Strasburgo: meglio umano o trans-umano?

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Oltre 12 milioni di visualizzazioni su Facebook, 129.000 persone collegate in diretta streaming, 18.000 utenti sul sito e 80.000 le pagine viste. I dati forniti all’ultimo giorno dagli organizzatori sembrano decretare un successo che, se non può dirsi inatteso, sancisce però con certezza l’interesse con cui è stata seguita anche l’edizione  2017 del Forum internazionale di Bioetica che si è conclusa sabato 4 febbraio a Strasburgo.

Forum internazionale di Bioetica

Un evento a cadenza annuale, che ha preso avvio nel febbraio 2011, e rappresenta ormai una tradizione che si è andata consolidando nel tempo allargando via via il numero di partecipanti e raggio di iniziative. Perché la bioetica è ormai un tema che “tira”, e a livello trasversale, senza distinzione di credo religioso o appartenenza politica, ma anche senza differenza tra quanti si occupano di discipline umanistiche e quanti vivono nella ricerca scientifica o lavorano nel campo bio-medico. Basta «essere pensierosi e pensanti» va ripetendo Israël Nisand, il medico francese specialista in diagnosi prenatale, anima dell’iniziativa. Se in certi campi è difficile tracciare una linea di demarcazione netta – bianco/nero – resta sempre aperta la possibilità di riflessione e dialogo per individuare soluzioni condivise nell’ottica del primato della dignità umana, pur nel contesto di sensibilità e competenze diverse.

Con l’intento di sfatare la convinzione – talvolta diffusa anche in alcune sedi cattoliche – che immagina medici e biologi chiusi nei loro laboratori a preparare un attacco all’esistenza umana in nome di chissà quale vantaggio (o forse oggi si direbbe complotto), il Forum di Strasburgo diventa uno strumento per allargare la base di discussione e portare di anno in anno i temi più scottanti alla portata di tutti. Senza dimenticare che, in ambito politico europeo, la bioetica ha fatto il suo ingresso ancora nel 1980 quando il Consiglio d’Europa ha iniziato ad occuparsi della questione delle trasfusioni sanguigne per evitare ogni discriminazione nei confronti dei malati di AIDS, mentre ormai è decisamente consistente il contributo fornito su questi temi dall’ambito cattolico ossia da parte dei vescovi accreditati presso la UE riuniti nella COMECE di Bruxelles (documenti di alto rigore scientifico cui hanno contribuito studiosi di discipline diverse a livello europeo e che meriterebbero maggior attenzione in casa nostra perché ogni bibliografia che li ignori mostra da sola i suoi limiti).

Non dimenticare i limiti

La questione del fine-vita o le modalità del nascere, la manipolazione del cervello, il traffico di organi sono alcuni dei temi più scottanti affrontati fin qui, mentre per l’edizione appena conclusa l’oggetto era decisamente bianco/nero: «Umano o post-umano?». Nell’era che ormai viene definita “Antropocene” a causa di una realtà purtroppo sotto gli occhi di tutti, la modifica da parte dell’uomo di atmosfera (cambiamento climatico) ed ecosistemi del pianeta, che si può dire della questione dell’uomo in quanto organismo animale, finora al vertice dell’evoluzione? «Gli uomini sono quegli organismi speciali attraverso i quali la vita prende coscienza di sé» diceva il biologo Menegon al MUSE di Trento dialogando con l’arcivescovo emerito L. Bressan. Ora già è difficile acquisire consapevolezza dei danni che stanno arrecando all’ambiente e ai nostri simili i nostri stili di vita occidentali e predatori, ma che cosa si conosce dei tentativi di “superare” i limiti umani? Fin dove è consentito l’uso della tecnica e quando sarebbe invece auspicabile fermarsi? E ancora una volta la domanda ricorrente: chi è chiamato a decidere?

