15. Il Denzinger del 1854 e la “forma canonica”

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Una bella occasione – un regalo inatteso – mi ha aperto un aspetto di Amoris lætitia che, seppur già considerato per altre vie, ora mi appare sotto una nuova luce e in tutta la sua rilevanza. Voglio dire della felice occasione (a), della scoperta sorprendente (b), del rafforzamento di quanto già saputo (c) e del nuovo approfondimento così realizzato (d).

a) La felice occasione di un regalo

Tutto comincia da un dono: una persona mi ha fatto un regalo del tutto inatteso. E dal dono ho compreso quanto la persona mi conosca, perché ha colto nel segno, come raramente accade. Mi ha regalato una copia del “Denzinger” originale, il manuale di dogmatica positiva, quello del 1854. Ovviamente questo ha avuto subito un impatto sulla mia curiosità. Che è corsa al frontespizio e poi all’indice sistematico (nella sua prima giovanissima forma) per arrivare all’ ultimo titolo dei 100 paragrafi di cui si compone. Con mia grande sorpresa ho scoperto che l’ultimo testo citato nella collezione di «simboli e definizioni in materia di fede e costumi», realizzata dal pioniere Henricus Denzinger, riporta, proprio al numero 100, alcune frasi della allocuzione di papa Pio IX, del 27 settembre 1852, «che riguardano il matrimonio civile».

b) La “finale” del Denzinger originale

Di grande rilievo è considerare il contenuto di queste affermazioni. Si tratta, ovviamente, di una forte denuncia contro lo stato moderno, contro il disprezzo che riserva alla dottrina della Chiesa, contro la riduzione del matrimonio civile al solo contratto, contro l’istituzione del divorzio e contro la competenza attribuita ai tribunali laici in questa materia. A seguire viene affermato un principio, che risulterà decisivo nel seguito della esperienza storica ecclesiale, ossia che «tra fedeli non si può dare matrimonio che nello stesso tempo non sia anche sacramento, e che perciò qualsiasi altra unione tra uomo e donna diversa dal sacramento, compresa anche quella regolata dalla legge civile, non è altro che turpe e esiziale concubinato». Di qui discende infine la competenza esclusiva della Chiesa in campo matrimoniale.

Con queste parole, di aperto scontro tra Chiesa e Stato liberale sul piano della “competenza giuridica” sul matrimonio, si chiude la raccolta del Denzinger di allora. Questo è sorprendente e assai istruttivo. Nei decenni successivi le cose si aggraveranno ancora: il Sillabo dieci anni dopo, poi la breccia di Porta Pia, la fine del potere temporale, per arrivare al primo grande documento che, nel 1880, sotto il successore di Pio IX, Leone XIII, sancirà l’inizio del “magistero de matrimonio”, ossia Arcanum divinae sapientiae.

c) Il tenore della autocritica di Francesco

Solo avendo ben presente questo orizzonte storico drammatico, che ha segnato non solo le grandi scelte della Chiesa cattolica della seconda metà del XIX, ma che ha lanciato la sua lunga influenza per più di un secolo, anche oltre il Concilio Vaticano II, possiamo comprendere il valore della “autocritica” che Francesco ha avuto il coraggio e la onestà di svolgere nei numeri 35-37 di AL. Se leggiamo queste parole alla luce di quelle di quasi 170 anni prima, comprendiamo il loro peso specifico e il valore di svolta che esse propongono alla tradizione ecclesiale. Le riporto integralmente, con le dovute sottolineature:

35. Come cristiani non possiamo rinunciare a proporre il matrimonio allo scopo di non contraddire la sensibilità attuale, per essere alla moda, o per sentimenti di inferiorità di fronte al degrado morale e umano. Staremmo privando il mondo dei valori che possiamo e dobbiamo offrire. Certo, non ha senso fermarsi a una denuncia retorica dei mali attuali, come se con ciò potessimo cambiare qualcosa. Neppure serve pretendere di imporre norme con la forza dell’autorità. Ci è chiesto uno sforzo più responsabile e generoso, che consiste nel presentare le ragioni e le motivazioni per optare in favore del matrimonio e della famiglia, così che le persone siano più disposte a rispondere alla grazia che Dio offre loro.

