Timothy Radcliffe tra verità e paradossi

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radcliffe1Un altro libro in italiano a firma di Timothy Radcliffe, il domenicano inglese già maestro dell’ordine dei predicatori (1992-2001). Lo stesso humour sottile che lo caratterizza da sempre, la medesima capacità di saper raggiungere tutti, con un linguaggio accessibile privo di retorica e di luoghi comuni.

Qualcuno arriva a definirlo “un linguaggio tutt’altro che teologico”, ma è esattamente quello che intende proporre il religioso: non una dotta predica, bensì una “conversazione” tra amici, una prassi che gli ha consentito di vincere nel 2005 il premio per la divulgazione religiosa con il testo What in the Point of Being a Christian? (trad. it. Il punto focale del cristianesimo, San Paolo 2008).

«Il teologo che in silenzio fa la rivoluzione» ha scritto lo storico Alberto Melloni (Repubblica, 7 luglio 2016), indicando Radcliffe quale erede di una schiera di teologi postconciliari – Chenu (di cui è stato allievo), Congar, De Lubac, Daniélou, von Balthasar, Grillmeier – che «delegittimavano l’idea di un cristianesimo monolitico, incapace di resistere ai flutti».

Sono queste sue caratteristiche, associate al suo ben noto spirito libero, che fanno di lui uno degli autori cattolici più letti al mondo e uno dei conferenzieri più ricercati. E una conferma giunge dalle librerie dove viene richiesta senza sosta anche questa ultima pubblicazione, che si avvale della fortunata intuizione nata qualche anno fa nell’ambito dell’editrice Queriniana (cf. Essere cristiani nel XXI secolo e Parole di oggi, rispettivamente 2011 e 2014) di raccogliere e presentare in lingua italiana i suoi interventi più significativi in un preciso arco di tempo.

Per i tipi dell’Editrice Missionaria Italiana, una raccolta di interventi, pronunciati in diverse sedi nel corso dell’ultimo triennio, dal titolo Alla radice la libertà. I paradossi del cristianesimo (pp. 160, € 15,00). Fra i temi trattati, come sempre di attualità e particolarmente sentiti dai suoi ascoltatori, anche la sua lotta personale contro il cancro («ero un po’ come quei personaggi dei cartoon che continuano a camminare e si accorgono dopo un po’ del burrone sotto di loro…») e la questione migranti, cavallo di battaglia dei populisti un po’ in tutta Europa («lo straniero apre un po’ la nostra identità all’umanità intera. Diventiamo più cattolici, più universali»).

EMIIl significato di amore e amicizia (anche “insegnare è un gesto di amicizia”), la Chiesa come “paradigma della buona globalizzazione”, la libertà cristiana e lo spazio della coscienza, con un’attenzione particolare ai laici (sullo sfondo l’esortazione apostolica post-sinodale Amoris laetitia).

Queste le tre ampie sezioni in cui l’editor ha raggruppato gli interventi rivelano gli ambiti che ricorrono spesso nelle conversazioni di padre Radcliffe.

Ambiti che ruotano attorno alla questione dei “paradossi” del cristianesimo, come scrive l’editore Lorenzo Fazzini nella prefazione, annunciando una nuova pubblicazione del medesimo autore per i prossimi mesi.

Un amore da vivere e da annunciare all’uomo contemporaneo

«Quasi tutti, credenti o no, si dicono d’accordo sul fatto che dovremmo amare il nostro prossimo e noi stessi» scrive Radcliffe aggiungendo un interrogativo: «Che differenza fa aggiungere l’amore di Dio?». Un destinatario in più, dopo se stessi e la propria madre? Qualcosa di più di un cugino di secondo grado?

«Che differenza fa, per noi cristiani, credere che ogni amore è una condivisione nel vasto mistero di Dio? Questo cambia il modo in cui comprendiamo che cosa significa amare?».

Ma gli interrogativi non restano senza risposta, anzi. Dio ci ama in modo unico e irripetibile, commenta il domenicano, che spiega: «Quando amo intensamente qualcuno, allora la particolarità dell’amore di Dio irrompe nella mia vita». Se due si amano, si donano l’un l’altro con una pienezza di esistenza: «Non sarei quello che sono, senza l’amore di quest’altra persona».

