Zucal: Ritornare alla nascita

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Una citazione – questa volta fuori da ogni valutazione accademica – l’ha registrata nella Lettera pastorale del suo arcivescovo, pubblicata nella festività di san Vigilio, patrono della Chiesa di Trento.

nascita

Silvano Zucal, Filosofia della nascita, Morcelliana, Brescia 2017

Il «pensatore trentino» di cui parla mons. Lauro Tisi in «La vita è bella», il filosofo che «si ripromette di colmare un deficit di pensiero, a suo giudizio, sull’atto iniziale della nostra vita» sottolineando come il concetto di «relazione» non sia un optional o una scelta di tipo morale, bensì una caratteristica esistenziale dell’umano, è Silvano Zucal, 60 anni originario della valle di Non, professore associato di Filosofia teoretica all’Università di Trento. È in libreria il suo ultimo libro Filosofia della nascita edito per i tipi dell’editrice Morcelliana dove è coordinatore scientifico dell’Opera omnia di Romano Guardini.

Nella presentazione lei fa riferimento a due eventi di carattere personale (la tesi di laurea sulla teologia della morte in Karl Rahner e la nascita delle due figlie), due eventi, di per sé non esclusivi, ma che a carattere generale possono essere stati condivisi da altri pensatori. Come mai, almeno nel panorama italiano fino al Novecento, assistiamo invece a quella che lei chiama una «latitanza»?

Non solo fino al Novecento, anche oggi di fatto in Italia non esistono studi significativi sul tema della nascita e questo rappresenta un quadro di singolarità rispetto al panorama internazionale. Mi riferisco, ad esempio, alla Germania dove sono uscite diverse monografie o alla Francia che conta importanti lavori. A mio avviso la spiegazione è di questo tipo: in Italia – penso anche alla voce sulla nuova Enciclopedia di Filosofia – il tema della nascita è declinato esclusivamente in chiave bioetica, finendo spesso per innescare conflitti pesantissimi che hanno talvolta assunto i connotati di una vera e propria guerra di religione. Ci si è concentrati sui temi bioetici, peraltro legittimi, mentre sul tema della nascita, sulla sua potenza simbolica non ci si è mai soffermati e questo in un Paese ad alta denatalità come il nostro appare quasi incomprensibile.

Dal punto di vista personale è vero che ho iniziato con l’analisi della teologia della morte in Rahner (EDB 1982) anche perché all’epoca si trattava di un tema molto sentito con richiami alla filosofia di Heidegger e poi la riflessione alla nascita delle mie figlie, ma è soprattutto questa latitanza sul tema che mi ha indotto alla ricerca. A questo riguardo è stato interessante vedere la reazione degli studenti, poco più che ventenni, al corso monografico che ho loro proposto: curiosità, apprezzamento, ma anche sorpresa e qualche volta scandalo.

Nella mia ricerca comunque il tema non è piovuto per caso: sono debitore a donne pensatrici, e in particolare Maria Zambrano, che hanno portato sul palcoscenico della filosofia – e mi auguro anche della teologia – tutto il tema della nascita. Mi riferisco anche ad Hanna Arendt o Kristina Süess.

Tutti abbiamo esperienza di una nascita (se non quella di un figlio proprio, quelli di altri): nella sua ricerca è partito dalla filosofia greca o anche da Omero. Come mai gli uomini avranno sottolineato il loro essere “mortali” rispetto alla caratteristica comune di “natali”?

Questo è comprensibile nel mondo antico dove gli dei greci erano immortali e gli uomini mortali: pensiamo a tutto il pessimismo tragico attorno al mito del Sileno che diventa paradigma del mondo greco («meglio sarebbe non essere mai nati e dove nati meglio morir presto») in parte ripreso dalla tradizione ebraica con il Vetero Isaia, Giona, Giobbe e molti altri, anche se il quadro cambia perché tutto viene portato davanti a Dio e rapportato alla relazione con lui.