36. Al tempo stesso dobbiamo essere umili e realisti, per riconoscere che a volte il nostro modo di presentare le convinzioni cristiane e il modo di trattare le persone hanno aiutato a provocare ciò di cui oggi ci lamentiamo, per cui ci spetta una salutare reazione di autocritica. D’altra parte, spesso abbiamo presentato il matrimonio in modo tale che il suo fine unitivo, l’invito a crescere nell’amore e l’ideale di aiuto reciproco sono rimasti in ombra per un accento quasi esclusivo posto sul dovere della procreazione. Né abbiamo fatto un buon accompagnamento dei nuovi sposi nei loro primi anni, con proposte adatte ai loro orari, ai loro linguaggi, alle loro preoccupazioni più concrete. Altre volte abbiamo presentato un ideale teologico del matrimonio troppo astratto, quasi artificiosamente costruito, lontano dalla situazione concreta e dalle effettive possibilità delle famiglie così come sono. Questa idealizzazione eccessiva, soprattutto quando non abbiamo risvegliato la fiducia nella grazia, non ha fatto sì che il matrimonio sia più desiderabile e attraente, ma tutto il contrario.

37. Per molto tempo abbiamo creduto che solamente insistendo su questioni dottrinali, bioetiche e morali, senza motivare l’apertura alla grazia, avessimo già sostenuto a sufficienza le famiglie, consolidato il vincolo degli sposi e riempito di significato la loro vita insieme. Abbiamo difficoltà a presentare il matrimonio più come un cammino dinamico di crescita e realizzazione che come un peso da sopportare per tutta la vita. Stentiamo anche a dare spazio alla coscienza dei fedeli, che tante volte rispondono quanto meglio possibile al Vangelo in mezzo ai loro limiti e possono portare avanti il loro personale discernimento davanti a situazioni in cui si rompono tutti gli schemi. Siamo chiamati a formare le coscienze, non a pretendere di sostituirle.

d) La fine di un “paradigma” di pensiero e di prassi

Ciò che AL ha inaugurato non è una novità assoluta. Da un lato il documento svolge, con buona continuità, le conseguenze di alcune analisi che già erano presenti in Familiaris consortio di Giovanni Paolo II, ma dalle quali quel documento non aveva saputo o potuto trarre le necessarie conclusioni. Così, da un altro lato, AL supera i limiti di FC, recuperando una “libertà di manovra” che la Chiesa aveva avuto fino al Concilio di Trento, ossia fino a quando non ha sentito il bisogno di “istituzionalizzare” il matrimonio, mediante la richiesta di “forma canonica”. Ciò che accade, con AL, è il superamento della “forma canonica” come criterio unico del giudizio pastorale e morale. Non si supera, ovviamente, la forma canonica, ma la sua pretesa di esclusiva. Lo scontro tra forma canonica e forma civile, che si era delineato agli inizi del XIX secolo, che poi era esploso a partire dalla metà del secolo, e che è durato fino ai primi decenni del XX secolo, ha lasciato uno strascico teologico e pastorale per tutto il secolo, per trovare un inizio di soluzione solo con AL. Che di fatto riconosce “altre forme” nelle quali la comunione ecclesiale può essere vissuta. Già FC non chiedeva più ai soggetti in seconde nozze di separarsi, a certe condizioni, e quindi riconosceva la positività relativa della “forma civile”. AL promuove ora una più sensibile integrazione dei soggetti legati dalla forma civile, fino alla possibilità di una piena comunione. Sulle conseguenze di questa evoluzione avremo da meditare e da lavorare per decenni. Ma ora il dado è tratto, e possiamo finalmente liberarci dall’ossessione di dover ripetere la dottrina di Pio IX per essere ancora cattolici.

Un amico mi ha fatto un bel regalo. Questo volumetto prezioso, che ha 162 anni, mi ha fatto comprendere quale grande regalo si è lasciata fare la Chiesa, dalla inventiva con cui lo Spirito Santo ha guidato due sinodi dei vescovi verso una nuova frontiera, non senza le buone intuizioni e la generosa disposizione di un vescovo di Roma che, con tutta questa storia europea, non ha avuto nulla a che fare. Questa è stata la sua grande libertà e la sua nuova autorità. Ma è stata anzitutto una grazia. Infatti non è un merito essere nati americani. Come non è una colpa essere nati europei. Solo nel dialogo possiamo ancora progredire, imparando a scoprire nella diversa esperienza dell’altro non uno spazio da occupare e da ridurre, ma un tempo per camminare e per cambiare. Alla luce del Vangelo e della esperienza degli uomini.

Pubblicato il 1 giugno 2016 nel blog: Come se non

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