La guerra, le domande scomode, le risposte difficili

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Serhiy Žhadan

Serhiy Žhadan è nato nel 1974 nell’Ucraina orientale, è scrittore, poeta e artista che si esibisce in pubblico. In narrativa è esploso con il romanzo Depeche Mode, pubblicato in Italia nel 2008. Polemista e saggista acuto e ironico, è compositore e cantautore, ha creato una band di successo. Vincitore di numerosi premi internazionali, è tradotto in tredici lingue. L’Associazione editori e librai tedeschi gli ha conferito il Premio per la Pace durante la Fiera del libro di Francoforte. Nell’occasione ha pronunciato il discorso che riportiamo.

Le sue mani sono nere e stanche: il grasso è entrato nella pelle, rappreso sotto le unghie. Di solito, le persone con queste mani sanno lavorare e amano farlo. Un’altra cosa è in cosa consista esattamente il loro lavoro.

È basso, silenzioso, preoccupato – in piedi, sta spiegando qualcosa sulla situazione al fronte, sulla sua brigata, sul macchinario che lui – un autista di una delle unità – deve guidare.

All’improvviso valuta qualcosa, e dice: – Siete volontari, comprateci una cella frigorifera. – A cosa ti serve una cella frigorifera al fronte? – Non capiamo. – Se ti serve, andiamo al supermercato, la scegliete e noi la compriamo. No, – spiega, – non capite: mi serve una macchina con una grande cella frigorifera. Una cella frigorifera. Per portare via i morti. Troviamo corpi sdraiati al sole da più di un mese, li portiamo fuori con un minibus, è impossibile respirare. Parla dei morti come del suo lavoro – con calma e misura, senza spavalderia, ma anche senza isterismo.

Ci scambiamo i contatti. In una settimana troviamo una cella frigorifera in Lituania e la portiamo a Kharkiv. Lui e i suoi combattenti arrivano in squadra, portano via solennemente il veicolo, scattano foto con noi per il reportage.

La nostra conoscenza questa volta ha un’arma, gli abiti puliti. Ma le sue mani, se le guardi da vicino, sono ancora nere. Il suo lavoro è quotidiano, duro, le sue mani ne sono la migliore testimonianza.

Cosa cambia la guerra?

Cosa cambia la guerra, in primo luogo? Il senso del tempo, il senso dello spazio. Cambia molto rapidamente il contorno della prospettiva, il contorno della durata del tempo. Una persona nello spazio della guerra cerca di non fare piani per il futuro, prova a non pensare troppo a come sarà questo mondo domani. Ha peso e significato solo ciò che ti accade qui e ora, hanno senso solo le cose e le persone che saranno con te domani mattina al più tardi – se sopravvivi e ti svegli.

Il compito principale resta quello di sopravvivere, andare avanti per un’altra mezza giornata. Poi, in seguito, si vedrà, sarà chiaro come agire ulteriormente, come comportarsi, su cosa fare affidamento in questa vita, da cosa allontanarsi. Questo vale, in larga misura, sia per i militari sia per coloro i quali, da “civili” (cioè disarmati), rimangono nella zona di avvicinamento alla morte.

È questa la sensazione che ti accompagna dal primo giorno della grande guerra – la sensazione di una frattura del tempo, di mancanza di continuità, la sensazione di aria compressa, quando diventa difficile respirare perché la realtà preme, cerca di spingerti dall’altra parte della vita, dall’altra parte del visibile. La pressione degli eventi e delle emozioni, che si dissolvono in un denso flusso sanguinoso che avvolge e afferra… La realtà della guerra è fondamentalmente diversa dalla realtà della pace proprio per questa pressione, questo torchio, questa impossibilità di respirare liberamente e di parlare con facilità. Eppure, è necessario parlare. Anche durante la guerra. Soprattutto durante la guerra.

La guerra cambia la lingua

La guerra cambia indubbiamente la lingua, la sua architettura, il campo del suo funzionamento. La guerra, come uno scarpone straniero viene e rompe il formicaio del linguaggio. Allora le formiche – cioè i portatori della lingua infranta – cercano febbrilmente di ripristinare la struttura distrutta, di riportare ordine in ciò a cui sono abituate, con cui hanno vissuto. Alla fine, tutto torna al suo posto.

