Lévinas: dall’esistenza all’esistente

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Pubblicato nel 1947, in pieno clima esistenzialistico, Dall’esistenza all’esistente di Emmanuel Lévinas, ora riproposto da Marietti 1820 (pagine 112 , 10 euro) con una premessa di Pier Aldo Rovatti, è stato elaborato ancor prima della guerra e scritto quasi interamente durante la prigionia in campo di concentramento.

È un controcanto a Essere e tempo di Heidegger, ma soprattutto la prima opera in cui il filosofo disegna i contorni di un suo pensiero autonomo e articolato, dopo i saggi su Husserl e su Heidegger degli anni Trenta, il breve scritto sull’«evasione» del 1935 e le prime riflessioni sull’ebraismo.

Dal volume proponiamo le pagine dell’introduzione di E. Lévinas.

A_Levinas_Dallesistenza_miniok.inddLa distinzione tra ciò che esiste e questa stessa esistenza, tra l’individuo, il genere, la collettività, Dio, che sono esseri designati da sostantivi e l’evento o l’atto della loro esistenza, si impone alla meditazione filosofica e si cancella attraverso di essa con la stessa facilità. È quasi una vertigine per il pensiero affacciarsi sul vuoto del verbo esistere di cui sembra non si possa dire nulla e che diventa intelligibile solo nel suo participio – l’esistente –, in ciò che esiste.

Il pensiero scivola impercettibilmente dalla nozione di essere in quanto essere, di ciò per cui un esistente esiste – all’idea di causa dell’esistenza, di un «essente in generale», di un Dio, la cui essenza comprenderà, a rigore, solo l’esistenza, ma che non di meno sarà un «essente», non già il fatto o l’azione, il puro evento o l’opera d’essere. Quest’ultima sarà intesa nella sua confusione con l’«essente».

La difficoltà di separare l’essere e l’«essente» e la tendenza a considerarli l’uno nell’altro, non sono certamente casuali. Derivano dall’abitudine di porre l’istante, atomo del tempo, al di là di ogni evento. La relazione tra «essente» e «essere» non collega due termini indipendenti. L’«essente» ha già fatto un patto con l’essere; non possiamo isolarlo. Esso è. Esercita già sull’essere lo stesso dominio che il soggetto esercita sull’attributo. E lo fa in quell’istante che per l’analisi fenomenologica è indivisibile.

Essere ed essente

Ci si può però chiedere se questa aderenza tra l’«essente» e l’essere sia data semplicemente nell’istante, se non sia invece lo stare stesso dell’istante che la realizzi; se l’istante non sia l’evento stesso attraverso il quale nell’atto puro, nel puro verbo essere, nell’essere in generale, si pone un «essente», un sostantivo che se ne rende padrone; e ancora se l’istante non sia la «polarizzazione» dell’essere in generale. Il cominciamento, l’origine, la nascita, offrono proprio una dialettica in cui questo evento in seno all’istante, diviene sensibile. Per il cominciamento dell’«essente» non basta trovare una causa che lo crei, bisogna invece spiegare ciò che, in esso, accoglie l’esistenza.

Ma ciò non significa che la nascita sia l’accoglienza di un deposito o di un dono da parte di un soggetto preesistente; anche la creazione ex nihilo, che comporta una pura passività da parte della creatura, le impone, nell’istante del suo sorgere, che è ancora l’istante della creazione, un atto sul proprio essere, la padronanza del soggetto sul proprio attributo. Il cominciamento è già questo possesso e questa attività d’essere. L’istante non è un blocco, è articolato. E proprio grazie a questa articolazione si differenzia dall’eterno che è semplice e estraneo all’evento.

Ma che cos’è l’evento d’essere, l’essere in generale, staccato dall’«essente» che lo domina? Che cosa significa questa sua generalità? Senz’altro qualcosa di diverso da quella del genere. Già il «qualcosa» in generale, la pura forma d’oggetto che esprime l’idea dell’«essente» in generale, si pone al di sopra del genere, poiché non scende verso le specie attraverso l’aggiunta di differenze specifiche. All’idea di «essente» in generale deve già essere attribuito il nome di trascendente che gli aristotelici medioevali davano all’uno, all’essere e al bene. Ma la generalità dell’essere  di ciò che costituisce l’esistenza dell’esistente non equivale a questa trascendenza.

