17. La tradizione cattolica e il “nichilismo canonico”

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Le reazioni all’espressione forte con la quale papa Francesco ha risposto con la consueta parresia ad una domanda sul matrimonio dimostrano molte cose: che la Chiesa è in difficoltà quando si toccano i suoi nervi scoperti; che le evidenze vengono spesso nascoste, edulcorate o negate addirittura; che una certa “moderazione” – sicuramente utile in molti casi – può anche minare a fondo la nostra capacità di avere rapporto con la realtà. Allora mi propongo di ricostruire brevemente il “caso”, di coglierne un senso non immediatamente evidente e di trarne alcune conseguenze non secondarie per la complessa recezione di Amoris lætitia.

a) La “battuta” del papa in originale e la sua “versione ufficiale”

In molti ambienti ecclesiali ha suscitato sconcerto la versione originale di una risposta di papa Francesco circa i “matrimoni nulli”, che egli ha riferito alla “maggior parte” dei matrimoni, poi correggendo la versione stampata con “una parte”. Ora, la versione “originale” parlata è significativa, mentre quella scritta è senza alcun significato. Che “parte” dei matrimoni siano nulli dice una cosa assolutamente ovvia. La vera notizia è che il papa dica apertamente che “la maggior parte” dei matrimoni sono nulli… E, se si ascoltano alcuni canonisti, si sente dire anche peggio, ossia che “tutti i matrimoni canonici” potrebbero essere riconosciuti nulli.

Questo dato, a mio avviso, porta alla luce una questione decisiva nella “cultura matrimoniale cattolica” degli ultimi due secoli. Poiché quella “nullità” che oggi possiamo lamentare in forma tanto diffusa, dipende da una “teoria del matrimonio” che è nata nel contesto dello scontro della Chiesa con il mondo moderno. Abbiamo fatto con il matrimonio come le compagnie aeree hanno fatto con la cabina di pilotaggio dell’aereo. Abbiamo blindato il “disegno divino” scritto nel matrimonio, rendendolo autonomo e compiuto, quasi autosufficiente. Abbiamo chiesto solo una cosa, agli uomini e alle donne: il “consenso originario”. In questo modo, pensavamo 150 anni fa, la pretesa moderna di “avere ragione” del disegno di Dio, e di piegarlo al proprio arbitrio, sarebbe stata ostacolata e combattuta in radice. Ma questo modello, lungo questi 150 anni, è diventato una sorta di boomerang. Da un lato, infatti, il “consenso” si è molto complicato, perché il “soggetto” è diventato complesso, condizionato dal contesto sociale, dal suo inconscio, da diverse logiche culturali, da nuove tutele giuridiche, da nuovi linguaggi e da nuove promesse. Dall’altro, questo sguardo concentrato solo sull’inizio ha distorto l’attenzione, ha portato ad accurate retrospettive, senza riconoscere alle crisi alcuna prospettiva. Ci siamo specializzati in “retrospettive sulle crisi”. A causa di un modello difensivo, privo di vera interazione tra divino ed umano, abbiamo perso il rapporto con la realtà umana e divina e alle sue nuove forme di relazione. Dire che “la maggior parte dei matrimoni sono nulli” significa ammettere che il nostro modo di comprendere ufficialmente il matrimonio non è più all’altezza né della libertà degli uomini, né della grazia di Dio. Il testo “detto a braccio” dice qualcosa di importante. Il testo scritto non dice nulla.

b) Un modo distorto di guardare al matrimonio

Ecco allora la questione: la nostra insistenza unilaterale e ossessiva sulla “verifica della validità” dipende da un difetto di approccio teologico, che la canonistica del XX secolo ha disinvoltamente avallato, senza alcuna significativa distanza critica. Giungendo a produrre quello che non è azzardato chiamare un “nichilismo canonico” sul matrimonio. Non si tratta, infatti, soltanto di “costatare una nullità”, ma di costruire progressivamente un sistema al cui sguardo “molti matrimoni” (per non dire quasi tutti i matrimoni) possono apparire “nulli”. Per aver accesso al reale – ossia alle vicende delle storie e delle coscienze dei soggetti – ci siamo sentiti costretti, nello stesso tempo, ad un duplice movimento. Ad onorare da un lato formalisticamente una “indissolubilità” che “si impone” per autorità, per poi svuotarla, dall’altro, di ogni contenuto mediante la rilevazione accuratissima di “vizi del consenso”.