Ma questa incapacità di servirsi dei soliti meccanismi, o meglio – l’incapacità delle costruzioni precedenti – pacifiche, prebelliche – di trasmettere la tua condizione, di spiegare la tua rabbia, il tuo dolore e la tua speranza – è particolarmente dolorosa e insopportabile. Soprattutto se sei abituato a fidarti della lingua, abituato a fare affidamento sulle sue possibilità, che ti sembravano quasi inesauribili. Ma si scopre che le possibilità della lingua sono limitate – limitate da nuove circostanze, da un nuovo paesaggio: un paesaggio che si definisce nello spazio della morte, nello spazio della catastrofe.

Il lavoro di ogni singola formica è ripristinare la coerenza generale di questo discorso collettivo, il suono generale, la comunicazione, la comprensione.

Chi è lo scrittore in questo caso? La formica stessa, sbalordita come tutti gli altri. Dall’inizio della guerra, tutti stiamo riacquistando questa capacità interrotta: la capacità di esprimerci chiaramente. Tutti stiamo cercando di spiegare noi stessi, la nostra verità, le misure delle nostre rotture e del nostro trauma. La letteratura, forse, ha qualche possibilità in più in questo caso. Perché è geneticamente legata a tutte le catastrofi e rotture linguistiche precedenti.

Come parlare della guerra?

Come parlare della guerra? Come regolarsi con toni che contengono tanta disperazione, rabbia, risentimento, ma, allo stesso tempo, forza e disponibilità a non abbandonare i suoi, a non ritirarsi?

Mi sembra che ora il problema di dire le cose più importanti non riguardi soltanto noi stessi. Anche il mondo che ci ascolta non è sempre in grado di capire una cosa semplice, perché parliamo con livelli troppo diversi di emotività linguistica, tensione linguistica, apertura linguistica.

Gli ucraini non devono giustificare le loro emozioni, ma sarebbe bene spiegarle. Perché? Almeno per non tenere per noi tutto questo dolore e tutta questa rabbia. Possiamo spiegarci, possiamo parlare di tutto quello che è successo con noi e che succederà ancora. Dobbiamo solo essere pronti al fatto che si tratterà di una conversazione piuttosto difficile. Ma, in un modo o in un altro, dobbiamo cominciare oggi.

Qui un elemento importante sembra il carico diverso e la colorazione diversa del nostro vocabolario. Sembra che si tratti di ottica, di un altro sguardo, di un altro punto di vista, ma soprattutto di linguaggio.

A volte sembra che il mondo, guardando a ciò che sta accadendo in Europa orientale negli ultimi sei mesi, utilizzi un vocabolario e delle definizioni che, da tempo, non spiegano più nulla di ciò che sta accadendo. Infatti, cosa intende il mondo (capisco il carattere effimero e l’astrattezza di questa definizione, ma la userò comunque) quando parla del “bisogno di pace”?

Sembrerebbe che si tratti della cessazione della guerra, della fine del conflitto armato, del momento in cui l’artiglieria tace e arriva il silenzio. Sembrerebbe che questa sia la cosa che dovrebbe portarci a una comprensione. Dopotutto, cosa vogliamo, noi ucraini, più di tutto? Certo, la fine di questa guerra. Certo, la pace. Certo, la cessazione dei bombardamenti.

Personalmente, come uno che abita al diciottesimo piano nel centro di Kharkiv, dove dalle finestre in alto si può vedere il lancio dei missili da parte dei russi dalla vicina Belgorod, desidero con tutto il cuore, appassionatamente, la fine degli attacchi missilistici, la fine della guerra, un ritorno alla normalità, alla naturalezza dell’esistenza.

Allora, cosa mette in guardia spesso gli ucraini rispetto alle dichiarazioni degli intellettuali o dei politici europei sulla necessità della pace? Certo, non si nega la necessità della pace. Si tratta piuttosto di capire che la pace non arriverà solo perché la vittima dell’aggressione ha deposto le armi. La popolazione civile di Buča, Hostomel’ e Irpin’ non aveva armi. Ciò non ha salvato queste persone da una morte terribile.

Anche i residenti di Kharkiv, verso cui i russi sparano regolarmente e caoticamente con i razzi, non possiedono armi. Cosa dovrebbero fare, secondo i sostenitori di una pace rapida ad ogni costo? Dove tracciare per loro il confine tra il sostegno alla pace e il non sostegno alla resistenza? Secondo me, quando oggi si parla di pace, nel contesto di questa guerra sanguinosa, drammatica, scatenata dalla Russia, alcuni non vogliono notare un semplice fatto: non c’è pace senza giustizia.

