Mea maxima culpa

di:

colpa

I provocatori, i soperchianti, tutti coloro che in qualunque modo fanno torto altrui, sono rei non solo del male che commettono, ma del pervertimento ancora a cui portano gli animi degli offesi (Alessandro Manzoni, I Promessi sposi, cap. 2).

Capitolo secondo dei Promessi Sposi. La macchina narrativa si è appena avviata, ma già funziona a pieno ritmo. Nel primo capitolo gli scagnozzi di don Rodrigo interrompono la passeggiatina serale di don Abbondio, intimandogli perentoriamente Questo matrimonio non s’ha da fare!; don Abbondio, guardandosi bene dall’indossare i panni dell’eroe, pur di preservare la propria incolumità si dichiara disposto sempre all’ubbidienza; la notte trascorre tra incubi e pensieri atterriti, ma finalmente al mattino- e siamo al secondo capitolo -, il curato trova una via d’uscita: Quello che, per ogni verso, gli parve il meglio o il men male, fu di guadagnar tempo, menando Renzo per le lunghe.

Di lì a poco, quando Renzo si presenta al suo parroco con la lieta furia d’un uomo di vent’anni, che deve in quel giorno sposare quella che ama, don Abbondio smorza subito il suo entusiasmo e, snocciolando in latino una sequenza di impedimenti dirimenti (Error, conditio, votum, cognatio, crimen, cultus disparitas, vis, ordo, ligamen, honestas, si sis affinis…), gli comunica che la celebrazione del matrimonio dev’essere rimandata a data da definire. Renzo, seppur persuaso a fatica, si avvia verso la casa di Lucia per darle la triste notizia.

Il pervertimento degli animi

Mentre cammina, però, continua a ripensare allo strano comportamento di don Abbondio, al suo modo di fare poco chiaro, tra l’impacciato e l’arrogante. Decide, perciò, di ritornare sui propri passi per imporre a don Abbondio di rivelargli le vere motivazioni del suo diniego. Saputo che è il potente don Rodrigo ad impedire il matrimonio, Renzo si rimette in strada verso la casa di Lucia a passi infuriati, sentendosi addosso la smania di far qualcosa di strano e di terribile.

Nella società del Seicento assassinii e violenze erano all’ordine del giorno; tenere un’arma in tasca, sia pure un semplice coltello, era consuetudine quotidiana – come per noi, oggi, uscire di casa col cellulare. Renzo era un giovane pacifico – dice Manzoni-, alieno dal sangue, schietto e nemico d’ogni insidia, incapace di concepire propositi di male o di vendetta. Ogni qualvolta gli veniva riferito di qualche sopruso, di qualche omicidio o violenza, provava un sincero sentimento di repulsione e di orrore.

Eppure… eppure, mentre confuso e angosciato si dirige verso la casa di Lucia, per la prima volta nella sua vita sente nascere dentro di sé pensieri feroci: immagina di correre al palazzotto di don Rodrigo e di afferrarlo per il collo a mani nude; oppure di aspettarlo nascosto dietro una siepe con uno schioppo in mano, per poi prendere la mira, e maledirlo mentre esala l’ultimo respiro.

È a questo punto che Manzoni propone la sottile, profonda riflessione: I provocatori, i soperchianti, tutti coloro che in qualunque modo fanno torto altrui, sono rei non solo del male che commettono, ma del pervertimento ancora a cui portano gli animi degli offesi. Chi, in qualsiasi modo, commette il male, è colpevole non solo del male commesso in sé, ma anche del pervertimento dell’animo di chi quel male ha subito.

La catena del male

Don Rodrigo, il prepotente che detta legge con i soprusi e le angherie, è il primo anello della catena del male. All’inizio di tutto, c’è il male da lui agito in modo diretto: il suo essersi invaghito di Lucia, che aveva visto mentre tornava dalla filanda insieme alle compagne, e l’averne fatto oggetto di scommessa con il cugino Attilio; il desiderio malato di dare forma al proprio capriccio, impedendo ai due fidanzati di sposarsi; la dimostrazione di forza contro don Abbondio per il tramite dei bravi, inviati a compiere la famosa missione intimidatoria.

