Vita cristiana e potere delle immagini

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crocifisso

La storia dell’arte ha prevalentemente raccontato una storia di forme. Il suo interesse primario era rivolto al come un quadro veniva dipinto o a come una scultura veniva modellata. Quanto al «cosa» del suo contenuto figurale, esso restava una variabile, rilevante ma non prevalente, sulla scala qualitativa dei «come», che alla fine di tutto rimaneva il vero elemento differenziale del suo mondo visivo. Questo non le ha impedito di svelare aspetti essenziali di certe immagini e produrre nel suo esercizio una ricchezza letteraria formidabile. Ma ha lasciato anche inesplorato un arcipelago di interessi ancora da considerare.

Aby Warburg, pur mantenendo lo sguardo fermo sul primato delle forme, osservandole dal punto di vista del loro contenuto iconico, era stato il primo a collocarle sullo sfondo di un flusso temporale che non rispetta una dinamica strettamente progressiva. Aveva intuito che le forme, più che evolvere, tendono a ripresentarsi. Dando vita al suo «atlante della memoria» aveva mostrato che, anche solo in quanto luogo iconico, il flusso delle forme lasciava intravvedere concatenazioni capaci di perdurare lungo il corso del tempo. Si poteva così osservare come, scomparendo e ricomparendo, per ragioni quasi mai legate alla loro «qualità artistica», esse ereditano, scambiano, avvicendano, stratificano e fondono significati fluttuanti all’interno della loro natura di involucri visivi resistenti al tempo. Quelle forme che la storia dell’arte si era abituata a disporre lungo la linea progressiva del loro sviluppo qualitativo erano prima di tutto «immagini» di cui occorreva prendere sul serio la funzione iconica.

Ma nemmeno questo era tutto. Le immagini si danno certamente in una forma, ma vivono assicurando gli imprescindibili effetti di una forza. La loro «bellezza artistica» resta una delle componenti di quanto mette in azione il loro potere iconico. Trascurare questa differenza ha spesso impedito di capire la vera natura di molti oggetti. Quando Andrée Malraux nel 1947 scriveva un libriccino intitolato Le Musée Imaginaire si premurava di sottolineare come le moderne tecniche di riproduzione delle immagini, superando molti limiti di tempo e spazio, potesse consentirci uno sguardo sui prodotti estetici dell’uomo molto più ampio che quello selezionato in una classica esposizione museale, permettendoci per esempio di paragonare un Cristo catalano del XII secolo con una statua rituale della civiltà khmer. Nell’ultima introduzione al saggio Malraux si esprimeva in termini che restano ancora oggi di una chiarezza esemplare: «Un crocifisso romanico non era anzitutto una scultura, la Madonna di Cimabue non era anzitutto un quadro, anche l’Athéna di Phidia non era anzitutto una statua» (Le Musée Imaginaire, Gallimard, Paris 1965, 11). La vita delle immagini si svolge in una costellazione di fenomeni che è molto più ampia della mera tassonomia della storia dell’arte. (…)

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La convinzione di fondo che muove il racconto di questo libro è che i bisogni della vita cristiana e il potere simbolico delle immagini, hanno dato vita nel tempo a vari modelli di incontro, secondo paradigmi che ogni volta hanno assegnato all’immagine, anche quella definita sacra, una diversa funzione. Provo a disegnare la mappa sintetica delle tappe che vengono sviluppate in questo racconto. Esso tratteggia sostanzialmente l’avvicendarsi di tre tempi.

Il primo tracciato storico, che si slancia per un’ampiezza di quasi tredici secoli, può essere definito, seguendo il famoso titolo di Hans Belting, un’epoca di «culto delle immagini». Un cristianesimo in ascesa eredita dalla cultura antica una «concezione attiva» dell’immagine che, attraverso il crogiolo della teologia e superando vecchie inibizioni aniconiche, confluisce nella funzione assegnata alla nuova immagine cristiana. Nota con il termine di icona, essa condensa un tale densità simbolica da lambire i confini del potere sacramentale oltre che rappresentare un analogo della reliquia e del segno eucaristico. Un tale potere garantisce il realismo della presenza nella delicata comunicazione tra mondo sensibile e mondo soprasensibile. In ordine alla sua efficacia restano sostanzialmente impercepiti quei particolari criteri di qualità cui si darà nel tempo il nome di arte. Sono ben più dirimenti quelle differenze di ordine teologico che permettono di distinguere un’icona da un idolo. Questa distinzione è quella che determina la funzione delle immagini sacre fino alle soglie dell’umanesimo.

