Università tra digitale e analogico

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Analogico o digitale? Il ritorno a un modo analogico di insegnamento non dovrebbe venire immediatamente squalificato come antimoderno, né si dovrebbe considerare l’insegnamento digitale a distanza come la soluzione di tutti i problemi – una sorta di panacea di tutti i mali del mondo accademico.

Certo, l’insegnamento digitale rimane l’occasione del momento se in gioco vi è la salute degli studenti e dei docenti nei mesi che stanno davanti a noi contrassegnati dalla crisi provocata dal Coronavirus.[1] L’insegnamento digitale rappresenta quindi un importante mezzo di supporto affinché l’università non scompaia del tutto dagli scenari delle nostre società.

La misura dei volti

Posso scrivere sulla questione solo a partire dalla mia prospettiva, che è limitata e può incorrere in errori. Le mie esperienze mi portano però a dover riconoscere un fatto: il nostro piccolo dipartimento di teologia cattolica all’Europa-Universität di Flensburg si nutre in maniera intensa di dialogo e prossimità. Le piccole dimensioni dei vari anni di corso permettono un buon accompagnamento degli studenti: nessuno si può nascondere nel corso delle lezioni o dei seminari, e anche io ricevo dei riscontri immediati (con garbo ma onestà) da parte degli studenti nel caso abbia virato verso galassie che nessuno di loro ha ancora scoperto.

In questo caso, il mio compito è quello di costruire con gli studenti una navetta spaziale per proseguire insieme il corso. Oppure quando, ben preparato, mi addentro sui sentieri di una lezione e constato che mancano le basi necessarie per seguirla… Quindi, si deve tirare il freno e incominciare di nuovo in una maniera adeguata. Questa libertà e flessibilità sono tesori preziosi che non devono andare persi.

Dopo un semestre di pratica e osservazione, desidererei che si potesse istruire un vero dialogo su vantaggi e svantaggi dell’insegnamento digitale a distanza – e non limitarsi unicamente (in maniera ideologica) a statistiche e misurazioni quantitative dell’esperienza fatta finora… nel caso peggiore con l’idea che si possa risparmiare sul personale docente se solo ci fossero sufficienti conserve digitali a disposizione in dispensa.

Ma quale idea di apprendimento e formazione sta dietro a questo modo di pensare degli apparati amministrativi delle nostre università? E, in queste nuove condizioni, come sarebbe mai possibile ad esempio una buona riuscita di un corso di lingua straniera?

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Imparare a mettersi in questione

Eccolo qui, lo straniero, l’estraneo: «Quello che fa l’educazione e la formazione non ha nulla a che fare in primo luogo con il lavoro, la prestazione e il successo. Si tratta invece di qualcosa di molto più fondamentale e semplice: esse ci insegnano a guardarci. Educazione e formazione rompono la strettoia della nostra routine e delle nostre prospettive limitate, ampliano le nostre capacità di empatia e la nostra fantasia morale».[2]

Per dirla subito: sono a favore di una forma mista che sappia combinare i punti di forza di entrambi i modi di insegnamento; come sono a favore di un approccio critico alle debolezze dell’analogico e del digitale. Lo confesso, amo la mia lavagna: nessun trasformatore da caricare; nessun update che si blocca proprio quando non dovrebbe; nessun cavo che non funziona o proiettore rotto… Anche se le mie immagini sulla lavagna iniziano con un chiaro stile romanico per scivolare poi lentamente in direzione Jackson Pollock… Viva la cinestetica!

Inoltre, l’insegnamento digitale a distanza presuppone un adeguato equipaggiamento e competenza da parte dei datori di lavoro e dei luoghi di formazione – e non semplicemente un cinico fate come potete e compratevi voi la roba.[3] A questo si aggiungono ulteriori aggravi a seconda della situazione di lavoro, famigliare e abitativa. Non dobbiamo poi dimenticare che, per correttezza e per non creare favoritismi, tutti gli studenti dovrebbero essere equipaggiati con media digitali (e ricevere il sostegno economico necessario) per poter partecipare in maniera adeguata a lezioni ed esami – questo sarebbe un ottimo investimento per il futuro.