Ci sono diverse forme di conflitto congelato, ci sono territori temporaneamente occupati, ci sono bombe a orologeria camuffate da compromessi politici, ma purtroppo non c’è la pace – la vera pace, quella che dà un senso di sicurezza e di prospettiva.

E oggi, rimproverando gli ucraini di non essere pronti ad arrendersi, quasi come un segno di militarismo e radicalismo, una parte degli europei (devo dire abbastanza insignificante, ma comunque esistente) fa una cosa incredibile: cercando di rimanere nella zona di comfort, va tranquillamente oltre i limiti dell’etica.

E questa non è una domanda per gli ucraini – è una domanda per il mondo, per la sua disponibilità (o meno) a ingoiare l’ennesimo male totale e incontrollato a favore di un dubbio mercantilismo e di un falso pacifismo.

Dopo tutto, questo atteggiamento si è rivelato per alcuni una forma piuttosto conveniente per spostare la responsabilità da sé stessi: appellarsi a persone che stanno difendendo la propria vita, incolpare la vittima, spostare l’accento, manipolare slogan buoni e positivi.

Invece, tutto è molto più semplice: noi aiutiamo il nostro esercito non perché vogliamo la guerra, ma perché vogliamo davvero la pace. Ma il modo morbido e discreto di arrendersi che ci viene proposto con il pretesto della pace non è la via per una vita pacifica e per la ricostruzione delle nostre città.

Forse, la resa degli ucraini aiuterà gli europei a risparmiare sull’energia, ma come si sentiranno gli europei stessi, rendendosi conto (e sarà impossibile non rendersene conto) che il calore delle loro case è stato pagato dalle vite e dalle case distrutte di persone che volevano vivere in un paese pacifico e tranquillo?

Un questione di linguaggio

È solo, ripeto, una questione di linguaggio. Di quanto usiamo in modo accurato e proprio queste o quelle parole, di quanto è calibrata la nostra intonazione quando parliamo di essere in bilico tra la vita e la morte.

Quanto del nostro vocabolario precedente – il vocabolario che ieri ci ha permesso di parlare in modo efficace di questo mondo – è sufficiente ora per parlare di ciò che ci fa male o, al contrario, ci dà forza?

In fondo, tutti noi ci troviamo in questo momento in un punto del discorso di cui non abbiamo mai parlato prima; di conseguenza, abbiamo ora un sistema di valutazione e di percezione spostato, coordinate di significato cambiate, confini di convenienza mutati. Ciò che dall’esterno, o accanto, può sembrare un discorso sulla morte, in realtà è molto spesso un tentativo disperato di aggrapparsi alla vita, alla sua possibilità, alla sua continuità.

In generale, in questa realtà nuova, spezzata, spostata, dove finisce il tema della guerra, dove comincia la zona della pace? Una cella frigorifera con i corpi dei morti: si tratta ancora di pace o già di guerra? Le donne che vengono portate in luoghi dove non ci sono bombardamenti – è un aiuto per che cosa? Risoluzione pacifica del conflitto? Il laccio emostatico che hai acquistato per un soldato, che gli salva la vita, è ancora un aiuto umanitario o è già un aiuto per chi combatte? E, in generale, aiutare coloro che stanno combattendo per te, per i civili negli scantinati, per i bambini nella metropolitana – è oltre i limiti di una conversazione decente sul bene e l’empatia? Dobbiamo ricordarci del nostro diritto di continuare a esistere in questo mondo, o questo diritto è ovvio e innegabile?

È accaduto che molte cose, fenomeni e concetti, ora richiedano, se non una spiegazione, almeno un richiamo, una nuova discussione, una nuova accettazione.

La guerra di solito mostra ciò che cerchiamo di ignorare per molto tempo, la guerra è un momento di domande scomode e di risposte difficili.

Un groviglio di interrogativi

Questa guerra, iniziata dall’esercito russo, ha improvvisamente significato anche tutta una serie di questioni che vanno ben oltre il contesto delle relazioni russo-ucraine. In un modo o nell’altro, nei prossimi anni, dovremo parlare di argomenti scomodi – di populismo e doppi standard, di irresponsabilità e di conformismo politico, di etica, che – come si è scoperto – è da tempo e irrimediabilmente scomparsa dal lessico di coloro che fanno le scelte decisive nel mondo contemporaneo.