Il secondo tempo di questo racconto avviene nei confini della «modernità», intesa come arco che unisce il fiorire dell’umanesimo e il suo sviluppo nei secoli della ragione. La differenza tra idolo e icona non è più così trasparente. La teologia provvede a separare rigorosamente le prerogative dell’immagine e quelle del sacramento. Sull’eucaristia viene posto tutto il peso della «presenza reale». L’immagine diventa luogo della «rappresentazione». La bolla neoplatonica dell’antica cosmologia, prima si incrina, poi si dissolve. L’immagine non è più sacramento dell’altro mondo, ma rappresentazione di questo. Non significa che essa non sia più veicolo della dimensione spirituale. Ma dovrà farlo secondo un diverso ordine di mediazioni. Legata alle capacità tecniche dell’uomo, essa è ormai «opera dell’arte» e da sacramento astorico di un tempo ora entra nel catalogo di una disciplina che ha la sua autonomia e la sua «storia». Infatti l’arte finirà per essere un analogo della religione, per poi prendere la propria strada.

Il terzo momento è quello in cui ci troviamo noi. La civiltà forgiata dalla ragione ha perso la fede in ogni possibile «narrazione». Non esistendo più un «fondamento» la dimensione estetica si incarica di coprire il gigantesco vuoto della sua assenza. Le immagini non sono riflesso della verità, nemmeno rappresentazione del mondo, ma la sola realtà esistente. La tecnologia ha ampliato in modo smisurato il loro campo di azione. Nel nostro mondo tutto quello che ha pretesa di essere «reale» deve passare attraverso le immagini. Una nuova simbolica forte, anche se priva di una referenza trascendente. Non abbiamo ricominciato noi a parlare di «icone»? La vita sociale si estetizza in ogni suo aspetto e ogni «immagine» del passato diventa contemporanea del suo gioco. La «storia dell’arte» ha chiuso la sua parabola epocale. Quello che oggi chiamiamo «arte contemporanea» ha assunto altre missioni. Essa permette la sopravvivenza di quel permanente iconoclasmo che nella storia combatte sempre il pericolo di una idolatria dell’immagine onnipotente. In tempo di «tirannia della bellezza» l’arte batte i palcoscenici della commedia e della tragedia. Nel frattempo la vita cristiana è finita ai margini del mondo e fatica molto a comprendere quello che vi accade. Subisce il nuovo impero delle immagini ma non sa trovare aiuto dalle arti.

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In un racconto tripartito come questo è bene scansare subito le ingenuità. Il suo dipanarsi farà uso di riferimenti cronologici che vanno però presi in senso relativo. Non si tratta di quantità temporali che si sostituisco vicendevolmente da un giorno con l’altro. Si tratta di flussi epocali che si avvicendano per dissolvenze incrociate. Mentre si accendono le prime luce dell’epoca nuova sono ancora intense quelle della precedente. Per questa stessa ragione, gli elementi emergenti in ognuno di questi tre tempi non si dissolvono semplicemente all’avvento degli altri, ma permangono in composti chimici riorganizzati ogni volta. Nei tempi di culto delle icone non è assente l’aspetto rappresentativo delle immagini, come in piena epoca di «storia dell’arte» le sculture e i dipinti non perdono completamente il loro potere «iconico». Si tratta di «emergenze» che qualificano un determinato periodo storico senza mai perdere del tutto le tracce di quello che hanno ereditato. Nondimeno esse impediscono di poter considerare questi fenomeni come un miscuglio sempre indiscernibile di principi attivi intercambiabili. Non è così.

Il rapporto tra potere simbolico delle immagini e bisogni della vita cristiana, per quanto sempre molto fluido, ha dato vita a modelli relativamente configurati, in cui quello che ci siamo abituati a chiamare immagine sacra ha assunto caratteristiche e funzioni anche diverse. Il nostro è il tempo in cui essa, tra mille difficoltà, sta cercando la sua nuova sintesi. Ciò di cui la cultura media dei cristiani oggi non ha coscienza, è proprio questa condizione di lenta emersione di un nuovo modello, avendo perso memoria della sua natura storica. Essa quindi ricorre continuamente al ripostiglio del suo passato, quando non frequenta i «discount» delle novità a buon mercato. Non ha pazienza. Vedere il passato come un ricettacolo di variazioni, anziché una ripetizione dell’identico, consente al futuro di prepararci novità. Così il presente può essere un luogo di attesa.

Questo libro è scritto per essere capito da tutti. Almeno da quanti sono sinceramente interessati a questi temi pur non essendo specialisti. I momenti, gli episodi, le figure e le opere prese in considerazione sotto attinti secondo criteri che non sarebbero quelli di uno storico dell’arte, il quale anzi lamenterebbe facilmente lacune e imprecisioni disseminate un po’ ovunque. Molti aspetti che uno specialista dell’arte riterrebbe decisivi qui non ci sono. Altri che normalmente vengono ritenuti trascurabili qui vengono ricordati in punti chiave del racconto. Non si tratta di dire cose nuove, ma di tirare fili diversi. Vuol dire attraversare lo stesso tracciato prendendo itinerari meno convenzionali per averne un’esperienza più ampia.

Riprendiamo parte della Introduzione del volume di Giuliano Zanchi, Un amore inquieto. Potere delle immagini e storia cristiana, EDB, Bologna 2020, pp. 264, 20,00 euro

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