Questa è la “mia” Chiesa

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Già da alcuni decenni è facilmente rilevabile nel sentire comune una certa sfiducia nei confronti di qualsiasi istituzione. La cosa è particolarmente evidente quando i fatti di cronaca portano alla luce comportamenti immorali di figure di rilievo appartenenti ad istituzioni ecclesiali o civili: non di rado, infatti, questi fenomeni, anche se normalmente riguardano solo alcune persone, vengono intesi come indicativi di una corruzione delle istituzioni a cui esse appartengono.

Tale sfiducia, però, non dipende solamente dal rilevare comportamenti riprovevoli. La nostra cultura postmoderna ci spinge a pensare che non esistano valori oggettivi e assoluti, e che una vita umana riuscita sia quella in cui c’è la più ampia libertà di plasmare e riplasmare i propri riferimenti etici e le proprie scelte di vita, pur coniugandoli con una certa benevolenza verso gli altri.

Tutto questo porta a guardare con disillusione a qualsiasi organizzazione che pretenda di stabilire e di incarnare valori molto elevati, come se, in fondo, pretendesse di garantire qualcosa che non esiste e di cui peraltro non vi è alcun bisogno.

Anche la Chiesa cattolica rientra tra le istituzioni che spesso vengono guardate con disillusione o addirittura con sospetto. Le vicende drammatiche che hanno segnato – e purtroppo segnano anco­ra – diversi preti e vescovi non denotano solamente la difficoltà di supervisionare il loro vissuto, o la pavidità di chi avrebbe potuto intervenire su di loro e non l’ha fatto, ma soprattutto trasmettono alle persone meno formate e motivate un senso di delusione nei confronti dell’istituzione ecclesiale in quanto tale.

Così qualunque evangelizzatore – cioè, qualsiasi battezzato che viva in qualche modo la sua voca­zione missionaria –, nel momento in cui si presenta come pienamente aderente alla Chiesa cattolica, non può sempre contare su una simpatia pregiudiziale da parte delle persone a cui offre la sua testi­monianza. Al contrario, deve spesso guadagnarsi sul campo il loro riconoscimento e la loro stima con la saggezza delle sue parole, con uno stile di vita trasparente e coerente, con la sua capacità di intessere relazioni rispettose del vissuto degli altri.

A volte, però, è lo stesso evangelizzatore a sentirsi a disagio nell’appartenere ad un’istituzione ec­clesiale che, al pari di tutte le altre realtà umane, è anche segnata dal peccato e dalla fragilità, e non sempre è benvoluta dalla gente. In questa situazione egli può finire per assumere atteggiamenti pericolosi che, anche se inconsapevoli, penalizzano sia la sua vita spirituale che la qualità della sua testimonianza.

Ad esempio, per superare il disagio personale di appartenere ad un’istituzione ecclesiale che talora è oggetto di critica o è guardata con disillusione, qualche evangelizzatore potrebbe finire per proporsi come una figura fuori dagli schemi, originale, che sa prendere elegantemente le distanze da alcune posizioni ecclesiali dibattute quasi per suggerire che, se la Chiesa ha molti limiti, per fortuna lui fondamentalmente non ne ha… Questo stile, oltre a rivelare un certo narcisismo e ad alimentarlo considerevolmente, non fa crescere gli individui a cui l’evangelizzatore si rivolge, perché li lega alla propria persona e non li aiuta a comprendere le ragioni per amare incondizionatamente il popolo di Dio che è la Chiesa, pure con le sue fragilità, e a vivere quindi al suo interno il proprio cammino di fede.

Al contrario, è pure possibile che un evangelizzatore reagisca alla situazione di limite che riscon­tra nella Chiesa cercando di rimuovere tutti gli aspetti di criticità, come se fosse possibile metterli continuamente sotto un tappeto. Può nascere, allora, uno stile di disonestà intellettuale e pratica, che nega problemi evidenti e che cerca di mettere a tacere qualsiasi difficoltà emergente che possa feri­re l’immagine ecclesiale.

Questo stile è alla base della paura, ancora diffusa in alcuni credenti, che mettere sul tavolo le questioni per quello che sono sia un ferire la comunione e un disorientare le persone meno formate. È proprio questa paura che talora impedisce una vera trasparenza nella co­municazione ecclesiale, e che genera uno stile comunicativo ovattato in cui si può dire solo ciò che va bene. Anche questo, al pari del precedente, è un modo immaturo di confrontarsi con la fragilità della Chiesa.

La vera risposta alla peccaminosità e al limite che caratterizza la Chiesa sta nel comprenderne, con lo sguardo della fede, la sua vera grandezza, cioè il suo essere il popolo dei figli di Dio, costituito da coloro che sono stati redenti dal sangue del Signore e che sono stati divinizzati del dono del suo Spi­rito.

Questa Chiesa, nonostante porti ancora i segni della fragilità e del peccato, è comunque sempre capace di portare la parola del Vangelo nel mondo e di consentire ai credenti di ricevere i beni della salvezza.

Nonostante la sua miseria, proprio questa Chiesa è comunque l’oggetto dell’amore infinito di Dio, che continuamente la perdona e la santifica, ne restaura incessantemente l’incomparabile bellezza, preparandola così all’incontro con il suo Signore alla fine della storia. Sono queste convin­zioni di tipo spirituale che danno all’evangelizzatore sia la capacità di non nascondere le criticità che segnano il vissuto della Chiesa che la consapevolezza della sua grandezza e la gioia di farne parte.

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