L’uomo è ancora al centro dell’universo?

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Piero Benvenuti

Nel contesto della presentazione degli Atti del 21° Seminario nazionale di gnomonica, raccolti in un ricco volume di 200 pagine, il 15 dicembre scorso all’Auditorium di Valdobbiadene è intervenuto come ospite il prof. Piero Benvenuti. Professore emerito di astrofisica all’università di Padova, Benvenuti è stato responsabile scientifico per l’Agenzia spaziale europea, presidente dell’Istituto nazionale di astrofisica e membro dell’Agenzia spaziale italiana. Nel 2015 è stato nominato segretario generale dell’Unione astronomica internazionale, carica che ricopre tuttora. Si interessa attivamente del dialogo tra scienza e teologia: è docente del corso su creazione ed evoluzione presso la Facoltà teologica del Triveneto di Padova e, nel 2011, è stato nominato da Benedetto XVI consultore del Pontificio consiglio della cultura.

– Prof. Benvenuti, viviamo un’epoca di grandi scoperte astronomiche che vede – ad esempio – i telescopi astronomici portati nello spazio. Non è vero?

Oggi il progresso dell’astronomia è legato soprattutto ad una strumentazione sempre più sofisticata. Da quando, negli anni ’60, si è cominciato ad utilizzare la tecnologia spaziale per portare i nostri strumenti osservativi al di fuori dell’atmosfera, è iniziata una vera rivoluzione: abbiamo visto fenomeni di cui non avevamo ipotizzato nemmeno l’esistenza.

Recentemente abbiamo assistito ad un grande evento: la recezione di segnali come le onde gravitazionali. Le aveva previste Einstein nella sua teoria della relatività generale ma non erano mai state viste perché talmente deboli da richiedere uno sviluppo tecnologico straordinario.

Il progresso della tecnologia ha permesso di capire qual è la storia del nostro universo e di pensare un modello cosmologico nuovo che mette l’uomo al centro dell’evoluzione: non più in senso geometrico, come nel modello aristotelico-tolemaico, ma come punto di arrivo di un percorso di 14 miliardi di anni.

– Oggi allora ha ancora senso occuparsi di “meridiane” solari?

In questo tempo ha ancora valore il sistema dello gnomone (l’asticella al centro della meridiana, ndr), che nella sua formulazione più semplice è un bastone piantato per terra che permette di seguire cosa fa l’ombra, a seconda del movimento del sole e delle stagioni. Questo strumento è legato alla cultura e alla tradizione di tutti i popoli del mondo: non c’è cultura e non c’è civiltà che non abbia sviluppato delle conoscenza di astronomia, a partire da quelle più semplici relative al sole. Il suo movimento, solo apparentemente è regolare, ma – come sa bene chi si occupa di meridiane – non è esattamente così: da qui si origina l’avventura dell’astronomia che nasce nell’antichità.

Guardare avanti attraverso i nuovi strumenti è fondamentale per capire sempre meglio il nostro universo; ma è necessario anche guardare indietro per recuperare la storia e affondare le radici nella nostra tradizione. Per questo è molto importante che ci siano anche oggi dei gruppi di appassionati che continuano a coltivare interesse scientifico per le meridiane.

scoperte astronomiche

– Lei ha menzionato le “onde gravitazionali”: perché questo risultato è così importante per la scienza?

Questa scoperta ha creato una grande emozione tra gli scienziati. Le onde erano state previste da Einstein, che aveva intuito che lo spazio – quello che noi intuitivamente conosciamo – non è inerte né assoluto o estraneo alla nostra presenza; ma si modifica per effetto della presenza della massa. Il sole, ad esempio, modifica lo spazio attorno a sé.

Questo fenomeno è stato provato per la prima volta durante un’eclissi di sole nel 1919. Allora gli astronomi fecero delle fotografie durante l’eclisse totale – il cielo si oscura e le stelle diventano visibili – alle stelle vicine al bordo del sole. La posizione delle stelle durante l’eclissi venne confrontata con la loro posizione quando il sole non c’era: notarono che la posizione era diversa, perché la luce proveniente dalla stelle, passando vicino al bordo del sole, veniva deviata. Scoprirono così che lo spazio si curva vicino alle grandi masse.

Una volta verificato questo fatto – incredibile all’epoca –, Einstein pensò che, se fosse stata spostata la massa, la perturbazione provocata si sarebbe propagata nello spazio, dando origine alle cosiddette onde gravitazionali. In sostanza, lo spazio vibra per effetto dello spostamento delle masse (che devono essere però masse molto concentrate).

– Una volta ammessa l’esistenza delle onde gravitazionali, si trattava di misurarle. Come?

Il problema era effettivamente rilevarle. Siccome queste onde sono delle vibrazioni, bisogna isolare il rilevatore da qualsiasi altra vibrazione. C’è stato un lavoro di quasi 70 anni di raffinamento della tecnologia per poter sentire queste onde e due anni fa è successo.

Per essere sicuri che si trattasse di onde gravitazionali e non di altre vibrazioni, i rilevatori sono stati collocati a migliaia di chilometri di distanza l’uno dall’altro: uno a Cascina (Pisa) e due negli Stati Uniti. Se il segnale viene visto esattamente nello stesso istante con le stesse caratteristiche dai tre rivelatori, c’è da aspettarsi che sia un segnale che viene dal cielo.