Molto di ciò che passa nella forma analogica di insegnamento si sottrare alla quantificazione: la formazione della personalità, tutto ciò che accade sul piano informale, l’inaspettato, la spontanea impossibilità di pianificare l’andamento di una lezione – tutte cose che sfociano nella sorpresa della conoscenza oppure nella mortificazione della noia, con tutto il corredo di ironia, gioia, ma anche con lo spazio per tristezza e fallimento.

Detta in una parola: siamo esseri umani con tutta la nostra corporeità – dalla voce fino alla comunicazione non verbale. Ognuno di noi ha la sua personalità: nel corso di una lezione tutte queste personalità entrano in contatto e frizione fra di loro, ma nell’ambito di un percorso comune. Siamo le nostre storie: dobbiamo poter narrare – di noi e anche dei contenuti accademici: entusiasmandoci e affascinandoci, non lasciandoci quieti e sfidandoci, per coinvolgere altri in queste storie come un invito (a un vedere più ampio) in tutta libertà.

Universitas come communitas

Forse è proprio per questo che le grandi opere filosofiche, da Platone a Cicerone per esempio, sono redatte in forma dialogica. Sulla stessa lunghezza d’onda si pone il fisico e Nobel americano R.P. Feynman: «credo che la miglior meta educativa venga raggiunta quando si dà un rapporto personale tra lo studente e un bravo docente – una condizione in cui lo studente mette in discussione le idee, pensa sulle cose, e poi parla di tutto ciò. È impossibile imparare molto stando semplicemente seduti in aula o facendo bene gli esercizi assegnati».[4]

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Che cos’è l’università nel suo nocciolo duro? «Nel 1208 papa Innocenzo III ha usato questo termine in un privilegio pontificio mediante il quale concede il riconoscimento a tutti i professori di sacra scrittura, delle decretali e delle arti liberali a Parigi come universitas (comunità)».[5] Credo che ciò sia proprio quello che è mancato ai nostri studenti in questo periodo: sentono la mancanza di questo sentimento comunitario nelle relazioni personali e anche nello scambio accademico. Gli anni di studio… pur con tutte le difficoltà e sfide possibili, una fase davvero bella e unica della vita.

Il libro, la pagina, la finitudine

Per non parlare poi della situazione ancora più drammatica in cui si sono venute a trovare le nostre biblioteche (unita alle possibilità economiche degli studenti, proprio ora che hanno perso i loro lavori part-time), che fa rattrappire ancora di più i multi-versi immaginativi dell’esperienza «libro». È reale quello che si trova su Internet? Vero senza alcuna verifica? Deve essere importante perché si trova in Internet – oppure…? Benvenuti nell’eco della camera autoreferenziale e nella bolla digitale?[6] Vi prego di comprendermi: non sono affatto per un congedo da Internet, ma per un approccio critico con tutto quello che comporta accedervi.

Certo, una turbo-digitalizzazione[7] sarebbe pane prelibato per i denti delle posizioni di tipo trans- e post-umanistico. Oppure si tratta piuttosto nuovamente di fantasie di potere per compensare la minaccia di perdita del controllo e dell’immaginazione causata dalla crisi del Coronavirus? Nascondere la paura davanti alla nostra finitudine attraverso trastulli mediali dove noi, in un regno virtuale, freghiamo contingenza e caso cliccando sul mouse? La domanda rimane: in primo piano non sta oramai sempre più l’armamentario digitale invece che discorsi, discussioni e argomenti?

Entrare in un’aula universitaria è sempre qualcosa di particolare: ci si riunisce in un determinato luogo a una certa ora, che è stato riservato proprio per questo. Quello che vivo ora nel mio ambito privato è invece tutt’altro: un laptop si è incaponito a funzionare a dovere (mentre un altro no) e pretende che io risponda alle emails. Poi, nello stesso momento, suonano il telefono fisso e il cellulare – ovviamente, di sottofondo, si fa sentire la lavatrice che (proprio ora, cavolo…) sta facendo la centrifuga. Poi la batteria del portatile si scarica, i nuovi updates lo bloccano, e per finire il toner della stampante è finito… Tutto è necessario, ma a suo tempo.