Possiamo dire che questi argomenti riguardano la politica, che dovremo parlare proprio di lei, di politica. Tuttavia, la politica in questo caso è solo un paravento, una copertura, un’occasione per evitare gli spigoli vivi e per non chiamare le cose con il loro nome. E le cose hanno bisogno proprio di questo: di essere chiamate con il loro nome. Di chiamare i crimini “crimini”. Di chiamare la libertà “libertà”. Di chiamare la meschinità “meschinità”.

In tempo di guerra, queste parole suonano particolarmente espressive e taglienti. È molto difficile evitarle senza farsi male. Ed è necessario non evitarle, assolutamente è necessario non farlo.

È triste e indicativo: parliamo del Premio per la pace in un momento in cui di nuovo c’è la guerra in Europa. Sta accadendo non molto lontano da qui. In realtà, la cosa va avanti da diversi anni. In tutti questi anni, mentre c’era la guerra, è stato assegnato il Premio per la pace.

Il punto, ovviamente, non riguarda il premio come tale. La questione è quanto oggi l’Europa sia pronta ad accettare questa nuova realtà – la realtà in cui ci sono città distrutte (con le quali era possibile fare affari comuni fino a poco tempo fa), la realtà in cui ci sono fosse comuni (dove giacciono cittadini ucraini, che solo ieri potevano venire nelle città tedesche per fare acquisti o visitare musei), la realtà in cui esistono campi di filtraggio per gli ucraini che sono stati occupati (campi, occupazione, collaborazionisti – parole che difficilmente vengono usate nel linguaggio quotidiano degli europei).

È anche una questione di come tutti noi possiamo continuare a vivere in questa realtà – con città abbattute, scuole bruciate, libri distrutti. Anzitutto, con migliaia di morti, quelli che proprio ieri vivevano una normale vita tranquilla, facevano progetti, vivevano con le loro preoccupazioni, si affidavano alla propria memoria. Anche qui la menzione della memoria è importante, ed ecco perché: la guerra non è solo un’esperienza diversa; parlare così è parlare del superficiale, di ciò che sta in superficie, di ciò che descrive molto, ma spiega poco.

La guerra cambia la memoria

In effetti, la guerra cambia la nostra memoria, riempiendola di ricordi troppo dolorosi, traumi troppo profondi e conversazioni troppo amare. Non sarai in grado di liberarti di questi ricordi, non sarai in grado di riparare il passato. Farà parte di te d’ora in poi. E non è certo la parte migliore.

Ecco, questo processo di intorpidimento e di recupero del respiro, l’esperienza del silenzio e la ricerca di un nuovo linguaggio: è troppo doloroso, perché dopo tu possa continuare a parlare con noncuranza dello straordinario mondo fuori dalla finestra.

La poesia dopo Buča e Izyum, indubbiamente, è possibile, soprattutto è necessaria. Tuttavia, l’ombra di Buča e Izyum, la loro presenza peserà parecchio in questa poesia del dopoguerra, determinandone in gran parte il contenuto e la tonalità.

Questa presa di coscienza dolorosa ma necessaria, che d’ora in poi il contesto degli scritti nel tuo Paese saranno le fosse comuni e i quartieri bombardati, non aumenta certo l’ottimismo, ma aumenta la comprensione che la lingua ha bisogno del nostro lavoro quotidiano, del nostro costante contatto, del nostro coinvolgimento. In fondo, cosa abbiamo per esprimerci, per spiegarci? La nostra lingua e la nostra memoria.

Dalla fine di febbraio, cioè dall’inizio di questo massacro, si è percepito chiaramente come il tempo perdesse la sua dimensione abituale, il suo scorrere. In sostanza, è diventato come un fiume d’inverno, che si congela fino in fondo, interrompendo la corsa e paralizzando tutti coloro che si sono trovati in mezzo a questo torrente ghiacciato. Ci siamo ritrovati in questa densa immobilità, nel mezzo di una fredda atemporalità.

Ricordo molto bene questa impotenza: succede quando non percepisci il movimento, quando sei perduto nel silenzio, incapace di vedere cosa c’è là, davanti a te, nel buio e nel silenzio.

Il tempo della guerra è davvero il tempo del panorama infranto, delle comunicazioni interrotte tra passato e futuro, il tempo di un sentimento più acuto e amaro del presente, un’immersione nello spazio che ti circonda, un’attenzione al momento che ti riempie.

