Gesù, il Dio che si consegna

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Meditazione di mons. Daniele Gianotti, vescovo di Crema, tenuta nel corso della celebrazione della Passione del Signore.

Seguendo il suggerimento di un grande studioso del vangelo di Giovanni, provo a riprendere il racconto della Passione del Signore, che abbiamo appena ascoltato, a partire da un verbo importante, che ricorre spesso, principalmente durante il processo di Gesù davanti a Pilato: il verbo consegnare.

In greco, come pure in latino, è lo stesso verbo che significa «tradire»: ma proprio l’evangelista Giovanni ci invita a leggere la Passione del Signore non a partire dal fatto che Gesù è «tradito» o «consegnato» – ad esempio, consegnato dai giudei a Pilato – ma, piuttosto, osservando che Lui stesso, si consegna: il che è poi un altro modo per dire che, nella Passione, Gesù dona se stesso, in piena libertà, una libertà nella quale si riconosce l’amore che si dona fino alla pienezza (cf. Gv 13, 1), fino al «tutto è compiuto» della morte in croce.

A chi si consegna, Gesù? Prima di tutto, al suo popolo, a Israele. Sono i capi di Israele a organizzare, con l’aiuto di Giuda, l’arresto di Gesù; ed è davanti a due autorità del tempio, Anna e Caifa, che Gesù rende la sua testimonianza.

Ma, appunto, l’evangelista è molto bravo a farci vedere in che modo Gesù si consegna: è lui che si fa avanti, è lui che si presenta (anche se, nel suo «sono io!», non bisogna leggere solo una presentazione umana: è il Figlio di Dio, che si manifesta con questa parola carica di mistero); è lui che, in definitiva, si offre all’arresto, alle catene, all’interrogatorio e ai maltrattamenti.

Consegnato a Israele e ai pagani

Così Gesù, paradossalmente, conferma di essere venuto anzitutto per questo popolo, per il popolo che Dio si era scelto. Come scrive l’evangelista fin dall’inizio del Vangelo, «venne fra i suoi», venne nella sua casa, «e i suoi non lo hanno accolto» (1, 11).

Ma la risposta di Gesù al rifiuto che Israele gli oppone è precisamente questo suo consegnarsi nelle mani del suo popolo. Gesù non volta le spalle al suo popolo, non lo abbandona al suo destino: la sua vita donata, è donata anche per Israele, prima di tutto per Israele, perché Dio rimane fedele alle sue promesse e alla sua alleanza.

Poi Gesù viene consegnato ai pagani, nella figura di Pilato, il procuratore romano davanti al quale si svolge il processo decisivo, al quale l’evangelista dedica molto spazio. Gesù non appartiene solo a Israele: egli è il Figlio, che il Padre ha mandato nel mondo; davanti a Pilato, Gesù è davanti a tutti, e il suo destino riguarda tutti. Si consegna per tutti, perché il Padre lo ha inviato per la salvezza del mondo; e mette tutti di fronte al mistero della sua consegna.

Anche davanti a Pilato, come davanti ai sommi sacerdoti, le cose si ribaltano: Pilato si presenta come colui che ha potere di vita e di morte su Gesù, il potere di metterlo in libertà e il potere di metterlo in croce: ma si sente rispondere dal Signore: «Tu non avresti alcun potere su di me, se ciò non ti fosse stato dato dall’alto» (19, 11).

Ciò che è decisivo, non è ciò che Pilato potrebbe fare, e che effettivamente farà, condannando Gesù a morire in croce. È decisivo il fatto che Dio dona al mondo il suo Figlio, e che il suo Figlio si doni per quel mondo che lo respinge e lo condanna.

Per questo, la consegna che Gesù fa di sé pone a tutti domande molto serie. Gesù si consegna, docilmente, «come agnello condotto al macello» (Is 53, 7): ma interroga il sommo sacerdote e i suoi aiutanti intorno alla giustizia di quel che stanno facendo; interroga Pilato a proposito della verità delle sue intenzioni e del suo agire.

Consegna e giudizio

L’arrestato, il condannato, è colui che interroga, chiede e, in definitiva, giudica. Giudica proprio nell’atto stesso con il quale si consegna, perché così mette anche tutti noi davanti a queste domande: che cosa ne facciamo, della giustizia, della verità, del potere, della forza di cui disponiamo? La docilità del suo consegnarsi è un’accusa ancora più grave e forte; anche il suo silenzio davanti ai giudici diventa per noi la domanda più impegnativa.

L’ultima e decisiva consegna, che Gesù fa, è quella di se stesso al Padre. È l’ultima ma, in realtà, è quella che sta sotto a tutto, fin dal principio: perché il Padre, e la missione che il Padre gli affida, è ciò che da sempre muove ogni passo, ogni gesto, ogni parola e comportamento di Gesù; e non potrebbe essere diversamente per l’ultimo atto della sua vita terrena.

La Passione e la Croce sono il compimento, la pienezza di tutto ciò che c’è stato prima. Nel «tutto è compiuto», ultima parola di Gesù prima della morte, si raccoglie la verità di ciò che Gesù aveva detto un giorno: «Mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato e compiere la sua opera» (4, 34). Ora, nella consegna del Figlio fino all’ultimo respiro, l’opera del Padre si è compiuta.

Per questo, alla fine di tutto, la consegna suprema di Gesù al Padre coincide con la consegna che Egli fa a noi, e al mondo, del suo Spirito: «E, chinato il capo, consegnò lo spirito» (19, 30). È sorprendente, questa scena: ci si aspetterebbe prima l’esalazione dell’ultimo respiro, e poi il reclinare del capo. Ma Giovanni rovescia le cose, forse per farci vedere, in quel capo reclinato non tanto di lato, quanto in avanti, ancora una volta il segno del dono; dono che non è, però, soltanto l’ultimo respiro umano, ma il soffio dello Spirito Santo, il dono di vita divina, promesso da Gesù proprio in connessione con il suo «innalzamento» (cf. 7, 37-39).

E appunto innalzato da terra, allo stesso tempo nella passione e nella gloria, Gesù fa quest’ultima consegna: dona lo Spirito, perché anche noi possiamo vivere della sua vita divina, e perché, di fronte alle domande pesanti che la sua passione ci lascia – le domande sulla verità e la menzogna, sulla giustizia e l’iniquità, sul potere e sul servizio, sulla violenza e la mitezza, sull’odio e sull’amore… – non ci sentiamo solo smarriti, ma possiamo seguire la via che Egli ha tracciato per noi.

+ Daniele Gianotti

Vescovo di Crema

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