Il mutare della società e dei soggetti passa così attraverso la “cruna dell’ago” di un “vizio del consenso”. Si pensi, ad es., alla “violenza”. In una società tradizionale tutte le “violenze” che i genitori imponevano a figli e figlie, nell’esprimere il loro consenso alle nozze, erano sostanzialmente inapprezzabili e irrilevanti. Solo una “società dei diritti” ha progressivamente elaborato un concetto di “violenza” (e di libertà) del consenso, che la società tradizionale conosceva solo molto approssimativamente. Ma – e qui sta il paradosso – la novità della società può essere apprezzata solo nella forma di una “nuova ermeneutica dei capi di nullità”. E questo non solo è troppo poco, ma opera continuamente una distorsione quasi irrimediabile nella percezione e nella elaborazione dell’esperienza dei soggetti, della loro storia e della loro coscienza, retrodatando ogni evento, ogni dolore, ogni scacco.

c) Le responsabilità ecclesiali nella tendenza a questo “nichilismo”

Se a questo “nichilismo matrimoniale” la Chiesa cattolica ha dato il suo contributo, lasciandosi mettere nell’angolo dalle proprie normative difensive rispetto al diritto civile, come possiamo oggi tentare di rispondere con responsabilità? La strategia di papa Francesco è chiaramente quella della “pluralità dei fori”. Se tutte le crisi passano soltanto attraverso il “processo canonico”, la Chiesa perde rapporto con la realtà. Per recuperare terreno e senso, occorre aprire un “foro alternativo”, che potremmo chiamare “foro pastorale”, in cui non si affrontano le questioni solo “ab ovo”, ma si accetta lo spazio e il tempo della relazione, la storia dei soggetti e la maturazione delle coscienze come regola dell’esperienza faticosa della comunione. Per far fronte al “nichilismo canonico” la Chiesa ha scelto, con Amoris lætitia, di aprire una strategia di “accompagnamento, discernimento e integrazione” che si colloca su un altro piano rispetto al “processo canonico” e che, inevitabilmente, lo circoscrive e lo delimita, sottraendogli definitivamente l’esclusiva di una autorità che era diventata sempre più imbarazzante, per tutti. Il sonno della “ragione giuridica”, che spesso perdura anche oggi, genera sempre mostri.

d) Il superamento del “modello giuridico” impostosi nel XIX secolo

Ma questo “parallelismo di fori”, che si inaugurerà con la recezione di AL a livello di prassi pastorale, non sarà il passaggio decisivo. Creerà nuove prassi, aprirà nuove speranze, entrerà meglio nelle dinamiche, ma sarà impotente sul piano dell’“oggettività formale”, che continuerà ad essere definita da un “diritto sostanziale canonico” che appare – anche alla luce della nuova esortazione – un “sistema inadeguato” di rappresentazione e di gestione del matrimonio. Questo punto avrà però bisogno di lunga e appassionata gestazione. Dovrà elaborare una “teoria matrimoniale” che traduca la parola di Dio in un contesto non più segnato dalla priorità di difendere la Chiesa dal “sopruso moderno”. Che la Chiesa conservi tutta la competenza su “unione” e “generazione” è stato il progetto del XIX secolo che con AL ha visto iniziare la sua fine. Quel modello giuridico ha, al suo interno, una lettura della Scrittura, della tradizione e del rapporto tra la Chiesa e il mondo che non risponde più alla dottrina comune, acquisita dopo il concilio Vaticano II. Solo con un profondo mutamento di “traduzione istituzionale” si potrà venire a capo della sfida secolare, che intorno al matrimonio, viene lanciata alla tradizione ecclesiale, come preziosa occasione di rinnovamento.

e) Le “chances” e le difficoltà di AL

Non vi è dubbio che in questo ambito il primo passo significativo viene mosso da AL. Che è “inizio di un inizio”, con la non piccola difficoltà di richiedere una “conversione” a pastori e popolo, abituati da almeno un secolo e mezzo all’“habitus” dell’esecuzione di normative dall’alto, stile che contrasta profondamente con le nuove richieste di accompagnamento, discernimento e integrazione, con largo spazio lasciato alla discrezione. Questi tre sostantivi indicano “modi di agire” che non sono affatto scontati e che contrastano profondamente con quella “identità di funzionari” che non pochi presbiteri vivono come profilo primario e che un non minor numero di laici pretendono dai loro preti, per aver salvata l’anima senza troppi problemi. Tra qualche decennio avremo “norme” capaci di formare “habitus” adeguati. Oggi dobbiamo creare le condizioni di “nuovi habitus” che possano tradursi, domani, in norme generali di altra qualità e finezza. Sarà un cammino lungo e duro, ma sarà l’unico che meriti di essere percorso. Nella speranza e nella carità. Perché domani il “nichilismo canonico” non sia più né il nostro spauracchio, né la nostra farmacia sottobanco.

Pubblicato il 27 giugno 2016 nel blog: Come se non

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