L’essere rifiuta ogni specificazione e non specifica nulla. Non è né una qualità che un oggetto supporta, né il supporto di qualità, né l’atto di un soggetto, e tuttavia, nell’espressione «ciò è», l’essere diventa attributo poiché siamo immediatamente obbligati a dichiarare che questo attributo non aggiunge nulla al soggetto. Ma allora nella difficoltà di capire quale sia la categoria per cui l’essere appartiene a un «essente» non si deve forse scorgere il segno del carattere impersonale dell’essere in generale? Non è forse attraverso un’inversione, grazie a quell’evento che è il presente e che costituisce il tema principale di questo libro, che l’essere in generale diventa l’essere di un essente? E come possiamo accostarlo se l’essere per se stesso rifiuta ogni forma personale?

La nudità dell’essere

Il nostro lavoro si articola dunque così: tenta di avvicinarsi all’idea dell’essere in generale nella sua impersonalità per analizzare poi la nozione di presente e la posizione in cui sorge, all’interno dell’essere impersonale, come per effetto di un’ipostasi, un essere, un soggetto, un esistente. Si tratta di questioni che non vengono poste a partire da se stesse. Ci sembra infatti che derivino da alcune posizioni dell’ontologia contemporanea che ha permesso di rinnovare la problematica filosofica.

Nella filosofia contemporanea la rinascita dell’ontologia non ha più nulla in comune con il realismo. La ricerca non presuppone l’affermazione dell’esistenza del mondo esterno e del suo primato in rapporto alla conoscenza. Afferma invece che il fatto essenziale della spiritualità umana non risiede nella nostra relazione con le cose che compongono il mondo, ma è determinata da un rapporto che abbiamo fin da subito, grazie alla nostra esistenza, con il fatto stesso che c’è dell’essere, con la nudità di questo semplice fatto.

Questa relazione, lungi dal nascondere una tautologia, costituisce un evento la cui realtà e il cui carattere in qualche modo sorprendente si annunciano nell’inquietudine che lo compie. Il male dell’essere, il male della materia della filosofia idealistica, diviene ora il mal d’essere.

La preoccupazione di questo rapporto tra l’io e la sua esistenza, l’apparire dell’esistenza come un peso da assumere, diventano particolarmente pressanti in alcune situazioni che l’analisi filosofica lascia solitamente alla psicologia e a cui noi vogliamo riferirci: la fatica e la pigrizia.

Se per ciò che concerne la nozione di ontologia e la relazione che l’uomo intrattiene con l’essere, le nostre riflessioni si ispirano, all’inizio, in larga misura alla filosofia di Martin Heidegger, esse sono spinte dal bisogno profondo di abbandonare il clima di tale filosofia e dalla convinzione che da essa non si può uscire in direzione di una filosofia che potremmo chiamare pre-heideggeriana.

L’idea che sembra guidare l’interpretazione heideggeriana dell’esistenza umana, consiste nel concepire l’esistenza come estasi, possibile, quindi, solo come un’estasi verso la fine; e, di conseguenza, nel fatto di porre il tragico dell’esistenza in quella finitezza e in quel nulla in cui l’uomo si getta nella misura in cui esiste. L’angoscia, comprensione del nulla, è comprensione dell’essere solo nella misura in cui l’essere stesso si determina attraverso il nulla. L’essere privo d’angoscia sarebbe l’essere infinito, se questa nozione non fosse contraddittoria. La dialettica tra l’essere e il nulla continua a dominare l’antologia heideggeriana in cui il male è sempre difetto, cioè deficienza, mancanza d’essere, e cioè nulla.

Esistenza tragica

emmanuel lévinasIl nostro tentativo sarà quello di metter in questione l’idea del male come difetto. L’essere non ha in sé difetti diversi da quello della limitazione e del nulla? Non c’è insito nella sua stessa positività un qualche male? L’angoscia di fronte all’essere – l’orrore dell’essere – non è forse tanto originaria quanto l’angoscia di fronte alla morte? La paura d’essere tanto originaria quanto quella per l’essere?

Anzi, ancor di più, poiché solo grazie alla prima sarebbe possibile rendere conto di quest’ultima. L’essere e il nulla, che nella filosofia di Heidegger sono equivalenti e coordinati, non sono forse fasi di un fatto d’esistenza più generale, che non è più costituito in alcun modo dal nulla? Lo chiameremo il fatto dell’il y a in cui l’esistenza soggettiva di cui parla la filosofia esistenziale e l’esistenza oggettiva del vecchio realismo si trovano ad essere confuse.

L’il y a ci possiede completamente, proprio per questo non possiamo prendere alla leggera il nulla e la morte e tremiamo di fronte ad essi. La paura del nulla misura solo il nostro investimento nell’essere. In quanto tale, e non in virtù della sua finitezza, l’esistenza nasconde un elemento tragico che la morte non può risolvere.

 

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