Stili curiali e analfabetismo teologico: Verona fidelis?

di:

zenti

Il grande conflitto, sorto tra il vescovo di Verona mons. Zenti e don Marco Campedelli, come è noto, è scaturito da una presa di posizione pubblica, che don Marco ha assunto mediante una «lettera aperta», in cui prendeva formalmente le distanze dalla missiva che il vescovo aveva scritto, pochi giorni prima, a tutti i suoi preti, nella quale entrava in modo esplicito nelle valutazioni politiche legate alle elezioni comunali, in vista del turno di ballottaggio.

Tutto questo è però solo l’orizzonte di uno scontro che ha poi preso figura nella «negazione dell’incarico di docente IRC» per il prossimo anno. Le parole del vescovo sono diventate chiare attraverso le interviste che ieri, 2 luglio, egli ha rilasciato alle televisioni locali, proprio alcune ore prima della nomina del suo successore, mons. Pompili.

Note della curia

Ma in tutto questo sviluppo di contrasti è entrata la parola dell’Ufficio Scuola della medesima diocesi veronese, che per due volte, a distanza di 24 ore, ha sostenuto due tesi opposte, con argomenti differenti e con oggetti diversi. Un esame attento dei due comunicati può essere utile per elaborare considerazioni di più ampio respiro, rispetto alle specifiche questioni «di giustizia», che sono ovviamente importanti, ma in modo contingente. Intendo dire che dai due comunicati si traggono due «stili curiali», molto diversi, ma alleati nell’esercitare quello che non è esagerato definire «abuso di potere» causato da analfabetismo teologico.

a) La nota del giorno 1° luglio

La posizione assunta dall’Ufficio Scuola è puramente formale. Nega ogni fatto: non vi è stato alcun licenziamento, non vi è alcuna possibilità di licenziamento, il vescovo è privo di potere e sono in mala fede tutti coloro che hanno parlato di ciò che non è mai avvenuto.

L’intervento, però, raffigura una Chiesa talmente priva di potere, da insospettire. Anche perché utilizza invece una pesantezza di giudizio verso i «giornali» (in particolare verso Adista) che appare del tutto sporporzionata. Il probabile intento era di «negare il fatto», per salvare il salvabile. Ma l’eccesso accusatorio rivela il carattere strumentale della ricostruzione.

In realtà, sia pure entro certi limiti, la Chiesa esercita un reale potere nell’insegnamento della religione cattolica e negarlo pubblicamente suona quanto meno sospetto. Si trattava di riconoscerlo, serenamente, e di ammettere che c’era un contrasto tra opinione del vescovo e opinione dell’Ufficio. Ma siccome per l’organigramma clericale «a priori» non può esservi difformità di pareri tra il vertice e i ministri, ecco che scatta la logica da «capro espiatorio». È tutta colpa di Adista, dei giornalisti, dei media, che mettono zizzania dove non c’è alcun contrasto.

b) La nota del giorno 2 luglio

Il vento cambia, non ci sono solo le proteste della base, ma anche quelle del vertice, e allora virata di 180 gradi. Una seconda nota scopre che Marco Campedelli è un «sacerdote», che ha promesso obbedienza nelle mani del vescovo. E che quindi, se come insegnante ha una serie di diritti, come prete deve rinunciarvi e adattarsi.

Qui al formalismo del «diritto comune» corrisponde la logica «sacramentale» del rapporto tra vescovo e prete. Un rapporto ricostruito con un paternalismo e una mancanza di discussione veramente impressionante. Così l’Ufficio di Curia, che il giorno prima negava ogni arbitrio episcopale sugli IRC, ora teorizza che per il Marco «sacerdote» vale una regola opposta, che l’Ufficio, imprudentemente, sintetizza nella forma di un giudizio quasi inappellabile:

«Don Marco è stato mandato al Maffei 22 anni fa come sacerdote, non come laico. Chiediamoci se il suo antagonismo in nome di una libertà di coscienza svincolata da ogni responsabilità possa oggi configurare ancora la possibilità di una sua riconferma come sacerdote al Liceo Maffei».

Come è evidente, i due stili curiali, quello del formalismo e quello del paternalismo, mancano precisamente di mediazioni istituzionali, per le quali ogni Curia avrebbe bisogno di cultura teologica e giuridica di qualità. Vediamo meglio che cosa manca a queste analisi superficiali e gravemente erronee.

Le tre questioni-chiave nel caso Campedelli

1. La differenza tra «pastorale» e «sacramentale»

Una «mitologia clericale» confonde le parole e le menti. Fa del «sacramento» non il limite del potere, ma lo spazio per l’arbitrio. Molto istruttivo è leggere, nella seconda nota, questa affermazione centrale, che merita di essere riletta integralmente:

«Il 13 maggio di 33 anni fa, don Marco ha messo le sue mani nelle mani del vescovo e gli ha promesso “filiale rispetto e obbedienza”, senza che nessuno lo obbligasse a far questo se non la sua libera coscienza come risposta ad una chiamata dall’alto. Il rapporto quindi che lega don Campedelli al vescovo è di natura non solo pastorale o giuridica, ma anche sacramentale, per chi ci crede».