L’universalità dell’amore divino finirà per spalancare quest’amore «come un bocciolo di un fiore che si dispiega al sole» e ogni amore, degno di questo nome, aprirà come logica conseguenza uno spazio per gli amici e persino per gli estranei, perché, «se è una condivisione dell’amore di Dio, allora porterà sicuramente verso la vastità».

E il discorso si allarga in una riflessione che abbraccia esperienze personali, letture ed eventi di attualità. Si tratta sempre di un discorso profondamente appassionato che fa tesoro di anni di insegnamento, interventi, conferenze, scritti vari, ma soprattutto della ferma volontà di “comunicare” con tutti (in linea col padre fondatore, Domenico) con una semplicità a tratti disarmante che spesso utilizza il caratteristico humour inglese per suscitare un sorriso negli interlocutori e sdrammatizzare la serietà dell’argomento (una caratteristica ben conosciuta da quanti lo stimano e lo chiamano a parlare un po’ in tutto il mondo).

Negli interventi s’incontrano due costanti: da una parte, la strenua volontà di calarsi nella cultura di oggi, ascoltarne le voci, intercettarne le ansie, condividere le attese, conoscere – com’è solito dire – le letture, le musiche, i film che tracciano la vita degli uomini di oggi; dall’ascolto della vita e del contesto di oggi la proposta di un annuncio che abbia qualche probabilità di essere compreso, o anche solo sfiorato dall’uomo contemporaneo.

contemporary culture

Dall’altra, l’urgenza di una testimonianza credibile di ciò che si annuncia senza compromessi né deleghe, con il volto entusiasta di chi ha deciso di scommettere e di affidare la propria vita al Padre dei Cieli e desidera con tutto il cuore condividerne la gioia. Un atteggiamento di chiaro stampo bergogliano che gli ha fatto ottenere tre anni fa la nomina a consultore del Pontificio consiglio della cultura, nonostante gli attacchi, spesso fuori le righe, di chi lo accusa di eccessive aperture, ad esempio nei confronti degli omosessuali.

Lo sguardo nei confronti del mondo è sempre benevolo nella convinzione che, se creato da Dio, sia comunque ricolmo di frammenti di bene che vale la pena di svelare e quello che siamo soliti chiamare “lontano” non lo sia mai abbastanza da diventare irraggiungibile.

Frequenti i riferimenti a citazioni non solo di leader religiosi (pontefici, Dalai Lama, gli arcivescovi anglicani Rowan Williams e ora Welby, il rabbino Sachs…), ma di filosofi, scrittori, anche film della cultura laica: per Radcliffe un’abitudine e un ulteriore punto di contatto con lo stile Bergoglio.

Verità e post-verità: il ruolo dei maestri e delle differenze

E il linguaggio “popolare” viene associato anche a tematiche altrettanto presenti sui media: è la volta della “post-verità” e delle fake news, pane quotidiano dei social, dove spesso l’anonimato porta a mostrare una realtà virtuale (adolescenti che si spacciano per adulti, leggende metropolitane che diventano assunti scientifici, preti e religiosi che s’inventano un’improbabile vita familiare…): «Il problema non è tanto che la gente mente, quanto il fatto che l’idea stessa di verità è sbiadita.

Viviamo in un mondo di truthiness, quella verità apparente che Stephen Colbert ha definito “l’espressione di sensazioni e opinioni di pancia come se fossero valide affermazioni oggettive. Su Twitter e nei blog vengono fatte continuamente asserzioni selvagge, senza preoccuparsi di continuo se siano vere».

Il problema per chi mente – scrive Radcliffe – è di perdere il controllo della sua storia (e lo possiamo constatare sui social dove un finto figlio adolescente resta sempre tale a distanza di 2-3 anni conservando magari il comportamento, sempre presunto, di un preadolescente alle medie…), ma la questione è drammatica quando la post-verità raggiunge l’ambito della polis: «Nei giornali, in politica, dappertutto, assistiamo ad un ritiro delle questioni complesse, mentre le persone si accontentano di slogan e tweet: “Brexit significa Brexit”; “Facciamo tornare grande l’America”».