Quello che invece sorprende è che lo «scandalo di Betlemme» – titolo di un capitolo (ndr) – tutta la benedizione della nascita di un Dio incarnato, venuto al mondo esattamente come noi, sia stata assunta con tanta difficoltà nella tradizione successiva e, di fatto, disattesa. Mi sono soffermato a lungo sulla gnosi, questo movimento gnostico sotterraneo che attraversa la tradizione cristiana, espresso anche da figure illustrissime come papa Innocenzo III, e che nasconde, non possiamo negarlo, tutta la difficoltà della tradizione medievale, e non solo di quella, di affrontare la nascita. Si  tratta indubbiamente di un evento che coinvolge la donna e quindi emerge la difficoltà del rapporto con la donna e ancora il confrontarsi con la corporeità e la sessualità, tutte tematiche che hanno impiegato secoli per essere assunte serenamente e positivamente. Quindi la benedizione scandalosa della nascita di Betlemme è un elemento che ancora oggi viene assunto con grande fatica.

Il suo distinguere la relazione corretta tra nascita e morte richiama da vicino il paradigma bio-medico per cui il contrario di vita non è morte, bensì “non vita”, mentre il contrario dell’evento morte è appunto la nascita. Nelle tradizioni arcaiche studiate dagli antropologi il legame appare più che stretto: se è stato l’affermarsi della cultura cristiana a cambiare le cose, come invertire la rotta?

Per un cristiano la morte è la “seconda nascita” per cui la nostra vita si snoderebbe da nascita a nascita. Questo dovrebbe rappresentare anche un impegno: se come diceva von Balthasar, «senza filosofia, nessuna teologia», forse sarebbe giunto il momento per la teologia, ma anche per la pastorale, di riflettere in modo non banale – vuoi nell’ambito della pastorale battesimale e in tutta l’iniziazione cristiana – su questo tema. Sapendo poi che nella cultura contemporanea, esistono filosofi con una lettura assai pessimistica, sarebbe quanto mai necessario farsi portatori di un messaggio di speranza.

Nelle parrocchie, accanto a incontri che preparano all’evento del morire, sarebbe bello riflettere anche sulla nascita e non solo in riferimento al momento rituale del battesimo, ma come offerta per tutta la comunità dei credenti. Di fatto in tutta la vita noi cosa siamo soliti ricordare? La data della nostra nascita, festeggiamo il nostro compleanno e, per i credenti, come invita anche papa Francesco, ricordiamo la data del nostro battesimo: queste sono le due date che ci ricordiamo, due date “natali”. Ma, al di là di un fatto puramente anagrafico, o al di là della nostra iniziazione cristiana, noi dovremmo dare un significato diverso a questa dimensione: la nostra data natale, per quanto riguarda il nostro compleanno, dovrebbe costituire una memoria umana di nostra madre e nostro padre che ci han dato la vita, la data del battesimo una riconoscenza nei confronti della paternità/maternità divina. Due dimensioni che dovrebbero essere di ringraziamento e non solo individuale o microfamiliare, ma sarebbe bello che in questi due anniversari significativi venissero coinvolti i nostri genitori – la madre che ci ha portato in grembo e il padre che ci ha assegnato il nome togliendoci dall’anonimato – e in occasione della memoria del battesimo la paternità/maternità di Dio.

Quanto ha pesato in questa messa in ombra del tema della nascita la cultura maschilista dei secoli passati? In questo panorama talvolta a tinte fosche Romano Guardini appare quasi una straordinaria eccezione…

Abbiamo espressioni forti un po’ in tutta la tradizione cristiana. Un esempio? Sant’Anselmo d’Aosta definiva la nascita come «frutto dell’umano imbestialimento». Espressioni terribili che mi hanno umanamente sorpreso e anche un po’ scandalizzato. Non dobbiamo però dimenticare che si tratta di un maschilismo che non era limitato all’ambito cristiano, ma che permeava tutta la cultura medievale e non solo medievale.

