Peggio Emilia

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Il 31 marzo 2016 passerà alla storia come il giovedì nero della Confindustria e forse anche dell’industria bolognese.

In una sola giornata i due cinquantenni di punta, la ministra Federica Guidi e il presidente di Unindustria Bologna Alberto Vacchi, hanno visto in poche ore infrangere i propri sogni. La prima si è schiantata in una intercettazione nel corso della quale pare stesse rivelando al proprio compagno notizie su affari petroliferi (il tutto a ridosso del referendum del 17 aprile sulle trivellazioni) che andavano ben oltre la normalità per sfociare in possibili conflitti di interesse; il secondo si è scontrato con i 9 voti di differenza dal suo sfidante Vincenzo Boccia che non gli hanno permesso di divenire il presidente nazionale di Confindustria nonostante sponsor della portata di Montezemolo e Prodi.

Imprudenza e imperizia nel primo caso? Sfortuna e qualche tradimento (“auxilium reggianorum”) nel secondo?  È ancora presto per dirlo. Di sicuro quella che poteva essere l’apoteosi di un modello, in modo diverso e in circostanze comunque diverse e non appieno paragonabili, si è tramutata in una débâcle.

Ma di che modello stiamo parlando? Di un modello emiliano che parrebbe innovativo, ma che ripropone da tempi interminabili schemi consociativi, che balbetta in dialetto quello che vorrebbe dire in tedesco, che certamente non cerca il conflitto, lo scontro frontale, ma chiede di custodire il profitto senza tante inclusioni, con spartizioni che rimangono familiari o solo apparentemente cooperativistiche?

Insomma stiamo parlando di un modello che anche se ha pregi, perché non basato sulla apparente arroganza e sull’altrettanto apparente rispetto delle persone, nutre in sé difetti innati partendo da una non sempre chiara distinzione dei ruoli, per sfociare poi comunque in reti o sottoreti di affari in cui, questa volta si è impigliata la ministra Guidi, in altre occasioni altri personaggi come il dott. Consorte, (ma quelli erano altre tempi in cui dall’altro lato del consociativismo qualcuno gridava «abbiamo una banca» e tutti vivevano felici e  contenti!).

Ora, come sappiamo, la vita si è fatta più complicata, a Bologna come nel resto di Italia. E forse da queste due sconfitte può nascere una sana riflessione sulla effettiva valenza di questo modello emiliano che per carità, può ancora dire tante cose e dare tanti spunti, ma deve smettere di continuare a confondere i ruoli tra datori di lavoro e sindacato, tra affari pubblici e affari privati, tra policentrismo e accentramento delle responsabilità, tra mecenatismo privato e spesa pubblica non ancora razionalizzata. Magari fosse così!

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