La grande novità di due mesi fa è che questa rilevazione è stata fatta non solo da strumenti che rivelano le onde gravitazionali, ma anche da strumenti spaziali che vedono i lampi gamma (i raggi gamma si emettono nelle esplosioni delle bombe atomiche, che sprigionano energie enormi, ndr): si son visti contemporaneamente un lampo gamma e un’onda gravitazionale. Così si è avuta la conferma di ciò che sta all’origine di questi fenomeni. In questo caso si tratta di due stelle compatte – stelle di neutroni – che diventano una sola: ruotando una attorno all’altra, alla fine “coalescono” cioè diventano una sola stella (probabilmente un buco nero). Da questo evento catastrofico c’è una grande emissione di energia e anche di onde gravitazionali.

– L’importanza è limitata all’interesse degli scienziati oppure anche i non esperti dovrebbero esserne interessati?

Sono cose difficili da comprendere. Cosa voglia dire che lo spazio si curva, si stenta a capirlo concretamente, ma questa è la natura del mondo reale. C’è una grande emozione nel mondo scientifico per queste scoperte, perché ci stiamo avvicinando sempre più ad un modello credibile e ricco di elementi in grado di descrivere la nostra realtà.

– Il modo di vedere il cosmo, secondo lei, ha un influsso nella cultura?

Con la rivoluzione copernicana, l’uomo ha scoperto di non essere al centro dell’universo ma in periferia e si è persa una visione unitaria del cosmo. Una vera cosmologia è riemersa solo negli ultimi 50 anni. Adesso sappiamo quali siano le caratteristiche del cosmo e tutto questo ha un’influenza sul nostro essere e sul nostro destino.

Una delle caratteristiche di questo nuovo modello è, prima di tutto, che il cosmo ha una storia: una storia che siamo stati capaci di ripercorrere per 14 miliardi di anni.

Noi uomini siamo all’estremità di questa storia ed emergiamo solo alla fine. Tutto questo fa pensare che non possiamo immaginarci come gli unici esseri pensanti dell’universo, ma diventa sempre più plausibile ipotizzare che la vita si sia sviluppata anche su altri pianeti. Sappiamo per certo che, attorno a tutte le stelle, ci sono dei sistemi planetari. Nei prossimi 20 anni potremo analizzare l’atmosfera dei pianeti delle stelle più vicine e quindi capire se ci sono delle tracce di vita biologica.

Credo che dovremo essere preparati a pensare che non siamo soli nell’universo. Anche se va detto subito che non ci sarà la possibilità di comunicare con questi esseri viventi perché le distanze e la velocità di propagazione delle informazioni, che è fissa ed è la velocità della luce, non ci darà la possibilità di un’interazione vera e propria. In ogni caso, pensare di non essere soli modifica e modificherà, ad esempio, il nostro modo di fare filosofia e teologia.

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– Questi progressi scientifici quali sfide pongono alla teologia e alla scienza?

Dal punto di vista della teologia, credo che tutto questo richieda rapidamente un ripensamento e una reinterpetazione dei dogmi della fede, non per cancellarli ma per renderli più compatibili con quello che abbiamo appreso. Dal punto di vista della scienza, il pericolo costante è quello di una sorta di “divisionismo”, cioè vedere i fenomeni solo nel dettaglio e non nella globalità. Tutto questo rende il cosmo una sorta di “grande robot meccanico” dove tutto avviene per leggi necessarie. La teologia invece potrebbe offrire una visione globale.

– Torniamo alle meridiane. Si tratta di temi specialistici che rischiano di interessare una ristretta cerchia di studiosi oppure possono insegnare qualcosa a tutti?

Negli ultimi cento anni è avvenuta una trasformazione nel rapporto tra uomo e astronomia: la perdita della possibilità di osservare il cielo. Perdita nel senso che, se qualcuno ha avuto la possibilità di guardare il cielo da un deserto, sa che quella visione noi qui l’abbiamo persa. Da noi non c’è alcuna zona buia che ci permette di vedere quello spettacolo. Ci sono possibilità di recuperare qualcosa della visibilità del cielo stellato ma non avremo più quella visione.

Credo sia importante per i bambini crescere con una cognizione del cielo e dei fenomeni celesti. Il moto del sole si può seguire con attenzione e facilità. Mi piacerebbe che in tutte le scuole elementari si piantasse uno gnomone per terra e si portasse i bambini a vedere, giorno per giorno, che cosa succede: segnare dove passa l’ombra, a mezzogiorno, giorno dopo giorno…

Bisogna sfruttare queste conoscenze per educare ad osservare i fenomeni celesti, altrimenti guarderemo solo l’orologio o lo smartphone. Mi pare una grande opportunità da valorizzare: c’è davvero bisogno di chi conosce bene le meridiane. E auguro agli appassionati di collaborare soprattutto con le scuole.

– Hanno molto da insegnare anche i motti delle meridiane. Che ne pensa?

Sì, hanno un profondo significato che si radica nella nostra cultura. A questo proposito, come Unione Astronomica Internazionale, abbiamo il compito di dare il nome agli oggetti celesti. Ci siamo dati come criterio quello di dare dei nomi che affondino le radici nella cultura. Alcuni scienziati propongono dei nomi per certi versi banali. Noi insistiamo a non volerli, perché desideriamo che il cielo rifletta la nostra cultura. Recentemente 86 stelle, ben note, sono state nominate: abbiamo voluto dare dei nomi che provengono dalle tradizioni astronomiche cinesi, indiane e africane, per dare il senso del legame tra cielo e cultura dell’intera umanità.

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