In un simile contesto la “ricetta” dell’autore è quella di formare dei buoni “maestri”, perché «in questo mondo della post-verità non riesco ad immaginare una vocazione più importante di quella dell’insegnare… abbiamo un disperato bisogno di maestri». Yves Congar diceva: «Ho amato la verità come si ama una persona». «Come possiamo insegnare ai nostri giovani ad amare la verità, la verità scientifica, la verità poetica, la verità storica, la verità religiosa, qualunque verità? Se insegneremo loro ad amare la verità, allora in qualche modo si orienteranno verso colui che i cristiani credono essere la Verità in questo mondo e nel prossimo», si chiede Radcliffe.

La cosa più importante che può fare un insegnante è condividere l’amore appassionato per la sua disciplina e ciò diventa evidente nella gioia che si prova per quanto si insegna. «Il libro della Genesi dice che quando Dio creò il mondo vide che era bello! Insegnare apre gli occhi della gente sulla gioia di Dio in tutte le cose: nella bellezza di una formula matematica, nella biologia di un lombrico, nella nascita delle stelle, in un’opera teatrale di Shakespeare».

Hamlet

«Il cristianesimo non è un blocco monolitico omogeneo come una mattonella di gelato alla vaniglia» scrive Radcliffe con un’immagine straordinariamente plastica per qualunque uditore anglofono e non solo. I quattro (diversi) Vangeli, Gesù uomo e Dio nella stessa persona, tutte le diverse forme di spiritualità – benedettina, domenicana, francescana, gesuita… – non resta che «imparare ad amare le differenze», nonostante i sociologi di oggi ci mettano in guardia dal fatto che “la società occidentale ha paura delle differenze” e «Internet ci consente di creare legami con coloro che la pensano allo stesso modo.

Se non siamo d’accordo, possiamo disimpegnarci in un minuto secondo». Ma «nella nostra società impaurita, una delle bellezze della vocazione di insegnare è aiutare i giovani a provare gusto nella differenza» e le scuole dovrebbero essere i luoghi in cui i giovani imparano ad essere veramente “cattolici” con le menti aperte alla verità in tutta la sua diversità.

Quella strana “casa” di nome Chiesa, maestra di ospitalità

Papa Francesco ha scritto: «La Chiesa è chiamata ad essere sempre la casa aperta del Padre. Uno dei segni concreti di questa apertura è avere dappertutto chiese con le porte aperte» (EG 47). Tutti gli esseri viventi hanno bisogno di una casa, continua Radcliffe sottolineando che, «dal momento che siamo esseri spirituali, ci occorre una casa spirituale». Ma la gente pensa forse alla Chiesa come alla propria casa? Probabilmente molti risponderebbero di no: qualcuno per via degli scandali, altri perché le loro vite non sono più conformi agli insegnamenti della Chiesa, o perché alcuni non sono proprio d’accordo con questi insegnamenti, come la mancata ordinazione delle donne o la pratica dell’omosessualità.

«Va bene essere arrabbiati con la Chiesa ed esprimere il proprio disaccordo… se ti senti arrabbiato con Dio o con la Chiesa, dillo ad alta voce. Non trattenerti, di’ quello che senti. Dio vuole relazionarsi con noi, così come siamo». Niente maschere di sottomissione, né far finta che tutto vada bene: sarebbe come dire che non ci fidiamo di Dio.

Un parroco e una parrocchia fanno già una casa, ma ogni casa degna di questo nome spinge anche ad uscire dai propri confini: «la nostra casa nella Chiesa, sia questa una parrocchia o una comunità religiosa o qualsiasi altra realtà ecclesiale, ci prepara a vivere nella vastità di Dio». Una “strana” casa, locale come una parrocchia e vasta come l’umanità perché tiene uniti i vivi e i morti, i santi e i peccatori, gli amici e gli stranieri. Tuttavia, «nel cuore della tradizione cattolica vi è il profondo desiderio di una Chiesa che sia una e universale», però «la globalizzazione era nel DNA del cristianesimo fin dall’inizio».

ospitalità

«La Chiesa sfida ogni identità che privilegi in modo univoco le proprie origini nazionali o etniche. Sono cristiano, prima che inglese, irlandese o polacco», per cui «il patriottismo, ovvero l’amore per il proprio Paese, va bene, ma il nazionalismo, se accampa esigenze assolute, è incompatibile con il cristianesimo». La vera globalizzazione cristiana deve riguardare la cura del bene comune al quale ogni cultura contribuisce.