Una settimana di incontri coordinati dalla giornalista Nadia Aubin, co-fondatrice del Forum, che hanno visto interventi, tavole rotonde, dibattiti, iniziative specifiche per giovani e giovanissimi con la partecipazione di medici, biologi, biotecnologi, psicologi, informatici, giuristi, filosofi, teologi.

Un confronto che ha registrato anche momenti di grande intensità emotiva come al dibattitto «Vivere e non morire mai?» con un’analisi sul concetto di “immortalità”. Smontata pezzo pezzo l’ipotesi – è la fisica stessa a ricordarcelo se mai ce ne fosse bisogno – si tratta di stabilire se il sogno di un allungamento, anche significativo, della vita umana possa rivelarsi un traguardo o piuttosto un incubo. A fronte di slogan proposti dai media, come «uccidere la morte», due sono stati gli interventi che hanno raccolto i maggiori consensi: quello del neurologo Aurélien Benoilid («Non potremo mai essere immortali, è una falsa credenza, e il funzionamento dei neuroni ce lo dimostra») e quello del presidente dell’Università di Straburgo, il prete e teologo Michel Deneken. «Forse che io dovrei ritenermi così importante e indispensabile da imporre la mia presenza per i secoli a venire? Ma che orgoglio!», commentava.

L’umano non basta più?

La questione non è da poco: meglio essere umani o un po’ più di umani? E prima di rispondere: ma in che termini si configura l’essere “più umani”? L’eventuale aggiunta in quale dimensione si colloca? nell’ordine della qualità o della quantità? E ancora: il “trans-umano” è un bene in sé? A Strasburgo, contro ogni aspettativa dei più, hanno frenato gli scienziati e talvolta accelerato i filosofi, almeno alcuni. C’è infatti chi intravvede, come Gilbert Hottois, una sorta di «umanesimo rivoluzionario», ben al di là di una «visione utopica a breve termine», un umanesimo che cerca di proiettarci «lontano nel futuro» quasi a «superare l’obsolescenza corrente dell’immagine umana». Mentre sul fronte opposto, Jean-Noël Missa non ha alcuna remora a parlare di autentico «timore» per quanto potrebbe accadere in un futuro non troppo lontano.

Gli unici (ed è molto significativo) che affrontano il tema da un versante quasi esclusivamente positivo e lontano da ogni paura sono gli industriali tecnici, come Didier Coeurnelle, vicepresidente della francese Technoprog, il quale riconosce nell’«amortalité» un’estensione decisiva della longevità, anche se riconosce che «è difficile renderla accettabile nella nostra società». Alexander Maurer, informatico e transumanista, non ha dubbi: «L’uomo non può considerarsi come l’ultimo tassello dell’evoluzione». Per lui, e per molti sostenitori di un certo concetto di tecnologia, non esisterebbe «alcun tetto per la longevità, nessuna ragione per rifiutare l’invito a diventare più che umano».

E mentre i biologi, in particolare biotecnologi, si affrettano a spiegare che l’evoluzione è avvenuta per “selezione naturale” e che l’intervento esterno sul genoma, oggi in clima di epigenetica, non ha alcuna possibilità di evocare fantasmi (leggi cloni umani e simili amenità che tuttavia si leggono in testi che dovrebbero esseri seri), che restano appannaggio della fiction, la conclusione al termine del dibattito sembra essere quella che il transumanesimo, alla stregua della proposta vegana, cominci piuttosto a rappresentare una vera e propria ideologia, una sorta di posizione estetica, una provocazione se non addirittura un nuovo credo religioso.

Fiction e videogiochi questione aperta

Ampio lo spazio dedicato poi da una parte al mondo dei videogiochi e, dall’altra, al vastissimo panorama della fiction, sia letteraria sia cinematografica.

