Le regole esistono ancora?

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regole, comandamenti, beatitudini

Rembrandt, Mosè distrugge le Tavole della Legge

Si dice spesso che i ragazzi non siano in grado di rispettare le regole: fanno di testa loro e, alla fine, non riescono a orientarsi.

Molti ondeggiano con gli studi, per non parlare di occupazione, diventata una chimera per gli oltre 40% dei disoccupati. Se abitano al Sud è tragedia: sopravvivono in casa con l’aiuto di genitori e nonni, se ci sono. Per la verità non è vero per tutti. C’è chi sa – già da piccolo – che cosa vuole dalla vita.

L’attenzione va spostata sugli adulti. Le regole per l’educazione, per la famiglia, per la vita civile, per l’economia, per la religione esistono, ma sono osservate ad libitum (a piacimento).

In sociologia hanno individuato tre grandi filoni di interpretazione del rispetto delle regole. Esse sarebbero imposte appellando alla razionalità umana (prima ipotesi); oppure sarebbero frutto di interessi di pochi (seconda ipotesi); infine, sarebbero il risultato del “costume”, cioè dell’aria che tira in quel momento (terza ipotesi).

Probabilmente viviamo tutte e tre le ipotesi e, a seconda delle circostanze, prevalgono orientamenti razionali, personali, di gruppo.

Sfumature del bene e del male

Ciò che impressiona sono le sfumature del bene e del male. Ad un primo tentativo di interpretazione personale del bene e del male segue lo spostamento dei paletti della condotta: ciò che è giusto viene stravolto, nonostante i principi generali pure accettati.

Tra i mille esempi è facile ricordare la convivenza prematrimoniale. I corsi per “fidanzati” svolti nelle parrocchie stentano ad avere senso perché i nubendi non sono più fidanzati, ma vivono “insieme”. L’accelerazione della vita in comune e il ritardo dell’impegno matrimoniale non sono più problema. Né è detto che alla convivenza debba seguire il matrimonio.

Nella vita civile – altro esempio – gli orientamenti delle scelte politiche vacillano secondo il momento. Sono scomparsi i programmi e le ipotesi dei partiti e dei rappresentanti del popolo. Prevalgono impressioni, slogan, gossip. La propria adesione oscilla tra la tutela dei propri interessi e le simpatie istintive ed emotive.

Così per la religione: le messe più frequentate sono quelle funebri, con abbondanza di comunioni, perché è bello e giusto accompagnare una persona cara, partecipando alla cerimonia d’addio.

E le regole? Non sono più tali perché interpretate a proprio consumo. Né la coscienza mette in dubbio il comportamento. Dio dipende da un interruttore che si può accendere, spegnere e spesso dimenticare.

Una religione positiva

Un aiuto per affrontare una situazione umanamente e religiosamente difficile è proporre la religiosità come benessere. Tema molto caro alla sensibilità moderna. La nostra predicazione e la nostra morale è troppo precettiva: fare e non fare, con annesso il premio e/o la punizione.

Eppure il profondo dello spirito del Vangelo offre gioia, felicità, pace, alla fin fine la visione di Dio. A ben riflettere, lo stesso Signore lascia detto: «Non crediate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non sono venuto ad abolire, ma a dare pieno compimento» (Mt 5,17).

Le beatitudini, spesso proposte così difficili da farle diventare irraggiungibili, in verità indicano al cristiano di essere umile, mite, consolatore, giusto, misericordioso, sincero, pacifico, fedele. Sono le caratteristiche che gradiremmo incontrare a contatto con gli altri.

Il passaggio vero è tra la visione dei sensi, che è di immediato approccio, e la visione che sale verso lo spirito. I sensi offrono impressioni, simpatie e antipatie, l’esteriorità e la frammentarietà delle cose e delle persone. Le regole sono possibili se, dietro ad esse, si intravvede uno scenario migliore.

Un esempio tra molti: la dieta necessaria al benessere fisico è accolta volentieri, perché suggerita dal nutrizionista, pure a pagamento. Il digiuno viene percepito come un obbligo moralistico dei preti. San Benedetto, nella regola benedettina, suggeriva di mangiare legumi e solo una volta alla settimana la carne; i vegani hanno scoperto l’acqua calda dopo mille e cinquecento anni!

Il cristianesimo, con le sue indicazioni, è una religiosità profondamente umana. Innalza l’umanità alla prospettiva alta della perfezione. È come se si vedesse la terra dal cielo a diecimila metri di altezza; le cose materiali diventano relative e si inquadrano in una visione completa e rassicurante.

Se non si percepisce la connessione tra la vita di tutti i giorni e Dio, la religiosità diventa astratta, tradizione sorpassata, impegno relativo.

Ancor più deleteria la visione intellettualistica: l’ossessione della verità non corrisponde nemmeno alla morale classica che prevede, oltre la materia, anche la libertà e il libero consenso.

Inutile insistere, fino alla noia, sui comandi. Il peccato è il superamento del limite. Un cibo dolce piace, perché Dio ci ha dotato di papille gustative: se esageri, fai male prima di tutto a te stesso e poi agli altri. Da qui l’invito alla sobrietà. Così per tutti i vizi capitali.

La visione medioevale della penitenza e del rifiuto delle cose terrene può lasciar spazio a una costruzione positiva della vita: sia fisica che morale.

La prospettiva vale per la storia delle singole persone, delle famiglie, ma anche dei popoli e del mondo intero. Una terra non inquinata porta benefici; una città senza crimini è più vivibile; il rispetto delle persone, soprattutto quelle più fragili, garantisce giovamento a tutti.

Papa Bergoglio, riferendo la testimonianza di Francesco d’Assisi, nell’enciclica Laudato si’, scrive: «Se noi ci accostiamo alla natura e all’ambiente senza questa apertura allo stupore e alla meraviglia, se non parliamo più il linguaggio della fraternità e della bellezza nella nostra relazione con il mondo, i nostri atteggiamenti saranno quelli del dominatore, del consumatore o del mero sfruttatore delle risorse naturali, incapace di porre un limite ai suoi interessi immediati. Viceversa, se noi ci sentiamo intimamente uniti a tutto ciò che esiste, la sobrietà e la cura scaturiranno in maniera spontanea. La povertà e l’austerità di san Francesco non erano un ascetismo solamente esteriore, ma qualcosa di più radicale: una rinuncia a fare della realtà un mero oggetto di uso e di dominio» (n. 11).

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