Pertanto se dobbiamo essere grati alle pensatrici che hanno affrontato il tema, esistono anche pensatori come Romano Guardini – di cui il prossimo anno ricorderemo il 50° della morte, non padre biologico, ma un padre della Chiesa del Novecento – che in quello splendido testo dal titolo Le età della vita (1953) non è partito subito dall’infanzia, bensì con grande finezza collega il tema della nascita alla fiducialità, frutto anche del fatto che prima di entrare in seminario e farsi filosofo e teologo aveva studiato scienze naturali ed economia. La nascita in qualche modo come momento di fiducia e di gratitudine, fiducia, all’opposto di Leopardi, in chi ci ha messo al mondo, quindi fiducia nel ministero di genitori e un atto di gratitudine nei loro confronti. Si tratta di una rara eccezione nel pensiero teologico dove sono presenti sì accenni, ma sporadici accenni, soprattutto in riferimento a quel passo evangelico dove nel dialogo con Nicodemo Gesù parla della rinascita o seconda nascita, spesso purtroppo assunta per condannare la prima nascita. Si è così usato, o abusato, di quel passo per parlare solo della nascita spirituale allontanando la nascita nella carne, quella nascita da donna che se l’ha attraversata Gesù di Nazaret non si comprende perché dobbiamo poi averla rimossa.

Al di là dell’evento biologico, lei sottolinea quel legame genitori/figlio attraverso quel «chiamare per nome» ed evoca quel concetto di «filiazione», cioè l’essere figli che mette in evidenza tutta la dimensione relazionale e dialogica della nascita. Per Enzo Biemmi sarebbe questa una provocazione continua a lasciarsi interrogare sul nostro modo di abitare il mondo: lei cosa ne pensa?

La nascita è già una relazione: non nasciamo da soli. L’evento nascita è sempre relazionale e l’uomo ha sempre fame di relazione. L’essere figli, quindi il rapporto con la madre e il padre e il rapporto dei genitori col figlio, rappresenta il primo nucleo relazionale decisivo e ciò che faremo nella vita, da bambini, da giovani e da adulti, sarà sempre un andare alla ricerca, come dice Peter Sloterdijk, di un «nuovo habitat relazionale». Se provengo da un habitat relazionale nel grembo di mia madre e non lo ritrovo attorno a me, nascono poi tutte le forme di melanconia, di depressione, anche patologiche, perché non siamo nati solipsisti. Il solipsismo è illusione, un divorzio dalla propria origine, non è la nostra identità. Essere chiamati per nome nel senso forte del termine, quindi anche da altri, non essere anonimi, intessere relazioni significative, rappresenta un rendere conto in ogni fase dell’esistenza all’esperienza stessa della nascita intrauterina, su cui insistono proprio le filosofe e i filosofi della nascita. Perché si parla sempre del “dopo”, mentre la vita intrauterina è semplicemente un dato da ginecologi ospedalieri collegato alle preoccupazioni legittime dei genitori per la salute del figlio che si va formando: invece, come sottolinea ancora Sloterdijk  rappresenta un dato fondamentale (parla, ad esempio, di iniziazione psico-acustica e cita le tribù africane dove il battito del tamburo riproduce il battito materno).

Nascere significa passare dal non essere all’essere, ma non si è generati dal nulla, bensì da viventi precedenti: nascita è quindi una sorta di “rigenerazione” in altra forma. Il nuovo soggetto è sconosciuto fino al momento della nascita: come declinare questa rigenerazione, questo senso di sorpresa nel quotidiano?