L’idea ricorrente è che, premesso che «incute sempre timore ciò di cui non si conoscono le regole» (ecco chi demonizzava il computer senza saperlo maneggiare), anche ammessa la possibilità di aver acquisito un certo grado di transumanizzazione, l’eroe resterà sempre, come ricordava Stéphane Becker, colui che ad un certo punto rifiuta e si ritira in nome della propria dignità, come accaduto nel celebre Gattaca – La porta dell’universo, il film del 1997 girato da Andrew Niccol e interpretato da Ethan Hawke, Uma Thurman e un giovanissimo Jude Law (il futuro Young Pope di Sorrentino).

Certo che i videogiochi sono costruiti in modo tale da incarnare, se così si può dire, la tensione stessa del giocatore verso un continuo miglioramento o potenziamento di se stesso: i risvolti sulle personalità più fragili, vedi giovanissimi, o comunque immature può essere devastante e sfociare in autentiche tragedie laddove, al posto del videogioco, ci si trova al volante di un’auto/moto (reale) o si maneggia un’arma o si viene introdotti in un’organizzazione criminale. Il supereroe ha sempre eccitato la fantasia dei più deboli e nuove possibilità dei game sono in grado di estenderla all’infinito, quasi una sorta di “viagra della mente o della personalità”.

L’ausilio di macchine e robot

Altro discorso sono le possibilità che si aprono oggi in campo biomedico, alcune delle quali ormai scontate. Chi infatti si scandalizza ormai di un monitor per misurare la frequenza cardiaca potenziando di fatto la semplice auscultazione del medico? O di uno strumento che misuri la glicemia evitando lente metodiche di laboratorio? Qualunque cosa accada, niente potrà mai sostituire il ruolo del medico e il rapporto medico-paziente, ma la tecnologia può fornire un aiuto già oggi considerato insostituibile, anche se, è stato ribadito, non esistono ancora norme condivise sul trattamento dati e sulla regolamentazione della tecnologia (che spesso si rivela fattore discriminante nella sanità pubblica).

Difficile, poi, sempre in ambito medico, incontrare chi si scandalizza di fronte ad un arto artificiale o un pezzo di organo che, di fatto, potenzia o annulla un limite della fragilità corporea.

Altro invece è il caso dell’introduzione di robot. Quale valenza assume viaggiare in un veicolo automatico o essere accuditi da una macchina al posto di una badante? Quale responsabilità per un drone? «Se un robot deve sparare a un terrorista e uccide un bambino è evidente che si tratta di un errore umano» diceva Rodolphe Gelin, direttore del team di innovazione Robotics della SoftBank.

«Ritengo che la responsabilità sia sempre e chiaramente dalla parte dell’umanità, ossia di colui che ha programmato» aggiungeva  Mady Delvaux, eurodeputato del Lussemburgo (classe 1950 e già docente di lettere classiche), autrice di una recente relazione al Parlamento europeo sul «diritto civile che governa robot e intelligenza artificiale».

Degna di tutto rispetto la questione che richiama un po’ la domanda della volpe al Piccolo Principe: se i robot lavoreranno per noi, che ne faremo del tempo libero? Forse che i robot potrebbero farci diventare più umani? Potrebbe forse dischiudersi la possibilità di un maggior tempo da dedicare alle relazioni umane, alla cura degli altri? E dire che per qualcuno diventeremo solo «più idioti»: il futuro risponderà.

«La tecnica è oggi così veloce che non abbiamo più modo di anticipare i tempi» ha detto Catherine Dufour, scrittrice di fantasy e autrice de Il gusto dell’immortalità.

E forse è meglio così. Per evitare che quanto immaginato dalla fiction venga magari scambiato per realtà.

Se l’epigenetica esclude razionalmente la sola idea di clonare l’umanità (almeno il 50% di ciò che siamo è “scritto” dall’ambiente non nel DNA), se nessuna macchina potrà mai funzionare da sola, bensì grazie al cervello di chi l’ha ideata e programmata, il sentire comune è ancora troppo frutto di scarsa informazione, se non addirittura ignoranza.

Una ragione in più per studiare e informarsi davvero (per poi informare ed educare).

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