Curare l’islam radicale con il carcere?

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Carcere medicinale per l’islam radicale? Prolungare la detenzione carceraria di quei condannati che, pur avendo scontato la loro pena, siano ancora considerati vicini all’integralismo islamico: è una delle idee avanzate dal cancelliere austriaco Sebastian Kurz dopo l’attentato del 2 novembre scorso a Vienna, che ha portato alla morte di quattro persone e al ferimento di altre ventidue.

Autore del gesto Kujtim Fejzulai, vent’anni, viennese di nascita, macedone di ascendenza e per questo provvisto di due nazionalità, quindi due identità culturali, alle quali si sommava la terza, la fede islamica.

Nikolaus Rast, l’avvocato che si è occupato dei suoi guai giudiziari, descrive per la stampa un’«anima persa», introversa e solitaria, alla ricerca del «proprio posto». In quella personalità apparentemente dimessa s’innesca, però, qualcosa di grosso, perché il ragazzo inizia a fare incetta di armi, poi cerca di raggiungere l’Isis in Siria. Per questo viene arrestato e condannato a 22 mesi di reclusione, nell’aprile 2019. Ma, all’inizio di dicembre dello stesso anno esce, con la condizionale. Undici mesi dopo, il 2 novembre 2020, apre il fuoco tra i tavolini in strada, uccide sino ad essere ucciso.

Tra politica e diritto

L’annuncio del pacchetto governativo, nove giorni dopo i fatti, sta facendo discutere per il contenuto delle misure prospettate, tra le quali c’è anche l’introduzione di un reato di “Islam politico”, che il comunicato stampa del 12 novembre motiva con l’intenzione di «poter procedere contro coloro che non sono terroristi, ma che ne creano il terreno fertile». Significa intaccare libertà fondamentali costituzionalmente garantite? È ciò che temono giuristi come Alois Birklbauer, penalista dell’Università Johannes Kepler di Linz, le cui critiche sono state riprese e illustrate da un collega italiano, Vincenzo Pacillo.

Il dibattito merita di essere seguito, anche per le ricadute che esso ha nelle politiche di libertà religiosa in tutto il Continente.

Lasciando la parola agli esperti nel campo del diritto, chi scrive può dire qualcosa sull’idea di partenza: il prolungamento della carcerazione come cura della radicalizzazione. Il rischio è di trattenere il malato nel luogo dove ha contratto la malattia, o dove questa si è aggravata. Il carcere è, infatti, il luogo d’incubazione della radicalizzazione, o del suo sviluppo sino a diventare un tratto irreversibile della personalità.

Bisogna intendersi. C’è una radicalizzazione benedetta, quella che spinge a rompere con il mondo criminale una volta per tutte. Sono testimone diretto di tanti “miracoli” operati dal recupero forte dei propri valori religiosi.

Il problema nasce quando il recupero della propria integrità morale si associa al disprezzo crescente verso quella che si ritiene essere la decadenza morale del mondo circostante, a partire dai compagni di detenzione sino al mondo esterno “diverso da me”.

Anche di questa evoluzione sono testimone, attraverso i colloqui con tante persone detenute: cresce gradatamente nell’anima una visione manichea della realtà, la lotta senza quartiere tra bene e male, luce e tenebre, rafforzata da un tratto escatologico. È il senso dell’approssimarsi della fine del mondo, tratto ben noto nei testi fondanti dell’islam, che spingerà l’attentatore ad anticiparlo con la propria morte in battaglia, l’escatologia personale realizzata. Più la detenzione si prolunga, più queste idee fanno presa nella testa e nel cuore.

La missione rieducativa

Che cosa fare dunque? Il carcere oggi non è solo più un luogo di custodia, come nella vecchia concezione, ma anche un luogo dove si continua a indagare. Le indagini ci vogliono, anche se bisogna sapere che gli indagati si accorgono facilmente di quel che si muove intorno a loro, e facilmente mettono in atto strategie di dissimulazione.

La via maestra continua a essere, per chi scrive, quella culturale, vale a dire la missione rieducativa che l’art. 27 della nostra Costituzione affida alla pena. Bisogna accostare le persone lì dove i loro pensieri si producono e aiutarle, in gruppo e singolarmente, a smontare i pensieri di morte per costruirne altri di vita.

Mi chiedo che cosa sia stato fatto con Kujtim nei sette mesi che ha trascorso in carcere. E mi chiedo che cosa sia stato fatto con lui negli undici mesi di libertà prima dell’attentato.

Il problema è serio, perché non è solo una questione di amicizia e buone parole. Le ideologie radicali sono strutture di pensiero potenti e coerenti, che richiedono conoscenze approfondite al riguardo.

Gli insegnanti e gli educatori delle case circondariali sono professionisti straordinari, ma di norma non hanno alcuna formazione islamologica specifica. Discorso analogo vale per i mediatori culturali: parlano i mille dialetti delle persone detenute, ma l’islam che conoscono è per lo più quello ricevuto per osmosi dal contesto familiare. Così pure gli “specialisti della mente”, medici e psicologi: è chiaro che in molte storie di “lupi solitari” del terrorismo islamico ci sono delle sofferenze psichiche ma, per decifrarle e trattarle, c’è bisogno di una considerazione molto più fine delle culture di partenza.

È quello che fa l’etnopsichiatria, ma quanti in carcere e nei servizi sociali esterni la conoscono e la possono praticare con competenza?

La de-radicalizzazione è un lavoro paziente, individuale, che va iniziato in carcere e poi continuato fuori, in quel periodo di tempo cruciale rappresentato dai primissimi mesi di libertà, perché tornare liberi è uno choc più profondo dell’arresto. Ti può afferrare un senso di disorientamento e di frustrazione rispetto al quale la religione, nella sua versione “contro”, può funzionare come unico punto di riferimento.

Per Kujtim si è trattato di diciotto mesi, tra dentro e fuori, un anno e mezzo da utilizzare per riacciuffarlo alla vita, e anche il modo migliore per proteggere l’intera comunità.

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4 Commenti

  1. ewe 14 dicembre 2020
  2. Mimmo Pietanza 14 dicembre 2020
    • Adelmo li Cauzi 15 dicembre 2020
  3. Adelmo li Cauzi 13 dicembre 2020

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