Il male è una catena. Don Abbondio, che ha subito le minacce degli sgherri di don Rodrigo, è vittima del male, certo; ma, angosciato com’è dalla paura, non si dà pena alcuna di proteggere e difendere i suoi parrocchiani dall’arbitrio dei violenti.

Anzi, invece di adoperarsi per trovare un modo di mettere in salvo Lucia da don Rodrigo, diventa lui stesso complice del sopraffattore, in nome del proprio quieto vivere e della salvezza della propria pelle. Assorbito continuamente ne’ pensieri della propria quiete, sceglie la strada della reticenza; e la sua omertà aggiunge un altro anello alla catena del male.

Anello dopo anello, la catena si allunga. La violenza che gli è stata ingiustamente perpetrata, Renzo è pronto a rovesciarla, senza sconti, senza perdono, sull’oppressore: il suo cuore non batteva che per l’omicidio. È difficile salvarsi dalla catena del male. Le vittime diventano carnefici. Il torto subito diventa vendetta. Le violenze patite nell’infanzia incancreniscono in malvagità adulte. Gli occhi che hanno conosciuto l’orrore perdono i sogni e la luce.

 Ma Renzo si salva. Manzoni lo salva. Nelle fantasie di violenza, nei pensieri convulsi che creano con l’immaginazione sangue ed agguati, ad un tratto si fa strada un nome: Lucia.

E appena questa parola si fu gettata a traverso di quelle bieche fantasie, i migliori pensieri a cui era avvezza la mente di Renzo, v’entrarono in folla. Un nome, una voce, una parola. Una presenza. Una luce. Talvolta può bastare, perché una vita non venga travolta dalla ferocia della violenza che fagocita ogni pensiero, senza ammettere altre vie d’uscita. Talvolta può bastare per spezzare la catena di causalità del male.

L’osservazione iniziale di Manzoni, però, ci invita ad un’altra riflessione, ad un altro sguardo. Uno sguardo che vada oltre il male concretamente agito, il male che si è fatto gesto, azione, violenza diretta, indiretta o omertà. Chi compie il male, dice Manzoni, non è responsabile solo del male che ha direttamente compiuto o del male che ha indirettamente indotto a compiere; il male non è solo il male accertabile in sede giudiziaria e perseguibile penalmente.

C’è, nella catena del male, un male che potrebbe non intercettare mai camere di consiglio o corti d’assise, perché rimasto allo stato di fantasia, di allucinata immaginazione, di stato d’animo pervertito. Ebbene, anche rispetto a questo male ci sono colpevolezze e responsabilità; colpevolezze e responsabilità che gravano sulla coscienza di chi, di questo pervertimento, è stato causa. Perché quando un animo innocente e disposto al bene arriva, a causa della violenza e dell’ingiustizia subita, anche solo a lambire le lande oscure delle possibilità mortifere date all’umano, una vibrazione negativa percorre tutte le strade del mondo.

Questo “vibrato” di pensieri malvagi che inquina la vita e avvelena la storia non viene giudicato nei tribunali e non può trovare riparazione nella giustizia degli uomini. Solo l’anima che si ferma in silenzio sulla soglia dell’abisso lo può percepire e, sentendosene sfiorare, può invertire di segno la vibrazione di morte. Pentimento. Conversione. Perdono. E qui ci sarebbe da tornare a meditare, ancora una volta, sulle grandi pagine manzoniane dedicate a fra Cristoforo, all’Innominato e al perdono di Renzo.

Tien per certo che tutto sarà gastigo, finchè tu non abbia perdonato in maniera da non poter mai più dire: io gli perdono.

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