Modelli di integrazione, non muri

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Les parénts concernés, i genitori preoccupati. È il nome di un’associazione nata spontaneamente a Molenbeek, il quartiere tristemente ormai più noto di Bruxelles, a causa del suo legame con molti dei terroristi che hanno colpito al cuore l’Europa, a Parigi prima e nella stessa Bruxelles poi. L’hanno creata le madri dei cosiddetti “foreign fighters”, i giovani e giovanissimi cittadini europei, spesso figli o nipoti di immigrati, che vengono radicalizzati e partono in Siria per unirsi a Daesh e al suo folle piano.

Penso a loro mentre scrivo questo articolo, e a quanto, con loro, l’Unione Europea e i suoi Stati membri abbiano fallito.

C’è chi ha sostenuto che non si tratta di un problema di integrazione. Bernard Guetta, autorevole penna di diverse testate europee tra cui Libération e il nostro Internazionale, scrive: «Il problema non è europeo, ma mediorientale. Se non fossero state annullate le frontiere tra Iraq e Siria, se il gruppo Stato islamico (Is) non volesse creare uno Stato sunnita a cavallo tra i due paesi e non ci intimasse, a colpi di attentati, di non ostacolare il suo progetto, non saremmo costretti ad affrontare il terrorismo, ma un problema di criminalità diffusa in una particolare comunità, come ce ne sono tanti». I ghetti, come Molenbeek, dove intere comunità etniche o religiose vivono in maniera parallela al resto della società nelle nostre città, non sono, secondo Guetta, «la causa del terrorismo, quanto piuttosto il suo vivaio».

Mi chiedo, tuttavia, se lo stesso discorso non potrebbe avere la medesima efficacia anche svolto nel senso opposto. Se è vero che il disagio sociale senza Daesh si sarebbe trasformato in “semplice” criminalità, mi sembra sia altrettanto vero che senza tale disagio (uso questo termine per esigenze di semplificazione, dando per scontata la condivisa comprensione delle molteplici dimensioni e sfaccettature che vi ricomprendiamo) Daesh non avrebbe trovato cittadini europei pronti a farsi esplodere, a poco più di vent’anni, per uccidere barbaramente ragazzi come loro, nati e cresciuti nelle stesse città, nella stessa Europa.

Diversi Stati europei hanno sviluppato dei propri modelli di integrazione culturale, tutti accomunati da limiti resi evidenti dalla storia.

È stato insufficiente il modello francese, “assimilazionista”, fondato sul concetto della cosiddetta “laicità negativa”, sulla rinuncia alle identità culturali particolaristiche nella sfera pubblica e sulla loro chiusura nella vita privata. Per un’integrazione effettiva è necessario che l’accesso alla cittadinanza venga supportato dall’accesso ai diritti sociali: se non vengono proposte e implementate politiche pubbliche a sostegno di questi ultimi, infatti, il rischio di conflitto è estremamente elevato, come già dimostrato dalla rivolta delle banlieue avvenuta 11 anni fa.

Allo stesso modo ha fallito anche il modello “multiculturalista” britannico, dove lo Stato si è ritagliato un ruolo minimo, quello di far rispettare la legge, e ha lasciato che i vari gruppi sociali avviassero e sviluppassero una negoziazione collettiva nello spazio pubblico. Qui, a differenza della Francia, le varie comunità hanno potuto esprimersi e manifestarsi anche nella sfera pubblica ma, private di qualunque incentivo alla comunicazione e all’interazione tra di loro, hanno finito per esistere in maniera parallela senza condividere nulla al di fuori dello spazio fisico della città nella quale vivono.

Tra i diversi modelli che non hanno funzionato, infine, spicca l’esperienza italiana che si distingue per l’incapacità di adottarne uno proprio (o di adottarne uno tout-court). La polarizzazione ideologica sul tema dell’immigrazione, a causa della presenza sulla scena politica italiana di partiti con evidenti tendenze xenofobe, ha reso impossibile un dibattito pubblico fondato sui fatti e orientato a una effettiva ed efficace gestione del fenomeno.

Perché è di questo che dovremmo imparare a ragionare: della gestione dell’immigrazione più che del suo contrasto. Questo negli ultimi anni è stato l’unico obiettivo del dibattito pubblico europeo, mentre si continuava a ignorare che non ci sarà muro sufficientemente alto da contrastare la disperazione di queste persone.

Dobbiamo avere consapevolezza che non siamo davanti a un fenomeno temporaneo, transitorio, ma a un elemento endemico della nostra società e del nostro tempo. La politica ha l’enorme responsabilità di accettare questa verità per poter elaborare soluzioni efficaci a partire da essa. Comprendo bene la difficoltà di andare contro un sentimento largamente diffuso nell’opinione pubblica ma è la capacità di affrontare questa difficoltà che caratterizza uno statista, per il quale il consenso è un mezzo, da tante altre tipologie di politici, per i quali spesso il consenso è il fine.

In questo momento storico come forse mai è accaduto negli ultimi trent’anni, dalle decisioni e dalle azioni della politica di oggi dipenderà il volto, il benessere e la dignità dell’Europa e degli europei di domani.


L’autrice Alessia Mosca è parlamentare europea del PD.

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