È illuminante in questo senso Maria Zambrano che afferma come la nascita rappresenti un compito per tutta l’esistenza. Non si nasce solo al momento della nascita, ma occorre «nascere, disnascere e rinascere». Si nasce, ma poi si cresce. Esiste il rischio di cristallizzarsi: occorre pertanto – lei usa la sua espressione spagnola – «disnascere» continuamente. Ogni tappa della vita, fino all’ultima è l’occasione di una rinascita, altrimenti si può rimanere cristallizzati e vecchi anche da ragazzi, da giovani. La nascita non è solo alle nostre spalle, è una sfida davanti a noi che fluidifica la nostra esistenza, la rende mobile, non ci permette di considerarci mai arrivati, di ritenersi compiuti. Alla nascita noi siamo beatamente incompiuti, a differenza degli altri animali, e dobbiamo prendere la nostra vulnerabilità e incompiutezza come una grande sfida che ci obbliga ad un apprendistato permanente. All’inizio siamo bisognosi di cura e lungo tutto il corso della vita siamo sfidati e destinati ad un apprendistato permanente.

Magatti e Giaccardi parlando di generatività sottolineano il superamento di cercare un ritorno immediato per quello che si fa e distinguono i takers (i predatori) dai givers che si sanno spendere per gli altri. Una caratteristica che dovrebbe accomunare tutti i genitori: lei cita Carla Canullo e quel suo «imparo a diventare madre» rispondendo all’altro. Si può dire che la nascita di un figlio ridefinisce l’identità dei due genitori?

Indubbiamente. È molto bello quello che dice Carla Carullo in riferimento all’evento fisico della dilatazione della madre al momento del parto. Oltre che una dilatazione fisica è una dilatazione psicologica e anche spirituale ed esistenziale. La madre si dilata, ma il padre ugualmente deve cambiare la propria prospettiva in quanto entra in una categoria di responsabilità. Parla del padre che la prende in braccio e la solleva. Il padre che aiuta a sorreggere il figlio appena nato: è una ridefinizione dell’identità che rimarrà permanentemente nei genitori anche quando i figli se ne andranno da casa e resterà il nido vuoto. La nascita dei figli ci ha modificato totalmente nella nostra struttura, un’esperienza che si è impressa per sempre e ci ha modificato umanamente. Avendo ospitato l’altro/a non possiamo poi non essere attenti alla dimensione della prossimità. L’esperienza della nascita è anche un’esperienza di apertura alla prossimità.

Dal suo osservatorio di pensatore quali prospettive nuove intravvede oggi per la filosofia e la società con questo aprirsi al tema della nascita o come lo definisce Lei il «tornare alla nascita»?

Per la filosofia mi auguro che mio libro non sia l’unico: proprio quest’anno è uscito il testo di una storica, Nadia Maria Filippini, dal titolo «Generare, partorire, nascere. Una storia dall’antichità alla provetta» (Viella 2017) e in ambito teologico qualche anno fa c’è stato anche un convegno della Facoltà teologica di Milano («Nascere, rinascere. Lo spirito come verità della carne», Glossa 2011).

Spero comunque che oltre agli studi e alle ricerche in ambito filosofico, si ampli anche la ricerca teologica e quella pastorale. Dobbiamo uscire da una tradizione che è molto molto discutibile e poco fedele all’evento di Betlemme. Quando celebreremo il prossimo Natale, questo potrebbe essere l’occasione per un ripensamento anche su questi temi, una riflessione un po’ meno superficiale: cerchiamo di offrire al mondo e alla comunità una bella riflessione sul tema della nascita.

In caso contrario rischiamo come cristiani anche una lettura superficiale del tema della denatalità italiana. Certamente ci saranno problemi di servizi sociali carenti, di asili nido insufficienti, di ritardo dell’ingresso della donna nel mondo del lavoro, di difficoltà di compatibilità tra lavoro e famiglia, ma tutto questo non può spiegare l’anomala situazione italiana a livello europeo: in un Paese che si dice cattolico lo stupefacente evento della nascita deve assumere una nuova luce.

È chiaro che la nascita di un figlio, in situazioni precedenti, avveniva per motivi quasi obbligati, ma oggi che di fatto si sceglie di far nascere qualcuno, per scegliere di avere un figlio bisogna saper apprezzare l’evento nascita.

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