Ci sono alcuni segni di fatalismo in questo, quando smetti di fare progetti e di pensare al futuro, cercando prima di tutto di radicarti nel presente, proprio sotto questo cielo, che si dispiega sopra di te ed è l’unico ricordo che il tempo passa, i giorni si trasformano in notti, dopo la primavera deve venire l’estate e, nonostante tutta la rigidità dei tuoi sentimenti, nonostante tutto il torpore, la vita continuerà, non si fermerà un attimo, contenendo tutte le nostre gioie e paure, tutta la nostra disperazione e tutta la speranza. È semplicemente cambiata la distanza tra te e la realtà. La realtà è diventata più vicina. La realtà è diventata più spaventosa. Ora dovrai convivere con questo.

L’importanza dello sguardo

Cos’altro, oltre al linguaggio e alla memoria? Cos’altro è cambiato in noi? Cosa ci distinguerà ora in ogni compagnia, in ogni folla? Forse gli occhi. Assorbono il fuoco esterno, avranno sempre questo riflesso. Lo sguardo di una persona che ha indirizzato gli occhi al di là del visibile, che ha guardato nell’oscurità e che lì è riuscita persino a vedere qualcosa – questo sguardo sarà sempre diverso, perché in esso si riflettono cose troppo significative.

In primavera, da qualche parte nel mese di maggio, siamo venuti con uno spettacolo presso un’unità militare che si riposava dopo lunghe e dure battaglie. Una parte di loro li conosciamo da molto tempo: li abbiamo regolarmente visitati dal 2014 con delle esibizioni. Un sobborgo di Kharkiv, vegetazione fresca, un campo da calcio, una piccola sala riunioni.

Conosciamo personalmente molti dei combattenti. Tanti di loro, vecchi amici, cittadini di Kharkiv, sono andati in guerra questa primavera. È insolito vederli in uniforme, con le armi in mano. E ancora più insoliti sono i loro occhi: come metallo ghiacciato, come vetro che riflette il fuoco.

Era il secondo mese della grande guerra, erano stati in trincea sotto i bombardamenti russi. Ora sono in piedi, sorridono, scherzano. E questi occhi, in cui si possono vedere due mesi di inferno!

«Sono stato all’ospedale – racconta uno di loro –. I russi sparavano proiettili al fosforo, sono stato colpito. Ma niente: sono vivo, in salute. Presto tornerò al fronte».

È il caso in cui semplicemente non sai cosa rispondere: la lingua tradisce, la lingua non basta, si cercano solo le parole necessarie. Ma verranno sicuramente trovate.

Quale sarà la nostra lingua dopo la guerra? Cosa dovremo spiegarci l’un l’altro? Prima di tutto, dovremo pronunciare ad alta voce i nomi dei morti. Devono essere nominati. Altrimenti, sarà un grande strappo nel linguaggio, un vuoto tra le voci, una frattura nella memoria. Avremo bisogno di molta forza e fede per parlare dei nostri morti. Perché con i loro nomi saranno formati i nostri dizionari.

Ma non avremo bisogno di minore forza, fiducia e amore per parlare del futuro, per dargli voce, per conversarne, per delinearlo. In un modo o nell’altro, dovremo recuperare il senso del tempo, il senso della prospettiva, il senso della continuità. Siamo condannati al futuro, anzi ne siamo responsabili. Si sta ora formando dalle nostre visioni, dalle nostre convinzioni, dalla nostra volontà di assumercene la responsabilità.

Ritroveremo il senso del nostro futuro, perché nella nostra memoria rimangono troppe cose che hanno bisogno del nostro coinvolgimento domani. Siamo tutti collegati da questo flusso che ci trasporta, che non ci lascia andare, che ci unisce. Siamo tutti collegati dalla nostra lingua. E, anche se, a un certo punto, le sue possibilità ci sembrano limitate e insufficienti, saremo in qualche modo costretti a tornare a queste possibilità, che ci fanno sperare che in futuro non ci saranno disaccordi o incomprensioni tra di noi.

La lingua, qualche volta, sembra debole. Tuttavia, in molti casi è una fonte di forza. Può ritirarsi da te per un poco, ma non è in grado di tradire. Questa è la cosa principale e decisiva. Finché abbiamo la nostra lingua, abbiamo almeno una vaga possibilità di spiegarci, di dire la nostra verità, di mettere ordine nella nostra memoria. Perciò parliamo, parliamo… Anche quando le nostre parole fanno male alla gola. Anche quando ti fanno sentire perduto e vuoto.

Dietro la voce, c’è la possibilità della verità. E vale la pena sfruttare questa opportunità. Forse questa è la cosa più importante che possa capitare a tutti noi.

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