p. 129).

il comico

Per quanto Moore – come detto – non parteggi per alcuna delle cause dei suoi «eroi» e non dia giudizi definitivi, non si può dire che la «comicità» ostentata da questo personaggio – o meglio: il brutale e beffardo cinismo che gli permette di non prendere nulla sul serio – risparmi al lettore la necessità di riflettere. E fa chiedere se tutto ciò abbia a che fare davvero con la «comicità».

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Edward Blake nasce – come personaggio – nel 1986. Solo sei anni prima la penna di Umberto Eco aveva creato Jorge da Burgos, il monaco cieco che ha un ruolo non secondario de Il nome della rosa. Nel duello verbale con il frate investigatore Guglielmo da Baskerville, narrato nel «Settimo Giorno» dell’opera, Jorge giustifica la sua scelta di tener nascosto a ogni costo il secondo libro della Poetica di Aristotele.

«Ma il giorno che la parola del Filosofo giustificasse i giochi marginali della immaginazione sregolata, oh allora veramente ciò che stava a margine balzerebbe nel centro, e del centro si perderebbe ogni traccia (…). Se qualcuno un giorno, agitando le parole del Filosofo, e quindi parlando da Filosofo, portasse l’arte del riso a condizione di arma sottile, se alla retorica della convinzione si sostituisse la retorica dell’irrisione, se alla topica della paziente e salvifica costruzione delle immagini della redenzione si sostituisse la topica dell’impaziente decostruzione e dello stravolgimento di tutte le immagini più sante e venerabili – oh quel giorno anche tu e tutta la sua sapienza, Guglielmo, ne sareste travolti!».

«Perché? Mi batterei, la mia arguzia contro l’arguzia altrui. Sarebbe un mondo migliore di quello in cui il fuoco e il ferro rovente di Bernardo Gui umiliano il fuoco e il ferro rovente di Dolcino (…). Il diavolo è l’arroganza dello spirito, la fede senza sorriso, la verità che non viene mai presa dal dubbio. Il diavolo è cupo perché sa dove va, e andando va sempre da dove è venuto. Tu sei il diavolo e come il diavolo vivi nelle tenebre. Se volevi convincermi, non ci sei riuscito».

Jorge da Burgos

Di fronte al monaco pluriomicida non si può non parteggiare per Guglielmo. Ma rileggendo queste parole a distanza di qualche decennio se ne esce perplessi, se non spaventati, perché Eco non dà al suo «eroe» argomenti puntuali per ribattere a Jorge, se non il richiamo agli scenari cupi che si realizzerebbero in un mondo dominato dalla «serietà». Il frate investigatore è insomma costretto a volare più alto: fa riferimento alle azioni che commettono gli uomini che condannano il riso, più che giudicare la comicità in quanto tale e rispondere all’allarme che Jorge sta lanciando. Vien quasi da pensare che Eco considerasse indifendibile lo slogan «una risata vi seppellirà» (frequentemente usato nel 1977: è noto che Il Nome della Rosa è anche una storia dell’Italia in quegli anni), forse anche a motivo delle sinistre implicazioni di cui tale slogan si era caricato.

Oggi il romanzo di Eco sembra guardare al passato, per quanto a un passato a noi prossimo. Non si tratta tanto dell’ambientazione (medievale) quanto invece dei temi che stanno al centro dell’azione dei protagonisti. Nel dettaglio: negli anni Settanta la «risata» poteva davvero essere considerata un metodo innovativo e rivoluzionario di lotta politica. Leggendo Moore abbiamo di fronte invece anche una parte del nostro presente. In particolare, il supereroe-killer che non arretra di fronte a qualunque impresa perché «tutto è solo uno scherzo» appartiene al nostro tempo, forse più dei suoi compagni dell’universo di Watchmen.

Vediamo quotidianamente un numero incredibilmente alto di persone, a tutti i livelli (anche quelli che comportano una maggiore responsabilità), esprimersi soltanto attraverso l’arma dell’ironia, del dileggio, del sarcasmo. Non lo fanno per sostenere le proprie tesi: lo fanno per distruggere quelle altrui, e spesso più che di annichilimento delle opinioni e di contestazione delle scelte si tratta di distruzione delle persone che quelle opinioni hanno e che quelle scelte hanno compiuto. La «comicità» è, per questi «comici», il passe-partout, il metodo che autorizza qualunque forzatura, lo scudo che impedisce una replica, quasi che la satira si possa davvero collocare al di sopra del bene e del male. Qualunque cosa abbiamo detto, e fatto, contro chiunque – qualunque falsità abbiamo detto, e fatto, contro chiunque – abbiamo solo scherzato.

L’uso di un registro comico non toglie però la capacità di ferire. Anche la comicità è un mezzo che gli uomini e le donne di ogni tempo possono usare: o per creare comunione e armonia, o per seminare divisione e discordia. Il rischio di fare del male è sempre presente: le persone sono impastate di una “divina serietà” che una risata “diabolica” (nel senso etimologico del termine) può distruggere. Chi non prende mai nulla sul serio non ha rispetto per nessuno. E vorrebbe trascinare tutto nell’abisso di vuoto che ha dentro di sé.

Articolo pubblicato su Il Margine, n. 9/2016.

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