Essere moderni

Se voglio leggere e scrivere devo disconnettermi (nel vero senso della parola): ridurre per quanto possibile il mondo della tecnica, perché sono consapevole delle mie ridotte capacità di multitasking. E poi voglio dedicarmi anche ai libri, agli argomenti di una discussione – o anche solo ascoltare musica classica o la lettura di libri irreali. Tutto ciò merita questa attenzione, la mia attenzione. E mi devo concedere anche il mio tempo per poter comprendere – talvolta ci vogliono anni.

Digitale non significa per sé moderno. Moderno è il modo in cui ci rapportiamo a esso – e in questo caso l’analogico può essere altamente moderno. Una buona misura contro il Coronavirus? La ricerca – che ha quantomeno ha ancora qualcosa che fare con le università (almeno prima che venissero distrutte, economizzate, quantificate, modularizzate, dal processo di Bologna – questo almeno è il mio parere). Ricerca: l’impresa solitaria che porta al dialogo (e viceversa); osare e mettersi in moto; incominciare di nuovo e ricominciare  da capo; e, cosa più importante, libertà da ogni ideologia di qualsiasi tipo.

Una libertà da difendere

Questa libertà merita di essere difesa sempre di nuovo, altrimenti vivremmo ancora su un disco piatto, prenderemmo le stelle per fuochi di bivacco celesti, gli atomi per palline sfiziose, non avremmo alcuna democrazia… e nemmeno l’insegnamento digitale a distanza.

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Per concludere una piccola storia – una storia di fantascienza che suona oramai quasi vecchia di Isaac Asimov che inizia così: «La sera Margie scriveva addirittura un diario. Alla pagina del 17 maggio 2157 la seguente frase: “oggi Tommy ha trovato un vero libro”».[8]

E finisce così: «Pensò alla vecchia scuola, quando il nonno di suo nonno era un bambino. Tutti i bambini del villaggio arrivavano insieme urlando e ridendo nel cortile della scuola, sedevano insieme in classe e andavano insieme a casa finite le lezioni. Imparavano le stesse cose, così che potevano aiutarsi con i compiti a casa e parlarne tra di loro. E gli insegnanti erano delle persone… Sullo schermo dell’insegnante meccanico comparvero le parole: “se vogliamo sommare le frazioni ½ e ¼…”. Margie fu costretta a pensare come dovevano essere felici i bambini di quei giorni oramai lontani. Che bella cosa che quei giorni ci siano stati».[9]

Markus Pohlmeyer è docente di teologia presso l’Europa-Universität Flensburg, dove insegna anche nel corso di specializzazione «Cultura, linguaggio, media». Si ringrazia il direttore della rivista CultMag, Thomas Wörtche, per il permesso di traduzione in italiano.


[1] Cf. N. Mukerji – A. Mannino: Covid-19: Was in der Krise zählt. Über Philosophie in Echtzeit, 2. Aufl., Stuttgart 2020.

[2] J. Roß: Bildung als „Ausdehnung unserer Sympathien“, in Forschung & Lehre 6/20, 481.

[3] Si dovrebbe chiarire anche le questioni giuridiche inerenti la protezione dei dati.

[4] R. P. Feynman: Vorlesungen über Physik, Bd. I, hg. v. R. P. Feynman, R. B. Leighton, M. Sands, übers. v. H. Köhler u. E. Schröder. 3. Aufl., München – Wien 1997, 4.

[5] H.-A. Koch: Die Universität. Geschichte einer europäischen Institution, Darmstadt 2008, 27.

[6] Cf. R. Jaster – D. Lanius: Die Wahrheit schafft sich ab. Wie Fake News Politik machen, Stuttgart 2019.

[7] Come contrappunto si veda: G. Zurstiege: Taktiken der Entnetzung. Die Sehnsucht nach Stille im digitalen Zeitalter, Berlin 2019.

[8] I. Asimov: Die Schule (1954), in: Ders.: Meine Freunde die Roboter. Erzählungen, Mit einem Vorwort v. G. Bear, (versch. Übersetzer), 3. Aufl., München 2006, 420-424, qui 420.

[9] Asimov: Schule, 423 f.

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