In ultima analisi: non possiamo prosperare separati gli uni dagli altri; è questo l’unico destino dell’umanità in Cristo. Anche se – è l’amara ammissione – non si può dimenticare come la Chiesa cattolica, specialmente dopo la Riforma, non di rado abbia avuto paura della diversità. Ma non è questa la sua identità.

La sfida che si trova oggi ad affrontare è quella dell’immigrazione, in Europa come in America: «In questo momento di paura dello straniero, la Chiesa cattolica ha qualcosa di meraviglioso da offrire, e cioè una saggia teoria dell’ospitalità, che nasce da una lunga esperienza», perché la Chiesa è «la comunità più globalizzata» che sia mai esistita; parla ogni lingua sotto il sole, è più vasta di quanti siano gli attuali viventi. In quest’ottica dovremmo essere in grado di capire sia l’amore di ciascuno per la propria casa sia quello per la propria cultura e tradizione, ma anche l’obbligo di accogliere lo straniero, perché nostro fratello o sorella: è Cristo.

«L’ospitalità cristiana implica che anche le nostre case abbiano le porte aperte». Una casa dove le porte fossero sbarrate e chiuse a chiave, che escludesse tutti gli stranieri, non sarebbe una casa cristiana. La stessa parola “parrocchia” viene dalla parola greca che significa “alieno”, “straniero”: è la nostra “casa” dal momento che siamo tutti stranieri nel viaggio verso la nostra ultima casa nel Regno di Dio.

La novità cristiana

È forse l’esempio più eclatante della volontà di Radcliffe di far riflettere i suoi interlocutori circa uno dei temi più divisivi oggi nella società occidentale, ma anche del suo impegno a far sì che si possano modificare comportamenti frutto di luoghi comuni. «Lo straniero apre un po’ di più la nostra identità all’umanità intera. Diventiamo più cattolici, più universali. La nostra identità viene allargata, veniamo liberati dal nostro senso ristretto del “chi siamo noi”. Tutti noi, inglesi e italiani, saremo futuri cittadini del Regno. L’ospitalità allo straniero ci apre un po’ di più a quello che saremo».

E un altro esempio, in questo caso solo sfiorato – perché scrive non essere il suo “campo” – è la questione della coscienza in riferimento all’esortazione post-sinodale Amoris laetitia. «La coscienza è una con-scientia, un sapere con altre persone», spiega Radcliffe giungendo al concetto di “discernimento” così caro a papa Francesco e di chiara derivazione da sant’Ignazio di Loyola. «Consultare la propria coscienza non è come cercare un’informazione su Wikipedia. È la voce del Signore che mi invita a viaggiare verso la verità…».

La riflessione spazia dallo spazio della coscienza dei laici fino alle vicende di quei laici che hanno lottato per scoprire la volontà del Signore, hanno ricevuto critiche e talvolta sono stati messi a tacere. Sensus fidelium e sensus fidei di ogni battezzato: come la mettiamo?

Il discorso tocca i famosi dubia dei cardinali, per poi soffermarsi sulle ragioni che hanno indotto il papa a pronunciare quelle affermazioni del capitolo VIII, da taluni non proprio ben accette. Un matrimonio non si chiude solo con la morte fisica di uno dei due coniugi, ma anche quando tutta la relazione è ormai priva di vita. Dopo una crisi “mortale”, alcune persone riescono a ricostruire la loro vita insieme ad un’altra persona: «non hanno rinunciato alla speranza di un’unione che esprima davvero l’indissolubilità dell’amore di Dio per noi in Cristo». Perché non dovrebbe vincere la misericordia? «Nessuno può essere condannato per sempre, perché questa non è la logica del Vangelo!» (Al 297). Se questo non è un paradosso…

TIMOTHY RADCLIFFE, Alla radice la libertà. I paradossi del cristianesimo, Editrice Missionaria Italiana, Bologna 2018, pp. 160, € 15,00 (e-book € 9,99).

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