Secondo il paternalismo curiale, ma non secondo la tradizione teologica, che la curia sembra non conoscere, il filiale rispetto e obbedienza comporterebbe, «per fede», la rinuncia da parte del figlio ad ogni dissenso nei confronti del Padre. Perché qui si sta parlando del dissenso che riguarda non il «Magistero autentico e ordinario», ma una lettera in cui si dicono cose politicamente discutibili.

Se il vincolo del silenzio riguarda anche le lettere elettorali, e si chiede al «sacramento» di coprire questi silenzi, è evidente che non si capisce che cosa si dice quando di parla di «sacramento». E non c’è nulla di peggio di una curia che usa «sacramento» in modo errato. Oltre al paternalismo davvero insopportabile di considerare il dissenso come «contraddizione con la ordinazione». Questo è anche umanamente un tratto moralmente riprovevole del testo.

2. La «comunione col vescovo» e lo spazio della teologia

Come conseguenza di questo primo abbaglio, il secondo è il modo di considerare l’«obbedienza» rispetto alla «parola». Obbedire vuol forse dire «tacere»? Non vale, anche per i ministri ordinati, la regola generale di una sapienza teologica, che permette di distinguere quando è bene parlare e quando è bene tacere?

E se il vescovo dice di aver scritto solo ai suoi «familiari», ma si tratta di ben 900 preti, ai quali parla anche dell’imminente turno elettorale, che non è solo «affare di famiglia», come è possibile considerare «scorretto» lo scrivere pubblicamente il proprio motivato dissenso?

E come può un Ufficio Scuola, che fino al giorno prima ha difeso sindacalmente la categoria degli insegnanti, convertirsi con un giro di valzer all’incompatibilità tra dissenso e incarico scolastico? Come si fa a passare in 24 ore dalla società della dignità (ma con menzogne) alla società dell’onore (ma disonorata)?

Se si considera che, nella stessa diocesi di Verona, una recente decisione del vescovo pretenderebbe di «formare» i diaconi permanenti senza alcun rapporto diretto con le istituzioni teologiche della diocesi, si vede bene come la fragilità dell’argomento corrisponde a uno specifico disegno: presbiteri e diaconi senza formazione teologica seria sono più «obbedienti», ossia più malleabili e soprattutto garantiscono il silenzio. Il disegno di scorporare la formazione diaconale dalla nutriente sapienza biblica, teologica, storica e spirituale da parte di questa deriva burocratica deve essere arginata.

3. Marco insegnante e Marco presbitero (non sacerdote)

Per finire, una piccola attenzione deve essere dedicata alla formidabile «clausola» del documento. Dove si auspica un paternalistico chiarimento (tutto a carico del presbitero), che però viene chiamato «sacerdote»:

«Chiediamo quindi a don Marco di perseguire questa via piuttosto che quella dell’esposizione mediatica, perché si possano trovare dei punti di incontro e una rinnovata “intesa e comunione con il vescovo” per lui tanto più importante e necessaria in quanto sacerdote».

Ecco, anche qui il «peccato originale» dell’esposizione mediatica. E il richiamo al «sacerdote». Credo che rispetto all’esposizione mediatica di Marco, il suo vescovo e soprattutto gli uffici di curia si siano esposti molto di più e con molto minore coerenza. Soprattutto manifestando una scarsissima coscienza delle questioni teologiche in gioco.

Di fronte all’ingiustizia un prete non può tacere. Le espressioni episcopali non sono tutte dotate della medesima autorità vincolante. L’ordinazione è al «presbiterato», perché il sacerdozio è patrimonio comune di tutti i battezzati, come munus che è esclusivo del Signore Gesù.

Comunione e omertà

Confondere la comunione da custodire con l’omertà è la tentazione di ogni autorità. Che non si rende conto che l’abuso di potere è la morte di ogni comunione. L’ idea che, per un prete, tacere di fronte ad una ingiustizia sia il suo dovere non rende diversa la Chiesa dalla mafia.

Per chi non crede la Chiesa, è solo un fatto. Per chi professa il Credo è una questione inaggirabile, che qualifica la fede. La soluzione di chi attacca l’asino dove vuole il padrone è blasfema. Purtroppo è la soluzione suggerita anche dal CIC del 1983, quando tende ad imporre, rispetto al motivato dissenso, un ossequioso silenzio, ma lo fa solo per il magistero ordinario, non per le campagne elettorali!

Una lettera elettorale può ben sopportare discussione, critica e dibattito, rispetto ai quali le esternazioni episcopali e curiali «di autorità» sembrano i relitti di un mondo che non c’è più. E questi «abusi di potere» tanto più sono facili se non c’è una diffusa cultura teologica, che sa smascherarne falsi presupposti e vere intenzioni.

Per fortuna, molti dei protagonisti di questa vicenda considerano la teologia secondaria. Ed è proprio la loro fragile teologia, ridotta a norme autoreferenziali, che torna su di loro come un boomerang.

  • Pubblicato il 3 luglio 2022 nel blog: Come se non
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6 Commenti

  1. Antonio Cecconi 9 luglio 2022
    • Pietro 11 luglio 2022
  2. Fiorini Enrico 8 luglio 2022
  3. Anonimo 7 luglio 2022
    • anima errante 8 luglio 2022
  4. Fabio Cittadini 7 luglio 2022

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